Leblanc, “Teorie semiotiche del XVII secolo: Translatio signorum”

Recensione di Valerio Francesco Mangiacotti e Silvia Lusenti.

Hélène Leblanc, nel suo testo Teorie semiotiche del XVII secolo: Translatio signorum, analizza le concezioni del segno nelle filosofie del Seicento. Il libro è diviso in due parti: nella prima procede a un’attenta analisi dei commentari di Coimbra del 1606, specificatamente alle Questiones di Sebastiào do Couto. La seconda è dedicata alla ricerca delle divergenze tra gli autori tardo-scolastici e pensatori moderni quali Descartes, Bacone, Spinoza, Locke, Arnauld, Bayle, Gassendi, Hobbes. Tra questi autori solo alcuni hanno dato una definizione esplicita della loro concezione del segno, mentre gli altri sono inseriti in quella che Leblanc chiama semiotica implicita. La ricerca semiotica di Leblanc individua in effetti tre diversi approcci al segno negli autori considerati: la semiotica tardo-scolastica, che crea una definizione sistematica del segno, preparando lo scenario della riflessione moderna; segue poi la semiotica implicita, sviluppata attorno alle nozioni di rappresentazione e significazione; infine, una semiotica che restituisce il segno al suo contesto inferenziale (p. 26). Confrontandosi con i lavori di Nunchelmans (1980), Ashworth (2008) e Hamesse (2012), Leblanc sostiene che le sopracitate concezioni del segno, malgrado la loro discordanza, facciano del Seicento un periodo cerniera, caratterizzato ancora dall’influenza dell’aristotelismo. Proprio in questo periodo infatti, si forma una comunità di pensiero con la quale il XVIII secolo romperà: Leblanc ricostruisce tale evoluzione focalizzandosi sui concetti di segno strumentale e segno formale, dettati da Couto, e ricercandone le occorrenze e le assonanze concettuali nel corpus dei filosofi del Seicento. È in particolare dal De signis che viene riportata la definizione di segno contenente questa suddivisione: «Tutto ciò attraverso cui noi conosciamo qualcosa d’altro, è necessario che sia conosciuto da noi in precedenza, oppure no; se deve essere conosciuto (prima) si tratta di un segno strumentale; se no (è) formale (p. 29)». Leblanc giustifica il focus su Couto, piuttosto che su altri filosofi tardo scolastici come ad esempio Poinsot, attraverso due ragioni principali: la prima è la larga diffusione del commentario di Coimbra, la seconda è di carattere filologico e riguarda il rapporto che questi hanno con i riferimenti precedenti, di cui l’autrice offre un’ampia ricostruzione. È appunto attraverso i commentari di Couto che Leblanc offre al lettore una ricostruzione dell’approccio al segno nei commentari della tarda scolastica. All’interno dell’analisi di Couto nelle Questiones al cap 1 del De Signis viene riportata la definizione di segno di Sant’Agostino presente nel De Doctrina Christiana: «Il segno è una cosa che, al di là dell’immagine che essa offre ai sensi, fa nascere di per sé qualcosa d’altro nel pensiero». Questa definizione, ritenuta tradizionale, è utilizzata da Couto nel suo commento al seguente passo di Aristotele nel Peri Hermeneias I/16: «I suoni emessi dalla voce sono i simboli degli stati dell’anima, e le parole scritte i simboli delle parole emesse dalla voce. E come la scrittura non è la stessa presso tutti gli uomini, così le parole proferite non sono le stesse, benché gli stati dell'anima di cui queste espressioni sono i segni indicati siano identici per tutti, come sono identiche le cose di cui stati dell'anima sono le immagini» (p 42). Per non dilungarci eccessivamente, in questa sede non ci occuperemo delle questioni filologiche intorno al testo di Aristotele, di cui Leblanc discute abbondantemente all’interno del testo e alle quali rimandiamo il lettore interessato (p. 29-45).

La definizione agostiniana sarà applicata da Couto al testo di Aristotele, giustificando così l’introduzione della distinzione tra segni formali e segni strumentali. Infatti, i segni formali nella Questio 2 vengono definiti «Le immagini e somiglianze delle cose che impresse nella facoltà cognitiva conducono alla conoscenza delle cose (pag 59)». La conclusione a cui si giunge attraverso il testo di Couto è che i segni formali sono ciò che gli scolastici usano chiamare Species: quest’ultime sono considerate segni nella misura in cui esse conducono ad un primo atto per la conoscenza (p. 65); sono quindi considerate parte attiva nell’atto della conoscenza diretta. Couto fa riferimento alle quattro cause aristoteliche per indicare come le Species abbiano il ruolo di conferire forma a ciò che è conosciuto (Ivi).
Introdotto il segno formale è possibile così stabilire quale sia il segno strumentale, ossia un segno che richiede come condizione necessaria l’esistenza di una conoscenza preesistente che ne permetta la significazione.

 

Considerazioni metodologiche 

Nella prima sezione Leblanc prende in considerazione il commentario di Couto che, come già accennato, è un ottimo metodo per una ricerca attenta e inerente alle fonti del pensiero sul segno. L’analisi del commentario cala il lettore all’interno dell’ampio contesto filologico a cui gli autori della scolastica facevano riferimento, permettendo così a Leblanc di introdurre concezioni sul segno precedenti al Seicento ma di estrema rilevanza per l’oggetto dell’indagine; in questa maniera il lettore potrà comprendere le concezioni proposte da alcuni fra i più importanti autori della tradizione. Una problematica inerente a questa sezione, tuttavia, potrebbe sorgere per il lettore parzialmente o totalmente digiuno di filosofia medievale o di filosofia antica, al quale sarebbe utile fornire un’introduzione ai due campi prima di approcciarsi alla lettura di questo scritto. Leblanc estende la ricerca del segno strumentale e del segno formale anche agli autori non scolastici, al fine di delineare le differenze tra la concezione tradizionale e quella moderna, proponendo infine un utile filtro tra i filosofi e la critica attraverso una riflessione attenta e meticolosa dei testi analizzati.

 

Breve analisi dei capitoli

Nel primo capitolo, Leblanc introduce le differenze tra segno strumentale e formale cui abbiamo già accennato all’interno dello stesso capitolo poi, l’autore si occupa di riportare l’intera tassonomia dei segni in Couto citandone gli esempi e ricercandone la provenienza. La tassonomia è composta da diverse suddivisioni: nella prima si stabilisce come il segno sia sempre presente, ma il suo significato possa essere rivolto al passato (rammemorativo), al presente (dimostrativo) o al futuro (prognostico) (p. 54). La seconda suddivisione è quella considerata meno attinente da Couto stesso, ed è quella tra proprio e improprio: in base al criterio della finalità si stabilisce che un segno è proprio quando proviene da un’istituzione naturale, improprio quando conduce ad una conoscenza attraverso un altro segno che non è destinato a tale funzione (p. 57). Altra distinzione è quella tra segno naturale e segno istituito, il cui criterio è la volontà di significare. Segue la suddivisione tra segno formale e strumentale; infine, la suddivisione tra segno pratico e speculativo: mentre il primo significa e causa qualcosa, il secondo significa l’effetto di qualcos’altro (p. 60). Inoltre, da un punto di vista diacronico Couto individua le suddivisioni antiche (segni rammemorativi/dimostrativi/prognostici, naturali/istituiti), le suddivisioni tradizionali della scolastica medievale (segni pratici/speculativi) e le nuove suddivisioni tra segni propri e impropri, e segni strumentali e formali i quali, come nota Leblanc, Couto fa risalire strategicamente ad una concezione medievale non esplicitata (p. 61). Il resto del primo capitolo si occupa di chiarire al meglio la differenza tra segno strumentale e formale.

Nel Secondo capitolo Leblanc ricerca le fonti principali di Couto e la diffusione della sua concezione. Tali fonti, inserite all’interno dell’ambiente tardo-scolastico, sono principalmente Alberto Magno, Tommaso D’Aquino e Giovanni Duns Scoto. Inoltre essendo la suddivisione tra segni introdotta nel contesto del commento al Peri Hermeneias si annovera anche lo stesso Aristotele tra le Auctoritas prese in considerazione (p. 71). Altra fonte dell’autore è Egidio Romano, e infine viene anche citato Paolo Barbo, che rappresenta una fonte contemporanea dell’autore.

Il primo autore ad essere preso in considerazione, Alberto Magno, è incline a considerare le affezioni dell’anima come segni. L’indagine di Leblanc punterà a comprendere se il segno in questo autore possa essere considerato duplice (p. 73). È da notare, infatti, come tra le Auctoritas sia presente un certo disaccordo nel concepire le specie come segni. È il caso dello strano accordo costruito tra Tommaso e Scoto: Tommaso è incline a una concezione del segno solo in un quadro dove il rappresentare è qualcosa di ben distinto dal significare e i concetti o le species non sono propriamente considerabili come segni. Qualcosa significa solo quando rimanda a qualcosa d’altro da sé, mentre rappresentare è un concetto più largo che permette a qualcosa di manifestare il suo essere (p. 77). Couto, pur riconoscendo tale distinzione, cita di Tommaso il De veritate q. 4, art. 1 arg. 7 in cui si enuncia che il verbum interiore significa in misura maggiore del verbum esteriore. Leblanc indica questo testo come uno dei passi problematici di Tommaso, e riferendosi al testo in questione sembra che si possa parlare delle specie intelligibili come di segni (p. 79). Questa concezione concorderebbe con la concezione scotista secondo cui le specie sono segno di ciò che rappresentano. Tuttavia, il riferimento a Scoto è definito “frettoloso”, e ciò conduce la critica ad un dubbio sull’oggetto di accordo tra questi due filosofi, i quali sembrerebbero in opposizione. Da ciò risulta come Couto si limita ad allineare le posizioni di Scoto a quelle di Tommaso D’Aquino. I passi citati in Scoto per Leblanc risultano più oscuri rispetto ad altri passi che potrebbero costituire un esempio migliore. Anche in Egidio Romano, che viene citato solo per rafforzare le tesi di Scoto, il testo citato è meno esplicito della distinzione che viene fatta in altre opere, come ad esempio nelle Sentenze 1, d. 27, q. 2, 147 r. Questi passi oscuri secondo Leblanc vengono preferiti per non evidenziare le opposizioni tra Tommaso e Scoto dovendo radicalizzare il pensiero del primo, e per non dover adattare la terminologia utilizzata prendendo in considerazione, ad esempio, i commentari al Peri Hermeneias di Egidio Romano (p 84). Tra i contemporanei è citato infine Paolo Barbo, che, nella Metaphysica XII, q. 59, un testo in cui non si parla propriamente dell’uso del segno, osserva come le specie sono dette rappresentate poiché sono causate dalle immagini. Le specie quindi rappresentano qualcos’altro, e ciò è conforme al fatto che Couto osserva per  cui nessuna cosa può significare sé stessa in senso proprio, e per questo motivo le specie sono chiamate adeguatamente ‘segni formali’ (p. 85).

Rimandiamo il lettore interessato alle questioni più filologiche al paragrafo Il dibattito nella seconda scolastica, nel quale Leblanc osserva come la distinzione tra segno formale e segno strumentale fosse al centro di dibattito negli ambienti Tardo-Scolastici: si possono infatti osservare le posizioni di Pedro Da Fonesca e Domingo de Soto, che  considerano tale distinzione un’appellazione impropria; Francisco Da Toledo e Antonio Rubio che occultano tale suddivisione, e Eustachio di San Paolo e Joao Poinsot, che si conformano a questa distinzione. Infine, in questo capitolo Leblanc nota anche la differenziazione tra segno formale e segno strumentale nei lessici di maggior diffusione quali quello di Rudolph Goclenius (1613), di Joahnnes Micraelius (1653) e di Étienne Chauvin (1692). I dibattiti all’interno della scolastica e la diffusione delle due nozioni di segno all’interno dei lessici sono sufficienti per dimostrare come questa differenziazione si sia largamente diffusa. 

Dopo una breve introduzione in cui vengono esposte le divergenze e assonanze del progetto di Leblanc rispetto alla critica attinente e sintetizzato il progetto che si compirà nei due capitoli seguenti, l’autrice esporrà la concezione del segno in alcuni autori: coloro che sono esposti nel terzo capitolo sono caratterizzati – ad eccezione degli autori di Port Royal – da una “semiotica implicita”: vale a dire che il nome e concetto di segno vengono, sebbene non definiti, ampiamente utilizzati; per quanto riguarda gli autori esposti nel quarto capitolo, invece, essi forniscono esplicitamente la questione del segno, fornendone una definizione.

In Descartes emerge immediatamente il fatto che, nei suoi scritti, la suddivisione fra segno formale e strumentale non compare né graficamente in quanto non si presenta nessuna occorrenza di tali termini – né concettualmente, sebbene alcuni autori, come Behan (2000) o Yolton (1984, 1996, 2000) tendano a suggerire il contrario. Infatti, è vero che Descartes si serve di distinzioni come realtà formale e realtà obiettiva, nozioni già note nella tradizione scolastica e che il filosofo utilizza per indicare rispettivamente la realtà come rappresentazione di un soggetto e il modo di esistenza delle cose dell’intelletto; ma nelle sue opere non è presente alcuna occorrenza della formula ‘segno formale’.
Nella sua riflessione sulle idee, tratta dalla terza meditazione delle Meditationes, Descartes affronta la distinzione fra realtà formale e obiettiva. Essendo le idee definite chiaramente come segni, non sembra difficile allora notare una coincidenza fra le idee e il concetto di segno formale. A seguito di una più profonda analisi delle occorrenze nel corpus cartesiano, Leblanc giunge infine ad una ben diversa conclusione: il termine segno è utilizzato primariamente come sinonimo di figura, intesa come comunemente s’intende il segno naturale. La figura ha le caratteristiche tipiche del segno strumentale: essa è sensibile, è un segno mnemonico, ed è dissimile dalla cosa rappresentata. Presa in considerazione l’interpretazione del segno cartesiano come segno formale, si deve però notare come questa strida e si discosti non poco da come il segno è più frequentemente inteso, ovvero come segno strumentale (p. 126).

Nelle opere di Bacone emerge una certa diffidenza nella nozione di segno. Le occorrenze sono infatti parecchio scarse, sempre correlate al segno di natura e associate all’idea di riforma (p. 130). Una piccola percentuale di queste risiede in riferimento alla sua critica degli idola fori e alla relativa necessità di purificare il linguaggio: in questo contesto, il segno è concepito come nozione. Non avendo tuttavia una definizione precisa, si può solo descrivere negativamente ciò che il segno è: il segno per Bacone non è mai una prova, né tantomeno una causa, ed è piuttosto una traccia, un indizio di ciò che impedisce all’uomo di accrescere la propria conoscenza (p. 131).

Terzo filosofo a cui Leblanc si dedica è Spinoza, autore su cui pochi ricercatori si sono addentrati per quanto riguarda la sua semiotica sì implicita, ma di fondamentale importanza per l’insieme del suo pensiero. Su tale tema, il principale autore con cui si interfaccia Leblanc è Vinciguerra (2005), il cui lavoro viene apprezzato per aver sottolineato l’originalità del pensiero semiotico spinoziano, strettamente legato all’immaginazione intesa come cognitio ex signis, ma a cui viene contestata la pretesa di costruire un’archeologia della semiotica e presumibilmente correre il pericolo di decontestualizzare l’autore (p. 132). In accordo con Vinciguerra, il segno è il fondamento epistemologico di una conoscenza imperfetta in quanto non comporta una conoscenza completa della causa; l’imperfezione della conoscenza del segno viene affiancata in Leblanc alla Logica di Port Royal I, 4, di matrice agostiniana, nonché all’interpretazione aristotelica dei Primi analitici II,27 di Gassendi: da entrambe traspare la natura mediana e imperfetta del segno (p. 134).

Nell’Essay concerning Human Understanding Locke dipinge un quadro particolarmente interessante, poiché comparirà la parola “semiotica”, vocabolo con cui verrà ribattezzata la logica riformata. Il lavoro di Leblanc consiste nel contestualizzare il neologismo usato dal filosofo sia da una prospettiva etimologica che nel quadro dell’intero Essay (p.136). A tal proposito Leblanc sottolinea, in accordo con Lia Formigari (2001), che non è presente in Locke una definizione del segno; sappiamo per certo che esso è prevalentemente associato all’elemento linguistico e comunicativo, ma cercare di trarne una chiara definizione, come Kretzman (1968) e Ashworth (1985) hanno tentato di fare, significa ricorrere ad assunzioni: la semiotica di Locke, nonostante l’occorrenza del nome, rimane comunque implicita e costruita in negativo. È dunque complicato capire se il segno formale rientri nel segno lockiano: le idee sono piuttosto definite come immagini o quadri, figuratamente intesi come rappresentazioni; si può notare inoltre che immagine e segno non sempre sono coincidenti. Nel contesto della sua tripartizione delle scienze, nella quale si distingue la conoscenza degli oggetti, delle cose e dei segni, la cosa in comune che idee e segni condividono è essere strumento del terzo tipo di conoscenza, la semiotica, che prende il posto della logica nella tripartizione stoica del discorso filosofico (p.143). Le idee appaiono definite come segni per un principio traspositivo, ovvero in quanto sintatticamente, le idee svolgono il ruolo di rappresentare gli oggetti allo stesso modo delle parole.

Il contesto semiotico di Port Royal si presenta fedele al pensiero classico (p. 147). Tra i diversi autori convergenti al monastero, Leblanc tratta innanzitutto di Antoine Arnauld, secondo il quale le idee erano essenzialmente rappresentative e coincidenti con la percezione: esse sono quanto permane nella nostra mente. Viene riportata in merito la concordanza con le Premières réponses di Caterus e la dissonanza con Malebranche, che era più fedele ad una concezione oggettivistica dell’idea, presente in Dio così come in noi e che dunque non può identificarsi con la percezione. In Arnauld compare un’occorrenza di segno formale relegata alle percezioni della mente: la distinzione tra segno formale e strumentale viene sostituita dalla distinzione fra formale e sensibile. Arnauld, infatti, risulta critico dei medievali e della loro teoria delle species, ma costruisce un rapporto di identità fra rappresentazione e significazione, in modo tale da rendere il segno formale sinonimo di rappresentazione, associandolo così alle percezioni della mente (p. 149). Arnauld può, seppur attraverso questa semplificazione impropria, estendere la definizione agostiniana a tutto ciò che è rappresentativo: la conoscenza del segno dipende dalla conoscenza di ciò che il segno indica.

Il capitolo 4 della prima parte della Logique è considerato principalmente per il riscontro che ebbe nella critica del secolo scorso, in particolar modo da Foucault (1966), (p. 154). Se i ministri protestanti concepivano il segno come nettamente separato, ciò significa che per esempio, nelle situazioni eucaristiche, la formula ‘questo è il mio corpo’ sarà da loro interpretata figurativamente. Al contrario, autori come Arnauld e Nicole trasportano la questione ad una dimensione ideale (p. 158): il segno si costituisce dal sorgere di due idee, quella del segno e della cosa significata. La costituzione del segno come coesistenza necessaria di entrambi i piani ideali implica l’interpretazione letterale della formula eucaristica, dottrina teologica di cui Arnauld e Nicole erano sostenitori. In sostanza, il segno è per i due pensatori qualcosa di transitivo, riferitosi alla mente di chi lo comprende, di natura intrinsecamente funzionale. A completare il dibattito attorno a Port Royal è la voce di Cordermoy (p. 159), il quale esclude tutti i segni non dediti a fini comunicativi, come per esempio i segni naturali.

Nel quarto capitolo (pp. 173-221) vengono introdotte le concezioni semiotiche di pensatori non scolastici, le quali sono caratterizzate da un ritorno di definizioni più larghe di segno che prospettano, includendo in sé la concezione di segno linguistico, ad una funzione epistemologica della natura. Bayle (p. 174) fornirà una definizione di stampo agostiniano, influenzata anche dalle riflessioni del filosofo olandese Franck Burgersdijk, e distinguerà i segni naturali dai segni istituiti. La denominazione di segno formale verrà ridefinita: riferitasi esclusivamente ai segni naturali, un segno formale diventa un segno simile alla cosa significata. Non si tratta più di una distinzione che ha basi sul principio di duplex notitia, bensì sulla mera somiglianza (p. 178). Il segno formale è opposto al segno materiale, che invece è dissimile dalla cosa significata: entrambi sono declinazioni della tradizionale categoria di segni strumentali. Le idee non più concepite come segni suggeriscono così una reinterpretazione materialista delle idee costruite su relazioni di somiglianza. 

Bayle ha riconcesso validità al segno naturale, la cui conoscenza dipende totalmente dalla conoscenza della sua causa (p.182). È attraverso l’identificazione della causa che diviene possibile distinguere gli autentici segni naturali dai segni connotati di superstizione, considerati erroneamente come soprannaturali. I segni soprannaturali, ossia i miracoli, sono necessariamente segni istituiti – siccome la distinzione fra segni è scissa binariamente fra naturali e istituiti – e devono essere riconosciuti dal ricevente come tali.

Gassendi (p. 187) tratterà del segno nelle Animadversiones e più approfonditamente nel capitolo II,5 del Syntagma, nel quale propone tre diverse definizioni di segno. Nonostante l’evidente stampo agostiniano, nel testo viene fatto riferimento solo a Epicuro, a sottolineare l’influenza dell’antico già presente nell’altra opera nominata precedentemente. L’accezione a cui tendono le sue formulazioni mira ad un segno inteso come termine medio, concepito aristotelicamente come posizione mediana in un processo sillogistico (p. 193). Un’altra impronta del pensiero aristotelico emerge dalla distinzione fra segno come proposizione dimostrativa, necessaria o probabile (p. 195). Viene poi contestualizzata questa distinzione sia nel corpus aristotelico che nella tradizione medievale e rinascimentale.

Se, come detto, in Gassendi il segno risulta prettamente inferenziale, e di conseguenza la riflessione linguistica passa in secondo piano, Hobbes (pp. 202-216) costruisce un modello semiotico più universale, nel quale la discussione linguistica è perfettamente integrata. Viene proposta una lettura del segno hobbesiano come segno strettamente strumentale e contraddistinto da una definizione univoca, in dialogo con Epicuro e Sesto Empirico, che lo demarca nel De Corpore come ‘antecedente del conseguente o conseguente dell’antecedente’: il segno perde così la sua natura inferenziale di modo che il segno naturale non sia più tale per la sua funzione consequenziale in un processo sillogistico, ma grazie ad una concatenazione immaginaria che si forma nella mente di colui che riceve il segno: è proprio tale fondamento internalista a rendere incerta la conoscenza dei segni naturali. Per quanto riguarda invece i segni istituiti e arbitrari (p. 208), di cui sono parte i segni linguistici, essi hanno valore rammemorativo o comunicativo.
Teorie semiotiche del XVII secolo: translatio signorum è un testo di erudita ricerca che offre numerosi approfondimenti trasversali, tenendo sempre in considerazione la letteratura di riferimento per i vari autori moderni. L’ampio contesto critico, tuttavia, potrebbe lasciare disorientato il lettore inesperto, facendo della ricerca di Leblanc un interessante punto di confronto per il lettore già competente in materia.
I punti di forza del libro sono da ritrovarsi nella ricerca attenta e puntuale, che si traduce in una verifica in tutto il corpus testuale di ogni autore fondamentale. Tuttavia possiamo provare ad avanzare una critica di tipo metodologico: abbiamo osservato come nel corpus analizzato da Leblanc alcuni autori non diano una definizione articolata di segno, come nel caso di Descartes o di Spinoza – e questo per l’evidente rapporto complesso e problematico che pensiero e linguaggio intrattengono nelle filosofie della mens del Seicento; Leblanc prende in considerazione questi autori ricavandone una semiotica implicita. Lungi dall’affermare che sia impossibile tematizzare un concetto o un problema anche in assenza di una definizione precisa nei testi, si può sostenere che tensioni ermeneutiche possono emergere. Nel quadro di scelte interpretative che Leblanc giustifica con sicuro rigore metodologico, il riferimento alla semiotica implicita presenta in questo senso alcuni aspetti ambivalenti. La pertinenza teorica e la robustezza analitica di questa indagine storico-filosofica fanno in ogni caso del volume una lettura fondamentale per comprendere la semiotica del Seicento. 

 

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Sono Valerio Francesco Mangiacotti, frequento la triennale in filosofia all'università di Bologna, e sono membro del centro di ricerca Sive Natura.

Sono Silvia Lusenti, Sono una studentessa immatricolata alle lauree triennali di Filosofia e Lingue e Letterature straniere, e faccio parte del gruppo di ricerca Sive Natura.