Flyn, "Isole dell’abbandono. Vita nel paesaggio post-umano"

Recensione di Nicola Zengiaro

Spesso pensiamo allo scarto, l’abbandono, il rifiuto come una specie di attività umana tesa alla compromissione dell’ambiente. In questo senso, il nostro tempo si erge sullo scarto: pensiamo alla questione emersa dalla nozione di Antropocene, per quanto riguarda la segnalazione del punto in cui l’umano diviene una forza geologica che compromette le dinamiche ecologiche del pianeta. L’Antropocene si presenta come la traccia indelebile dello scarto di una specie; una sommatoria di rifiuti che non verranno assorbiti dall’ecosistema con rapidità. Le tracce di plastica segneranno il passaggio di una specie che è destinata a soccombere alla crisi climatica ed ecologica imminente. Così, la presenza del rifiuto diviene il segno di una civiltà che non è riuscita a comprendere come reintegrare, in una sorta di riciclaggio vitale, i propri prodotti di scarto. 

Quando si parla di crisi climatica ed ecologica, si fa riferimento all’acidificazione degli oceani, al discioglimento dei ghiacciai, al surriscaldamento globale, alla depauperazione dei terreni, alla sesta estinzione di massa e alla perdita di biodiversità. Tuttavia, a questa descrizione scientifica (ma altresì narrativa e culturale) si estromette un dettaglio assai importante: molteplici forme di vita non-umane sopravvivranno alla catastrofe: virus, batteri, funghi, alghe, piccoli animali. A questo proposito, non viene sottolineato mai abbastanza che a finire sarà un certo tipo di mondo, ossia quello umano. Già dalla fine degli anni ’90 del secolo scorso, si presagiva la fine di un certo tipo di mondo e i suoi protagonisti. In questa prospettiva emerge la figura del post-umano: una individualità che non ha superato l’umanità (né in senso migliorativo, come nel transumanismo, né in un senso gerarchico), ma l’ha semplicemente abbandonata; abbandonando in tal modo i costrutti che tale nozione qualifica. 

Il post-umano, però, non si presenta solo come una individualità che si ibrida con le altre forme di vita, integrandole nella propria prospettiva identitaria in una sorta di meticciato esistenziale. Esso si protrae anche nell’ambiente, nei paesaggi che danno luogo all’abbandono di quella che una volta era l’umana specie. I paesaggi senza “umanità”, però, non sono privi di vita, ma integrano una eterogeneità del vivente che lascia al vecchio mondo le favole della distinzione tassonomica e delle barriere di specie. Sono zone di alienazione – zone metamorfiche direbbe Latour –, luoghi eterogenei in cui la rinaturalizzazione è l’unico compromesso, dove il disastro ecologico è una parte essenziale nella rinegoziazione del rifugio per la sopravvivenza. 

Proprio di “isole rifugio” ci parla Cal Flyn, scrittrice e giornalista scozzese, autrice del libro Isole dell’abbandono: Vita nel paesaggio post-umano (Atlantide 2022). Il libro si presenta come una riesamina di alcuni luoghi abbandonati dall’umano, zone che per lo più sono state definite come invivibili, determinando a priori l’impossibilità per la vita umana e non-umana di abitarle. La scrittura fenomenologica di questi territori abbandonati si mostra come un percorso alla scoperta della resilienza della vita. Tali luoghi, descritti durante la visita spesso illegale da parte dell’autrice con persone che tuttavia hanno continuato a vivere in quei deserti di senso, si caratterizzano per l’assenza dell’interferenza umana dopo il disastro. Da intere zone di detriti a isole abbandonate, dai paesaggi di guerra ai terreni radioattivi, dalle paludi tossiche alle foreste rase al suolo, la metamorfizzazione della vita non attende alcuna direttiva e progettazione umana: 

Ci dedichiamo con grande convinzione a questo ruolo di amministratori della terra, decidendo chi vive e chi muore in una miriade di posti diversi. Una volta lasciata la nostra impronta in un ecosistema, riapriamo poi il cofano senza esitazioni per metterci a trafficare con i suoi meccanismi. Gestiamo la Terra come se fosse un enorme giardino botanico di cui prendersi cura; giudici delle altre specie, giochiamo a essere Dio (pp. 206-207).

Al contrario di quanto si pensi, le specie si ambientano rivoluzionando la loro ontogenesi e lo scenario che li ospita. Il paesaggio può essere inospitale, ostile, ma gli individui si adattano insieme alle loro comunità (se non periscono nel tentativo). La sopravvivenza è un modo di risignificare uno spazio in base ad una coevoluzione tra individuo e ambiente. Entrambi questi attori si adattano l’un l’altro, modificandosi vicendevolmente, nel tentativo di non estinguersi. Esiste difatti una tensione della vita, una sorta di agency del vivente, che spinge le forme a collaborare a una corrispondenza a volte impossibile da prevedere. Sorge nel cammino tracciato dall’autrice il senso di interconnessione di tutti i viventi negli ecosistemi che riteniamo impossibili da abitare. Anzi, le forme di vita non-umane molte volte assorbono lo scarto per renderlo una fonte di sopravvivenza. Specie metallofile assorbono le contaminazioni degli ambienti ostili, licheni che estraggono i minerali dai residui dei rifiuti, specie intere che sopravvivono grazie alle isole di plastica. L’evoluzione ci indica propriamente le ramificazioni e le possibili speciazioni che i non-umani possono attuare con estrema rapidità quando si trovano a un passo dall’estinzione.

Non è solo ciò che chiamiamo “Natura”, la vita selvaggia, a essere abbandonata e depauperata. Esiste anche unadomicology, ovvero una ricerca del ciclo vitale degli edifici. L’abbandono delle fabbriche, così come di intere zone delle metropoli, segnano la fine di una parte di vita della comunità umana; di un certo tipo di comunità. In questi luoghi esistono delle vite al limite, tossicodipendenti e prostitute, umani senza fissa dimora e scarti della società, che trovano uno spazio in cui esistere nel decadimento urbano. Il termine blight, indicando il degrado urbano, mostra come le città funzionino come degli organismi viventi che con i loro cicli evolvono, si crepano, periscono. Lo aveva mostrato con estrema lucidità la Scuola di Chicago all’inizio del XX secolo, modellando il pensiero urbano sull’ecologia; ma nelle isole dell’abbandono descritte da Flyn, possiamo scorgere nuovi scheletri degli immensi relitti urbani. In altre parole, processi necrotici si stagliano orizzontalmente su ogni sistema complesso del nostro pianeta, modellando e ridefinendo la forma e i significati della vita. 

È proprio questo tempo complesso, un tempo del collasso a cui abbiamo dato il nome di Antropocene, che dev’essere letto alla luce del post-umano. Abbandonando l’umano, con i suoi traumi e drammi, svuotando i significati che lo hanno prodotto e portato al collasso, è possibile dar vita a una collaborazione esistenziale. Oramai le tracce sono evidenti, sotto gli occhi, le radici, le zampe di tutti gli abitanti del pianeta. E non sta certo a noi riscontrare una soluzione poiché le redini di questo mondo non sono in mano nostra. Anzi, al contrario, Flyn ci mostra che abbiamo fatto anche troppo. Ora è tempo di lasciare alla natura lo spazio per riprendersi i propri luoghi, risignificando il pianeta per renderlo nuovamente abitabile. È l’abbandono, allora, la forma ultima di etica post-umana per sopravvivere tra le macerie di questo pianeta: «perché l’abbandono è rewilding nel senso più puro, laddove l’uomo fa un passo indietro e la natura si riappropria di ciò che un tempo era suo» (p. 12).

Nicola Zengiaro è dottorando in semiotica all'Università di Bologna, dove si occupa principalmente di biosemiotica e semiotica dei materiali. Si è laureato sotto la supervisione di Maurizio Ferraris all'Università di Torino, specializzato nel Master di secondo livello in Filosofia Morale all'Università di Santiago de Compostela e ha lavorato sulla biosemiotica durante la magistrale in Scienze Filosofiche all'Università di Verona. Fa parte della redazione della rivista Animal Studies: Rivista italiana di zooantropologia e ha pubblicato diversi articoli su riviste nazionali e internazionali sull'animalità e la questione animale.