Pennisi, “L’ottava solitudine. Il cervello e il lato oscuro del linguaggio”

Recensione di Ludovica Santangelo

L’ottava solitudine di Antonino Pennisi (il Mulino, Bologna 2024) offre pagina dopo pagina la proposta una concezione binaria sul tema della solitudine, i cui due poli sono ben esemplificati dalla distinzione lessicale offerta dalla lingua inglese: loneliness vs solitude. Pur esplorando una varia e articolata tipologia di questa condizione umana – e non –, in ogni dominio e accezione Pennisi ritorna a questa macro-distinzione: da un lato una solitudine subita, causata da fattori esterni e per cui l’individuo si ritrova segregato, allontanato, isolato contro la sua volontà; dall’altro una solitudine scelta, la riappropriazione di una dimensione individualistica in cui l’io dialoga con sé stesso, e in cui ci si può rintanare spinti da diverse ragioni. A queste due fondamentali categorie corrispondono i due atteggiamenti che per l’autore caratterizzano la disposizione dell’uomo nei confronti della solitudine: tendenza a rifuggirla, bisogno di rifugiarvisi. Già dall’introduzione sembra evidente che secondo Pennisi il nostro contemporaneo mondo globalizzato e digitalizzato abbia contribuito ad aumentare la prima disposizione a discapito della seconda, che invece questo libro ci aiuta a riscoprire non solo come necessità di preservare uno spazio di vita privata, ma proprio come modalità di default dell’esistenza umana.
Nell’opera di Nietzsche è diffuso il riferimento a sette solitudini, come sette strati di cui l’uomo possa spogliarsi per raggiungere il distacco dal conformismo e la libertà: tuttavia, nonostante Pennisi ammicchi a questo nel titolo, accennando la sua proposta di un livello ulteriore, i tipi di solitudine esplorati nel dettaglio nel suo libro sono tre, corrispondenti alle parti in cui è articolata la struttura del testo.

La prima solitudine che viene trattata è quella definita come psicologica, “che ha origine sociale” (p. 17), e che rimanda propriamente a un sentirsi soli, a quello che comunemente viene definito un senso di solitudine: è una solitudine che, subita o voluta, resa fattuale da una condizione fisica di allontanamento o percepita, ha sempre a che fare con uno sfondo sociale di riferimento con cui in qualche modo avviene un distacco. 
Pennisi esordisce con un capitolo dedicato ad aspetti etologici, in cui si esaminano gli effetti nocivi della solitudine – come stato di isolamento indotto – tra diversi animali con uno stile di vita sociale. Al contrario una solitudine percepita, che si manifesta come attitudine soggettiva che mette in campo la scelta deliberata di allontanarsi da un gruppo sociale, viene identificata come un “percorso metariflessivo esclusivo dell’animale umano” (p. 24).

Nel prosieguo della sezione dedicata alla solitudine psicologica l’autore distingue, come anticipato, tra una dimensione di destino e una di scelta. Per quanto riguarda la prima, viene messo in evidenza un paradigma della solitudine come fato segnato, condanna inevitabile dell’uomo, già emergente dalla tradizione poetico-letteraria, e profondamente connesso alla consapevolezza della morte e alla sua cognizione linguistica. L’aspetto più interessante del legame tra morte e solitudine è forse quello che Pennisi descrive parlando del Lazzaro e la sua amata di Gibran (2018): qui Lazzaro, dopo aver trascorso tre giorni da morto ed essere stato resuscitato da Gesù, manifesta delusione nell’essere tornato tra i vivi,  come se avesse trovato qualcosa, durante la permanenza nell’aldilà, a cui sente di non poter più rinunciare. Scrive Pennisi: “tutti hanno questo altro io incommensurabile che ci aspetta e bisogna ‘morire per stare con lui’, per non essere mai più soli. L’unica condizione che rende la solitudine non solo accettabile ma desiderabile è viverla in compagnia di sé stessi, ricompletandoci” (p. 33). L’idea che sembra emergere tra le righe è che, appurato il destino ineluttabile dell’uomo verso l’estremo stadio della solitudine – la morte –, che rende fragili e fugaci tutti i rapporti costruiti in vita, allora è come se si instaurasse la necessità di costruirsi un nucleo interiore che nessuna condanna biologica possa strapparci, un legame che non solo la morte non scalfisce ma in qualche porta a compimento: quello con noi stessi. 
La solitudine psicologica come scelta viene invece ricondotta a un narcisismo cognitivo che vuole “giustificare lo status speciale degli individui che l’hanno scelta liberamente, volontariamente e in tutta consapevolezza” (p. 40), e che si dirama in tre tipologie, connesse a tre principi ispiratori: religioso (Dio), laico-individualistico (Uomo), naturalistico (Natura).

La seconda parte del libro è invece dedicata alla solitudine biologica, cioè quella che ha origine corporea, ed è quindi connessa alla presenza di patologie che costringono l’individuo che ne soffre ad uno stato di isolamento organico. Secondo Pennisi questo tipo di solitudine è sempre subita e indesiderata, e la volontà di combatterla ed eliminarla è il suo aspetto più caratterizzante. In questa parte l’autore esamina le diverse sfumature della solitudine legata a patologie sensoriali (sordità, cecità, cieco-sordità), cerebrali (stato vegetativo persistente, stato di coscienza minima, sindrome locked-in) e psichiche (sindrome di Cotard), trattando anche concrete ed esemplari esperienze individuali, come la straordinaria storia di Helen Keller (cfr. Keller 1923). Il fil rouge seguito da Pennisi per connettere tutte queste esperienze è un focus sull’aspetto comunicativo: nodo problematico principale della solitudine patologica, l’impossibilità di comunicare, a diversi livelli e per varie ragioni, ne costituisce spesso proprio l’essenza caratterizzante. Si vedano ad esempio i capitoli in cui si tratta il confronto tra sordità e cecità, in cui viene messo bene in evidenza come l’isolamento socio-culturale dato dall’impossibilità di accedere al linguaggio articolato costituisce una condizione fenomenologicamente incomparabile rispetto a quella dell’individuo non vedente. “Se l’apprendistato semiotico ha buon esito la solitudine del sordo scompare. Viceversa i non vedenti dispongono sin dall’inizio dell’accesso naturale al linguaggio verbale articolato […]. Di conseguenza non sono mai soli, nel senso che vivono integrati in una comunità di parlanti da cui li separa solo l’impossibilità di condividere le immagini” (p. 78). Eppure, il cieco potrebbe sperimentare secondo Pennisi una solitudine di tutt’altra natura rispetto a quella connessa all’inserimento in una comunità linguistica: “alle parole potrebbero non corrispondere referenti condivisi, mondi condivisi, universi di senso condivisi. La solitudine dei non vedenti potrebbe allora sembrare una sorta di solitudine etologica, come se fossero un’altra specie” (p. 78).
Dal punto di vista semiotico, un altro elemento estremamente interessante si trova nella parte in cui l’autore fa notare come spesso si faccia di tutto per uscire dallo stato di isolamento comunicativo, mettendo in evidenza i diversi livelli di complessità e adattamento delle molteplici forme della comunicazione umana. Quando l’accesso a sistemi complessi è impraticabile – ad esempio per chi soffre della sindrome locked-in – Pennisi nota giustamente che per riuscire ad avere un contatto con il mondo attraverso un codice che esprima esigenze primarie basta che esista un modo per dire no: un sistema di un solo segno, un “miracolo della negazione” (p. 104). 
La sindrome di Cotard – caratterizzata dalla convinzione di essere morti da parte di chi ne soffre – è invece rilevante perché riporta al centro il già affrontato legame tra solitudine e morte, oltre che un interessante rapporto interno al macro-dualismo della solitudine di Pennisi, tra scelta e stato indotto: uno scegliere di non esserci che non ha propriamente a che fare con la volontà.
Un aspetto importante per l’autore, che emerge fortemente in questa sezione sulla solitudine biologica, è la seguente idea: nonostante sia evidente come l’interazione e la comunicazione siano la chiave per uscire da determinati tipi di solitudini patologiche, la nostra interiorità e il suo linguaggio, quella metariflessività di cui si parlava all’inizio e che caratterizza l’esistenza umana, torna sempre a proporsi come nucleo inviolabile, risorsa straordinaria per vivere anche le condizioni psicofisiche più terribili attraverso una via d’uscita che in realtà si trova dentro noi stessi.

Quest’ultima riflessione ci porta direttamente alla terza parte del libro, in cui si tratta la solitudine da cui prende il titolo, l’ottava rispetto alle sette nietzschiane attraversabili dall’uomo durante il suo percorso verso la libertà. Secondo Pennisi, “vincere la battaglia contro la vacuità della vita rappresenta il trionfo della solitudine positiva e autoriflessiva, della solitude” (p. 124), contro l’altra concezione che fin dall’inizio abbiamo messo in evidenza come loneliness, solitudine percepita come negativa, legata all’impossibilità di comunicare, isolamento dal mondo che a volte viene identificato con un destino ineluttabile. 
L’ottava solitudine è connessa al vantaggio, per l’uomo, di poter sviluppare un linguaggio interiore, una pura concentrazione, che per l’autore è indagabile attraverso lo studio del Default Mode Network. La scoperta di questo insieme di regioni cerebrali che si attivano escludendosi a vicenda, a seconda che siamo impegnati in compiti che coinvolgono l’attenzione verso l’esterno o che siamo in un resting state, permette di esplorare uno stato di solitudine involontaria e permanente, di default appunto, che riguarda il cervello di tutti gli individui e gran parte della loro attività cognitiva. Le domande centrali connesse alla scoperta del DMN sono: cosa fa il nostro cervello quando è a riposo? Cosa si scopre nel testare il cervello quando non sta facendo nulla, e non siamo impegnati in nessun task? (p. 129). La solitudine cerebrale o attività intrinseca osservata dai ricercatori ha natura fondamentalmente linguistica: il DMN ci porta a considerare la costante attività del linguaggio interiore, del pensiero verbale con cui silenziosamente parliamo a noi stessi. È questo secondo Pennisi il lato oscuro del linguaggio, che comprende le funzioni ancora non riconducibili a una istanziazione biologica, e che si oppone ad un lato chiaro fatto di tutti gli elementi linguistici di cui è stato studiato anche il livello corporeo (p. 163-164).
Dunque per Pennisi la solitudine connessa al DMN umano, questo stato di loop metariflessivo e context free che si attiva automaticamente, è un tratto cognitivo specie-specifico radicato in noi esseri umani, ed è la chiave per ripensare la solitudine come luogo del ricongiungimento tra l’individuo e la propria soggettività. Tutto ciò che facciamo quotidianamente, gli stimoli che riceviamo dall’esterno e le nostre interazioni sono possibili grazie al costante lavorio rimuginante del nostro cervello, nella sua modalità di default, che viene solo temporaneamente interrotto quando agiamo nel mondo, ma che è costitutivamente parte di noi e pertanto riprende appena rimaniamo soli con i nostri pensieri. Secondo l’autore questo dimostrerebbe che esiste un tratto socialmente innovativo della solitudine, e che il focalizzarsi sull’interazione non può spiegare tutto: “per comprendere l’unicità umana dobbiamo guardare altrove, in particolare al modo in cui il linguaggio, oltre alla sua funzione di comunicazione, ha contribuito ad affinare la riflessione su sé stessi e a sviluppare, nel silenzio delle solitudini mentali, i contenuti e le forme di processi innovativi e risoluzioni di problemi” (p. 171). E ancora, infine: “è necessario accogliere l’idea che senza la solitudine cerebrale in cui siamo costretti a rielaborare costantemente il mondo, non avremmo nulla di nuovo da offrire all’interazione” (p. 171). Per l’autore, senza questa ottava solitudine tipica del cervello e del linguaggio umano, senza il rimuginio interiore del soggetto con sé stesso, anche le relazioni e la comunicazioni diventerebbero vuote e addirittura inutili.

Qualche riflessione a margine.
Senza dubbio un pubblico di lettori e lettrici delle generazioni cosiddette “native digitali” troverà che l’approccio di questo libro al tema della solitudine può far emergere alcune questioni relative al modo di declinarlo nella contemporaneità. Davvero nell’era digitale il problema della solitudine può essere ridotto a un’emarginazione e ridicolizzazione dell’introspezione, della riflessione e del pensiero in proprio (p. 7), a vantaggio della semplicistica idea di una vita sempre connessi? Se davvero al giorno d’oggi la solitudine si rifugge, condividendo gran parte della vita online, ciò vuol dire che non si sa più stare da soli, o che lo si è sempre di più? Forse si potrebbe prendere in considerazione l’idea che anche la forma stessa della solitudine stia cambiando, dopo il mercato globale, i social network, il Covid: non solo isolamento subito o scelta narcisistica, ma dimensione duttile, in cui la componente percepita e psicologica si incastra o contrasta in modalità sempre più complesse con quella fisica e corporea. Sarebbe interessante approfondire l’indagine in questo senso.
Un'altra osservazione: nel libro sembra ricorrere l’idea che l’attività metariflessiva del cervello che parla a sé stesso non sia semplicemente una modalità cerebrale di default, bensì Pennisi ne dà sovente una valorizzazione euforica, come qualcosa di cui in qualche modo riappropriarci, qualcosa a cui torniamo naturalmente, ma che dovremmo consapevolmente apprezzare, quando siamo stanchi della folla e del rumore del mondo esterno. Fin dall’esergo del terzo capitolo l’autore fa riferimento al celebre Natale di Ungaretti: quante volte, tuttavia, ci “tuffiamo in un gomitolo di strade” proprio per mettere a tacere un costante tormento interno? Quante volte parlare a noi stessi, anche in assenza di condizioni psicopatologiche, invece che darci l’impressione di una riconnessione con il nostro io ci fa sentire scissi, assediati dall’incertezza, assordati da voci che non riusciamo a silenziare proprio perché il nostro cervello non può fare a meno di funzionare così? L’inner-speech e la sua specie-specificità possono essere una risorsa, ma anche una condanna: il linguaggio in questo senso ha forse davvero un lato oscuro, che oltre ad essere in parte sconosciuto, può causarci sofferenza e bisogno di evasione.
Per concludere, al di là dei diversi spunti critici e di approfondimento che questo libro stimola, L’ottava solitudine parla in modo accattivante e scorrevole a chiunque voglia immergersi nelle sfaccettature di una condizione così profondamente caratterizzante l’esperienza umana come la solitudine. Nel testo la prospettiva filosofica si fonde con brillanti e interessanti riferimenti alla letteratura, alla linguistica, alle scienze cognitive e all’etologia, rendendo la lettura ricca di spunti originali anche per chi per la prima volta si approccia alle tematiche trattate, e desidera avere una visione panoramica e interdisciplinare su di esse.

 

Bibliografia:
Pennisi A., L'ottava solitudine, Bologna, Il Mulino, 2024.

Gibran K., Lazzaro e la sua amata, Bologna, EDB, 2018.
Keller H., Il mondo in cui vivo, Milano, Bocca, 1944.
Nietzsche F., Così parlò Zarathustra, Milano, Adelphi, 1968.
Id., Ditirambi di Dionisio, Milano, Adelphi, 1970.
Id., Schopenhauer come educatore. Considerazioni inattuali III, Milano, Adelphi, 1972.
Id., Frammenti postumi (1883-1885), Milano, Adelphi, 1975.
Id., Frammenti postumi (1882-1884), Milano, Adelphi, 1986.
Ungaretti G., Vita di un uomo, Milano, Mondadori, 1966.

Ludovica Santangelo (Assisi, 1999) è una studentessa magistrale di Semiotica all’Università di Bologna, laureatasi in Scienze della Comunicazione nello stesso ateneo nel 2022 con una tesi in Gender Studies dal titolo: Genere alimentare. Sul rapporto tra identità di genere e alimentazione, dalla letteratura ai nuovi media. Le interessano la semiotica interpretativa, della cultura e della letteratura, gli studi di genere e la sociolinguistica.