Raber e Mattfeld, “Performing Animals”

Recensione di Miriam Borgia

Quali sono i presupposti impliciti per affermare che qualcosa o qualcuno performi? Si richiede un corpo vivo o morto? Una forma di intelligenza, o di capacità di gioco, o di espressività, o di agency? Per Bruno Latour (Latour 2005) e per l’Actor-Network Theory (ANT) un “attore” (actant) si costituisce come tale solo performando relazioni con gli altri attori all’interno della rete sociale: ogni performance, quindi, sarebbe il risultato delle altre, le quali nell’ANT derivano sia da attori umani che non umani. La performance animale che viene esplorata in Performing Animals, edito da Karen Raber e Monica Mattfeld, è intesa proprio in questi termini: la relazionalità è essenziale ed è la rete ciò che rende l’animale non umano un attore, implicando al tempo stesso intenzionalità e agency.  
Innanzitutto, questo volume estende la nozione di spettacolo: la performance animale non è presente solo negli sport equini, nel cinema, nella televisione, nei circhi, nei teatri di età moderna, ma vi è anche lo spettacolo gastronomico di un animale morto, o lo spettacolo chirurgico di un animale vivisezionato. In questi casi liminali l’agency animale assume dei contorni più sfumati e sembra difficile da individuare: un animale morto o uno sottoposto a sofferenze e, d’altra parte, un animale collocato in un circo o in una competizione sportiva, non mostrano la stessa intenzionalità né la stessa bodily awareness (p. 9) indubbiamente necessaria per parlare di agency, o almeno di agency intenzionale. Proprio per questo è fondamentale considerare la relazionalità degli attori: l’agency dei performing animals spesso viene loro sottratta, o viene piegata, volontariamente ignorata, oppure costruita, e finisce per diventare una performance umana. 

Performing Animals esplora la relazione tra umani e animali non umani attraverso il New Materialism e il pensiero di Descartes, Donna Haraway e Karen Barad; solleva interrogativi importanti sull’agency animale nella stori;, confonde le categorie di specie e di genere; e tocca la storia degli animali, la storia del cibo, la storia della medicina, la storia sociale, il teatro e la drammaturgia, muovendosi attraverso numerosi casi studio che coprono il periodo che va dalla prima età moderna fino al XIX secolo. I casi studio presi in esame in ciascuno dei dieci saggi che compongono il volume hanno come protagonisti animali molto diversi: passando dagli insetti e le pulci, ai cani, ai cavalli, fino agli animali morti, Performing Animals ha l’ambizioso obiettivo di rimettere in discussione il significato della recitazione, in senso teatrale e strettamente spettacolare, e dei confini dell’identità personale lungo la specie, il genere e la razza. Karen Raber nel primo saggio si domanda cosa renda la carne tale, quale sia il confine tra un animale vivo e uno morto ed esplora la spettacolarità degli arrosti di carne a partire da Secrets of Art and Nature di John Wecker (1582). Basandosi su Jane Bennet e sul New Materialism, Raber presenta l’atto del mangiare come un’intra-action. L’oca di Wecker, sfortunata protagonista di una ricetta che ne spettacolarizza la crudele uccisione, permette al lettore di testimoniare la transizione tra il vivo e lo “zombie”. Ma Raber sottolinea che il coltello che dovrebbe ridurla a carne in realtà fa uscire la sua voce, annuncia che è anch’essa una partecipante allo spettacolo della tavola. Gli animali i cui corpi imbandiscono le tavole moderne sono inoltre animali “redressed”, camuffati perché addomesticati (l’oca, sottolinea Raber, è un animale fastidioso perché aggressivo, quindi doppiamente redressed). Le ricette per il “turducken”, o per i cosiddetti “royal roasts” inglesi, appaiono come esperimenti per produrre nuove specie, o almeno per inscenare una forzatura delle leggi di natura. È interessante notare come Epulario descriva la ricetta del pavone rivestito “come se stesso”, ovvero rivestito delle sue stesse piume una volta ucciso: viene da chiedersi chi sia il “se stesso” del pavone in questione, e se vi sia un’ammissione tacita o persino non voluta dell’agency del pavone.


Nel quinto saggio Rob Wakeman riflette sulla figura e sul ruolo del cane nella storia delle rappresentazioni teatrali cristiane. Il regno di pace annunciato messianicamente dal cristianesimo, fondato anche sull’armonia tra umani e non umani, si scontra con l’imprevedibilità dei cani sulla scena e sulle pratiche violente adoperate per addestrare i cani e altri performing animals. I cani compaiono soprattutto nelle illustrazioni inglesi sulle annunciazioni ai pastori. Proprio nella relazione tra il pastore e i cani vi è uno scambio che porta a immaginare un paesaggio multispecie, scrive Wakeman: per Donna Haraway, infatti, il pastore e il cane evolvono insieme e si adattano l’uno all’altro. 

Nel sesto saggio Sarah E. Parker presenta un ricco contributo sull’agency animale nelle pratiche di dissezione e soprattutto vivisezione operate dalla Royal Society nella prima età moderna. La spettacolarità di queste pratiche, testimoniata dal pubblico, stava nella conformità della reazione dell’animale vivisezionato alle previsioni teoriche. L’animale aveva chiaramente una voce, nota Parker, «but that voice only confirmed the accuracy and authority of the person designing the experiment». Persino Vesalio nel De humani corporis fabric (1543) ammette di sentirsi obbligato dai teologi del tempo a negare che gli animali abbiano una mente, «even though the costruction of their brain is the same as that of the human one”. Il centro dell’attenzione è il corpo dell’animale, ma il focus reale è sull’autorità dello scienziato che conduce l’esperimento. I versi di dolore dell’animale, le sue reazioni fisiologiche interessanti o meno, sono presenti agli occhi di tutti gli spettatori ma vengono sistematicamente oscurate nei resoconti storici. 

Nel settimo saggio Jessica Wolfe si concentra sul teatro delle pulci di Mark Scaliot, sul posto degli insetti nella filosofia naturale di età moderna, sul «becoming animal of technology» e sul «becoming technical of the insect» (p. 112). La difficoltà nel classificare degli insetti, né totalmente animali, né totalmente vegetali e piuttosto somiglianti a piccole macchine, permette a Scaliot di farli agire come tali, proprio perché pensati come esseri a metà tra la vita e l’artificialità. Wolfe esplora la presenza degli insetti nelle anche nelle Kurnskammer rinascimentali in cui venivano presentati come “lesser living creatures”; d’altra parte, nota Wolfe, anche per Aristotele gli insetti erano difficilmente classificabili perché un essere che può essere diviso in due parti e che continua a muoversi in entrambe probabilmente non possiede non ha un’anima, cioè non è un individuo. 

Nell’ottavo saggio Todd Andrew Borlik prende in esame Sogno di una notte di mezza estate e il piccolo regno di creature lillipuziane creato da Shakespeare. Nel Sogno emerge una sorta di fascino verso di esse, che per Borlik sembrano coincidere con degli insetti piuttosto che con delle fate. Anche Thomas Moffet nel Theatre of Insects (1589) cerca la voce del meraviglioso mondo degli insetti e riconosce che forse anche gli insetti giocano con noi come noi con loro, proprio come il gatto di Montaigne. Ecco perché l’opera di Moffett, terminata a fine ‘500, viene pubblicata soltanto nel 1634, quando sono le opere di ingegneria umana, piuttosto che le creazioni della natura, a suscitare ammirazione. Questo interessante contributo permette di riflettere sull’agency degli insetti nel loro ecosistema, sulla continuità tra umani e animali attraverso il teatro e il dramma, ma anche sulla discontinuità di agency tra umani e non umani perché il teatro, sia nel caso di Shakespeare che di Moffett, rappresenta l’irrappresentabile agency degli insetti all’occhio umano.

Nei saggi restanti vengono presentati diversi casi studio intorno ai cavalli e alle loro padrone o ai loro padroni umani.

Nel secondo saggio Pia Cuneo si concentra sulla statua equestre di Heinrich Julius ad opera di Adriaen de Vries (circa 1605).  A partire da Barad, Maurstad, Davis e Cowles, Cuneo mostra l’intra-action tra i cavalli e gli umani che si influenzano l’un l’altro e costituiscono insieme qualcosa di superiore alla loro somma. Nei ritratti equestri il cavallo è più di un dispositivo per dimostrare le abilità dell’umano e più di un simbolo di irrazionalità. Il cavallo di Julius, mostrando resistenza, suggerisce di possedere un’agency e una personalità molto prepotenti: il cavallo ha così una storia squisitamente personale, ma si costituisce come il cavallo di Julius nello stesso momento in cui Julius si costituisce come suo padrone.

Nel terzo saggio Richard Nash si concentra sulla performance sportiva nelle corse dei cavalli.  Anche Nash riflette sull’intra-action attraverso i confini di specie e dimostra come la performance atletica dei cavalli abbia influenzato la comprensione delle razze equine, muovendo dai “trial books”, i manoscritti privati del XVIII secolo che registravano le informazioni sul pedigree e competizioni dei cavalli, concentrandosi in particolare su quello conservato da Cuthbert Routh nello Yorkshire, quello conservato da Mr. Ward ad Ancaster e infine dall’allenatore identificato probabilmente con il nome di Mr Harrison a Newmarket. 

Nel quarto saggio Monica Mattfeld si sposta sul romanticismo inglese e indaga la costruzione dell’«ideal horseness» (p. 68) nel Timour the Tartar (1811) di Matthew Lewis. I cavalli rappresentati da Lewis prendono parte al combattimento in guerra, non rifiutano i comandi del padrone; quindi, si chiede Mattfeld, dove si colloca il cosiddetto «equestrian sublime» (p.77) e che relazione intrattiene con il sublime di Edmund Burke? Lewis esplora il patriottismo attraverso le specie e Mattfeld cerca la risposta alle seguenti domande: i cavalli sono esseri razionali o addirittura esserci capaci di mettere in scena un’identità performante? Ma, soprattutto, cosa diventa un cavallo sul palco?

Nel nono saggio Kari Weil ripercorre la carriera di Adah Menken e la sua scandalosa esibizione nel Mazeppa di Lord Byron (1819). Il suo rapporto col cavallo era sublime, ovvero era potenzialmente pericoloso perché veicolava una corporeità interspecifica: Menken, secondo Weil, sfidava le categorie di genere, di razza e soprattutto di specie. La trasgressività di Adah Menken non si limitava alla nudità: mostrava un affetto verso il cavallo che, come le stimolazioni genitali date dalla cavalcatura e altre forme di sessualità alternativa, apparivano come atti assolutamente trasgressivi per una donna agli occhi della Francia post-Napoleonica. Adah Menken inscenava una simbiogenesi alquanto innovativa per l’epoca: in una caricatura viene rappresentata come una “centauressa” e viene persino razzializzata, ed è estremamente interessante notare come il “centauro ideale”, una figura fondamentale per la costruzione della mascolinità romantica, diventi in questo caso un simbolo di trasgressione e di femminilità “queer”.

Nel decimo e ultimo saggio Kim Marra prende in esame un altro ippodramma, Shenandoah (1889), ambientato durante la guerra civile americana. Marra sollecita ancora una volta le categorie di genere, specie e razza; Shenandoah infastidisce la performance maschile e apre uno spazio per le donne e per la rappresentazione della femminilità contro le norme sociali, in quanto il personaggio di Gertrude, a differenza dei personaggi maschili, mostra affetto per il suo cavallo e non adotta la stessa visione utilitaristica. 

Il variegato e complesso rapporto tra i cavalli e loro i padroni umani esplorato nel testo sembra suggerire che i primi possiedano un’agency e un’intenzionalità difficile da ignorare, talmente corroborata da dover essere piegata e da dover ricorrere all’affetto per domarla. Anche nel caso dell’oca di Wecker, oppure degli animali utilizzati nelle pratiche di vivisezione, ignorare la voce dell’animale non ne dimostra l’afonia, ma al contrario è proprio ciò che ne afferma la performatività. Performing Animals ha il grande pregio di essere un libro versatile, non solo perché multidisciplinare e trasversale nella struttura ma perché ha l’intento di sollecitare ancora, a distanza di sei anni dalla sua prima pubblicazione, numerose studiose e studiosi di ambiti diversi, dal teatro, alla storia della scienza, al postumanesimo, alla filosofia morale. 

Miriam Borgia (1999) è laureanda in Scienze Filosofiche presso l’Università di Bologna con una tesi dedicata al dibattito di età moderna intorno all’anima degli animali e all’agency animale in fenomeni come i processi agli animali, la sperimentazione scientifica e le pratiche di macellazione. Nel 2023 vince una borsa di studio per svolgere un periodo di ricerca per la tesi presso il MIT (Ma, Usa), sotto la supervisione di Harriet Ritvo.