Shusterman, “Esperienze estetica e arti popolari”

Recensione di Alessia Veca

Richard Shusterman è un filosofo pragmatista, docente alla Florida Atlantic University, particolarmente attivo e influente nel campo della filosofia estetica. Grazie alla sua rivendicazione dell’importanza dell’esperienza estetica e alla rivalutazione dell’esperienza “somatica”,  Shusterman sviluppa un’analisi delle arti popolari che permette di riconsiderarle sotto nuove luci. Il volume Esperienza estetica e arti popolari si occupa di questo tema: è una raccolta di saggi di Shusterman, scritti tra il 1997 e il 2017, i quali riflettono su arti differenti, accumunate dalla caratteristica di essere considerate “pop”. Il libro è stato curato da Stefano Marino, professore dell’Alma Mater Studiorum e contiene sei saggi, preceduti da un’introduzione dello stesso e una prefazione. Durante l’introduzione viene brevemente descritto il background filosofico di Shusterman e il concetto di somaestetica. Questo illumina una concezione dell’estetica che si concentra sull’arte in sé ma anche sulla percezione di essa, sulla aesthesis, intesa come congiuntamente mentale e corporale. Marino, inoltre, sottolinea l’approccio pluralista del filosofo statunitense: l’obbiettivo non consiste nel creare una teoria dell’arte che possa comprendere ogni singolo caso, quanto confrontarsi proprio con i singoli casi, analizzando l’arte nelle sue infinite manifestazioni. 

La prefazione si sviluppa attorno alla diffusa convinzione della “fine dell’arte”, propria di molti filosofi da Hegel in poi. Viene infatti ripresa da Benjamin nel famosissimo saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, viene citata da Vattimo ne La morte dell’arte, e da Danto, secondo cui l’arte ha perso il suo obiettivo, la sua possibilità di crescita direzionale. Viene, in seguito, affrontata l’argomentazione di intellettuali come Habermas e Wollheim. Essi intendono l’arte come un’istituzione sociale e culturale emersa in età moderna e, perciò, in procinto di finire, assieme alla modernità stessa. Shusterman accoglie questa teoria, ma la amplia: l’arte che sta per finire è, appunto, l’arte bella, concetto sviluppato negli anni dell’età moderna, e non corrisponde, dunque, con l’arte in generale, la quale continuerà a svilupparsi, in modalità differenti. La prefazione illumina l’inclusività della postura shustermaniana, aprendo la strada ai saggi successivi e i loro temi “insoliti” per una riflessione estetica accademica. 

Nel primo saggio, La fine dell’esperienza estetica, Shusterman prosegue il suo confronto con le grandi voci dell’estetica. Apprezza posizioni della filosofia continentale, quali quelle di Gadamer, Derrida, Barthes, Bordieau e Adorno, che rimarcano l’importanza della mediazione per una buona esperienza estetica. Anche secondo Shusterman per una profonda comprensione artistica è necessario superare l’immediatezza dell’opera d’arte, ma, al tempo stesso, ritiene che la stessa immediatezza possa essere considerata un’esperienza estetica a sé stante. Successivamente, l’attenzione viene rivolta alla scena anglo-americana, innanzitutto all’ampia concezione di esperienza artistica formulata da Dewey. Egli tenta di riallacciare il legame dell’arte con la vita, rischiando però di non essere più in grado di definire un confine fra i due campi. Vengono poi presi in considerazione i pensieri di Beardsley, Goodman e Danto, ma nessuna delle posizioni proposte è presentata come pienamente convincente. Questa complicata ma concisa dissertazione tra le grandi voci della filosofia contemporanea potrebbe sembrare una semplice dimostrazione di competenza dell’autore, il quale effettivamente espone una grande cultura e capacità di muoversi con abilità tra le idee filosofiche. In realtà, non è solo questo: il saggio ci mostra, infatti, come le definizioni molto specifiche rischino di essere troppo escludenti. Secondo Shusterman, dunque, è giusto che il concetto di esperienza artistica raccolga diversi significati al suo interno e, persino, che si evolva nel tempo. Aggiunge che la filosofia stessa può aiutare a formare e a rendere elastico questo concetto. Si osserva, così, un atteggiamento tipico del pragmatismo: indirizzare la filosofia verso la vita, intenderla come uno strumento per la vita stessa. 

Con il secondo saggio, Affettività e autenticità nei musical country, viene abbandonato il regno delle dissertazioni accademiche per addentrarsi nell’analisi della cultura popolare, tema vivo del libro. Prendendo ispirazione dalle pagine di William James, Shusterman analizza la differenza delle reazioni degli accademici e dei non-accademici di fronte alla musica country, che si concretizza in un non-sempre-velato disprezzo dei primi e un forte coinvolgimento dei secondi. L’autore indaga questa dinamica e, assieme a essa, il fascino dello stile country. Fondamentale per il successo del country è, secondo l’autore, la possibilità di identificazione culturale che porta con sé, anche come risposta al multiculturalismo. La musica country e, con essa, i musical country, incarnano quindi degli ideali largamente condivisibili nella cultura statunitense più “classica”. Per questo, lo stile country si auto-dipinge come “puro e autentico”. Shusterman mostra, però, come questa “purezza” sia in realtà una costruzione, in quanto la musica country è fortemente influenzata da altre culture, persino dalla cultura musicale nera, a cui si presenta come opposta. L’illusione di autenticità riesce, tuttavia, ad attecchire grazie alla musica stessa e alla sincerità trasmessa attraverso di essa. Così, il country riscontra diffusione tra i non-accademici, afferma l’autore, poiché questi ultimi sono più inclini a fidarsi delle emozioni, meno abituati al dubbio sistematico, più aperti alla speranza. Shusterman, in accordo con James, non condanna il loro atteggiamento, spesso accusato di ingenuità, perché esso accetta le caratteristiche più profonde della natura umana, ovvero quelle di credere e sperare, tanto quanto di rimanere delusi. 

Il terzo saggio, L’estetica urbana dell’assenza, è ispirato da Berlino, città in cui l’autore viveva al momento della stesura. La riflessione riguarda l’importanza dell’assenza nelle metropoli. In particolare, il primo lampante esempio fornito è proprio quello del muro di Berlino, che, per quanto assente, è quasi tangibile, nelle differenze tra Est e Ovest. Trattando di metropoli, Shusterman non può che confrontarsi con una delle voci più importanti sull’analisi di esse: Georg Simmel. L’autore accoglie alcune tesi del filosofo tedesco, è in accordo sul fatto che nelle città vi sia uno strano connubio tra libertà e schiacciamento, e sul fatto che qui si sviluppino figure come il dandy o il flâneur per distinguersi dalla massa. Shusterman, però, si allontana da altre argomentazioni simmeliane. Non pensa, infatti, che la città e la sovra-stimolazione in essa guidino verso l’indifferenza, la quale può essere stimolata anche da altri contesti e dovrebbe in realtà derivare da stimoli identici: la città ne offre di diversi e vari. Si conferma, infine, che la metropoli sia il luogo della sfuggevolezza, degli homeless, della meta inesistente, dell’assenza. 

Il quarto capitolo affronta un ramo fondamentale dell’arte popular, la fotografia. Shusterman, come esplica nel titolo: La fotografia come processo performativo, intende analizzarla in termini più ampi di quelli che solitamente le sono riservati. Non si rivolge, così, solo al risultato della fotografia, la foto vera e propria, ma anche al procedimento che la anticipa. Teorizza, dunque, che si tratti di un’arte performativa. Vuole mostrare come la fotografia, se ben fatta, sia molto più complessa di quello a cui si è abituati a pensare. Le difficoltà vanno dal coordinamento e l’equilibrio del fotografo e della persona fotografata, al feeling che si deve creare tra le due, al superamento delle sensazioni di disagio, all’organizzazione del set, e così via. Vengono descritti, così, quei processi che costituiscono la “performance della fotografia”. Infine, Shusterman racconta di una sua esperienza di shooting con l’artista Yann Toma, che permette alla riflessione di passare da teorico al pratico, offrendo un esempio tangibile di fotografia in quanto performativa. 

Come il quarto saggio si chiude, così si apre il quinto (Vestibilità della moda: la somaestetica dello stile): con la narrazione di un’esperienza personale dell’autore. Shusterman racconta della sua amicizia con la designer Erica Ando, nata dalla condivisione dell’appartamento a New York. La riflessione si sviluppa attorno alla figura dei fit-model, con cui lei stava lavorando durante uno stage, e, più in generale, sulla moda. Quest’ultima viene descritta come contraddittoria, duale: divide e unisce al tempo stesso, permette di confondersi o di distinguersi, mostra sicurezza e insicurezza personale nel medesimo momento. I fit-model rappresentano l’emblema di questa contraddittorietà: grazie a loro, infatti, i capi vengono standardizzati e, sempre grazie a loro, i designer si adattano alla vestibilità individuale. L’attenzione del saggio è spesso rivolta alla corporeità, concetto fondamentale nella somaestetica. A quest’ultima, dunque, è riservata una descrizione in conclusione del saggio. La somaestetica combina teoria filosofica e ricerca di metodologie pratiche, il suo fine è un raffinamento della nostra esperienza somatica. 

Il volume chiude con il saggio La somaestetica e l’arte bella del cibo. Come la riflessione sulla fotografia, questo brano vuole ampliare la visuale e considerare l’arte culinaria in maniera più completa possibile. Shusterman, infatti, include nell’estetica della gastronomia, non solo l’arte della cucina, ovvero il preparare e presentare, e l’arte della critica culinaria, ma anche quella che lui chiama l’arte del mangiare, ossia il “come mangiamo”, nel senso di “come ingeriamo il cibo”. L’attenzione viene rivolta alla sequenza dei pasti, a quella dei piatti, alla postura, che si differenzia a seconda delle occasioni e delle culture, alla velocità e così via. L’arte del mangiare è, secondo il professore della Florida Atlantic University, un’arte performativa, particolarmente in linea con la somaestetica, perché, oltre a combinare mente e corpo, è una delle metodologie che può raffinare e migliorare la nostra percezione ed esperienza estetica. Anche questo saggio si conclude con una breve narrazione personale sull’importanza del mangiare in un percorso di apprendimento zen che Shusterman ha intrapreso. 

Costante nel volume è l’incontro tra cultura accademica e cultura popolare. Incontro che non sarebbe possibile sviluppare in questo modo se l’intero testo non fosse accompagnato dal concetto di somaestetica. Questa disciplina è, infatti, profondamente inserita sia nella riflessione teorica e accademica, che nelle pratiche e nelle metodologie. Come anticipato dal sottotitolo (Prospettive somaestetiche sulla teoria e la pratica) e come specificato alla fine del quinto capitolo, la somaestetica ha un indirizzo pragmatico: il raffinamento della nostra esperienza estetica non viene praticato solamente tramite la riflessione mentale ma anche tramite svariate attività fisiche, dallo yoga alla danza, dal fotografia alla dieta, dalla cosmetica alla meditazione. 
A sostenere questo approccio integrato contribuisce la scrittura stessa di Shusterman, che non manca di connettere le sue argomentazioni filosofiche alle sue esperienze personali. Nel saggio sulla fotografia è essenziale la descrizione concreta che fornisce rispetto alla sua collaborazione con il fotografo Yann Toma, la quale permette ai lettori e alle lettrici di comprendere in maniera tangibile che cosa si intenda per “fotografia come arte performativa”. Altrettanto interessante è il racconto del percorso zen intrapreso da Shusterman e l’importanza dell’arte del mangiare in esso. Quest’ultimo, oltre a completare il saggio, guida verso una maggiore comprensione della somaestetica in sé. Al contempo, sono introduzioni eccezionali quelle del saggio sulla vestibilità della moda e dell’estetica urbana dell’assenza: entrambe presentano una situazione concreta, da cui parte poi la riflessone astratta. Viene offerta, così, la possibilità di immergersi nel brano sin dall’inizio, comprendendo il tema dapprima in maniera tangibile e, in seguito, in modalità più teoriche. 
In apertura del quinto saggio, Shusterman scrive una frase particolarmente impattante: “La maggior parte delle mie idee filosofiche deriva più dalla mia esperienza personale che dalla lettura dei testi teorici” (p. 145). Con questa, non intende, come sottolinea nelle righe successive, screditare la scrittura e lettura teorica, che ha un proprio valore, finalizzato a una chiara espressione dei concetti e al raggiungimento di una credibilità accademica. Non erroneamente, infatti, lo stesso Stefano Marino, curatore del volume, inserisce un saggio espressamente teorico in apertura del libro. Con quella frase Shusterman, però, intende dare importanza, più che ai testi, all’esperienza, fondamentale e irrinunciabile nella conoscenza del mondo.

Il connubio di accademico e popolare si esprime ovviamente anche nella scelta dei temi e nel loro sviluppo: rispettando il filo conduttore del libro, sono stati selezionati i saggi che trattano di arti popolari, superando blocchi e pregiudizi. La musica country è analizzata come vengono analizzate tutte le altre manifestazioni artistiche, è considerata degna di un approfondimento intellettuale, che, giustamente, ne indaga anche il fascino più popolare. La fotografia viene investigata altrettanto in profondità: si mostra come non consista soltanto in un “click”, in linea con il pensiero comune, ma come corrisponda a un complesso insieme di azioni che ne costituiscono la performance. In questo volume non vi è traccia di pregiudizio, tanto che persino da una serata techno o da una chiacchierata con la coinquilina può nascere una riflessione profondamente filosofica. 

Al contempo, mentre i pregiudizi sono esclusi, nulla è dato per scontato. L’autore e il curatore dimostrano una grande attenzione nei confronti dei loro lettori e lettrici nel non lasciarli sprovvisti di una spiegazione verso ciò che potrebbero non conoscere. Questo diviene chiaro già nel primo capitolo, quando, in vista delle argomentazioni successive, vengono presentate le posizioni filosofiche che costituiscono la storia della teoria attualmente proposta. Atteggiamento che continua con le spiegazioni delle trame dei musical country, nella spiegazione della figura dei fit-model, del funzionamento del mondo della fotografia e in molti altri casi. 

Esperienza estetica e arti popolari è un volume molto interessante, che mostra la potenziale ampiezza del campo dell’estetica, e la sua possibile comunicazione con moltissime sfere della nostra vita, persino quotidiana.

 

Bibliografia

Shusterman, Richard, Esperienza estetica e arti popolari, Milano-Udine, Mimesis, 2023

 

Alessia Veca, laureata in Filosofia all’Università degli Studi di Milano, è attualmente studentessa di Scienze Filosofiche presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna. I suoi interessi investono diversi ambiti, dall’antropologia alla filosofia morale, dalla pop-filosofia alla poetica. Durante il suo percorso di studi, ha vissuto per due periodi all’estero, a Oviedo (Spagna) e a Hobart (Australia).