Sini, "Spinoza o la buona vita"

Recensione di Cristian Dadiè

Spinoza o la buona vita di Carlo Sini è un’opera che esplora le radici profonde della filosofia spinoziana, riportando il pensiero ad una dimensione di conoscenza necessaria. Co-scienza questa che vuole condurre l’uomo alla somma beatitudine. Sini ci guida verso la centralità del tema dell'ignoranza nella filosofia di Spinoza, introducendo la questione a partire dalla celebre massima socratica “so di non sapere”, e da lì avviando una riflessione su come il desiderio di conoscere sia intimamente legato alla consapevolezza della nostra ignoranza. Mettendo in luce come il “problema dell’ignoranza sia centrale nella filosofia spinoziana” il discorso muove dall’ignoranza per comprendere quel muoversi dell’intelletto che intende definire, conoscendo, “ciò che è”; conoscere, quest’ultimo, che non può tuttavia giungere a risposte conclusive. Ci dice Sini: il “che c'è” appartiene a un pensiero “abissale”. Ed è proprio di fronte al “che c'è” che nasce la questione spinoziana, attorno a, e in, Dio. 

Per Sini, la conoscenza non è un processo statico né teoricamente astratto, ma un percorso etico e coscienziale: essa nasce e sorge dal sentimento dell’ignoranza e dalla condizione d’infelicità e conduce verso un abisso di profonda verità. In questo percorso, la filosofia non è vista dal pensatore italiano come un esercizio retorico, ma come un’azione di scavo profondo all’interno delle strutture dell'intelletto, un cammino che ci invita a liberare l’intelletto stesso dalla costrizione delle passioni e dagli interessi personali limitanti il sommo desiderio, per arrivare ad una comprensione vissuta del sommo Bene, che sia autentica, condivisa e armoniosa nella Natura.

L’opera ci offre un ritratto di Spinoza non solo come filosofo, ma anche come modello di una buona vita, un esempio di serenità esistenziale raggiunta, nonostante le difficoltà e le avversità. Verrà infatti trattato in particolare il rifiuto e la scomunica della comunità ebraica vissuti dal pensatore, nonché le reazioni serene dello stesso. È infatti attraverso la purificazione dell’intelletto e il superamento delle passioni egoistiche che, secondo Sini, si apre la via alla vera beatitudine, intesa come “gioia continua e suprema”. In questo emendare c’è il render conto che da parte delle cose del mondo non v’è un curarsi dei nostri personali interessi. L’impegno di colui che desidera la beatitudine è dunque espresso e ribadito da Sini come quell’anelito propriamente umano che per esser tale non deve dipendere dalle cose, dunque dalle passioni. La medicina che solve l’infelicità è la filosofia, la quale non è un mero esercizio retorico, bensì uno scavare nei meandri dell’intelletto, ripulendolo e riscoprendolo. Sini chiarisce come il Bene di cui Spinoza ci parla è un vero Bene, coerente con l’ordine della Natura, e un sommo Bene, ovvero un Bene condiviso, comune.

Un aspetto fondamentale dell’interpretazione che ci dà il testo nei confronti del filosofare spinoziano è dovuto all’evidenziare fortemente il valore collettivo e politico del progetto del filosofo olandese, un lavorio che dunque non è solo individuale, bensì orientato verso la vita comune. La liberazione dalla schiavitù dev’esser infatti collettiva. Sini evidenzia l’importanza del “senso comune” e dell’ignoranza propria del senso popolare come punti di partenza per una vera liberazione. Ed è proprio nella vita comune, dunque nel senso comune – nell’ignoranza – e nel riconoscimento dello stesso, che Sini riconosce il punto di partenza per trovare il “fondamento della liberazione”. È nell’amor dei intellectualis, nell’amore intellettuale per Dio, che si trova l’unica via per aderire al reale e, al tempo stesso, riconoscere la conoscenza come parte del mondo, come una figura, del mondo, contingente e limitata. A seguire, l’autore analizza con acume alcuni dei passaggi iniziali dell'Ethica, specialmente quelli che trattano della relazione tra attributi, modi e sostanza. Sini chiarisce che per Spinoza, la sostanza non va intesa come un’entità distinta dagli attributi, ma come una connessione intrinseca e indivisibile con essi. “Infatti chi distingue la sostanza dagli attributi è Gentile, Spinoza non li ha mai distinti”. In questo senso, Dio e gli attributi coincidono, in un ordine che trascende le concezioni tradizionali, mostrando una visione profondamente innovativa e abissale della realtà. Perché l’ordine e la connessione d'ogni attributo sono sempre il medesimo: ovvero, la Sostanza, Dio. E in Dio ogni cosa è mossa dal conatus – dunque, persiste nella sua forza – e in Dio l’uomo è “l’ente del desiderio”, l’ente che ha come sommo desiderio la beatitudine, tanto rara quanto ricercata. Sini ci riporta ad analizzare due affetti fondamentali – e le loro specifiche articolazioni – in relazione alla potenza della mente e del corpo: la letizia, intesa come incremento della potenza, e la tristezza, come diminuzione della stessa. La forza della mente risiede nella capacità di essere consapevoli dei propri desideri e di accettare razionalmente la necessità degli eventi. Una forza questa che tuttavia non è espressione di una libertà autonoma della mente, come Sini spiega nel capitolo dedicato alla libertà. Nel suo approccio, Sini porta alla luce ciò che potrebbe apparire come un assurdo: ovvero, l’idea che, “se abbiamo ascoltato con attenzione, ora ci accorgiamo che l’Ethica è anzitutto il sistema della nostra ignoranza, non della nostra scienza”. Questa osservazione evidenzia la centralità dell’ignoranza come fondamento dell’intero processo di liberazione (una sorta di dotta ignoranza), suggerendo che l’Ethica, lungi dall’essere un insieme di risposte conclusive, rappresenta piuttosto un percorso di consapevolezza dei limiti illimitati della conoscenza umana. In questo contesto, l’opera di Sini offre una lettura intensa e rigorosa del pensiero spinoziano, stimolando il lettore a confrontarsi con le radici profonde della riflessione filosofica. La sua analisi pone l’accento sull’intreccio tra conoscenza e ignoranza, tra individuo e collettività, e si realizza in un etica della vita buona, nel disegno di una beatitudo in Dio. Perché è nell’amore intellettuale per Dio e per la Natura che v’è la Felicità!

Cristian Dadiè si forma a Cortina d’Ampezzo nella musica, nella pittura e nella poesia. Studia, conclusi gli studi superiori, alla facoltà di Filosofia, per poi proseguire nella magistrale Unibo di Scienze Filosofiche. Laureatosi con la tesi su “Il Pensare e il Poetare nelle Conferenze di Brema e Friburgo e ne La poesia di Hölderlin di Heidegger” continua la ricerca nell’ontologia, sulla problematica metafisica e attraverso l’esistenzialismo approfondendo: il processo sistematico di Spinoza, il linguaggio in Wittgenstein, il pensiero rammemorante in Heidegger, la liberazione dai valori e la genesi creativa in Nietzsche e la via Buddhista del vuoto - nella lettura di Nagarjuna e nei maggiori testi orientali, nella pratica della meditazione Zen e dello Yoga di Patañjali.