Mordacci, “Ritorno a utopia”

Recensione di Alex Turra

Il saggio offre una rilettura dell’utopia attraverso una genealogia del concetto, partendo dal genio di Sir Thomas More che decise di unire i due suffissi eu- e ou-, con il termine topos, in un unico neologismo, ancora oggi ambiguo, cioè “utopia”. Scopo del saggio è dunque quello di ripercorrere, a partire dall’Utopia, le tappe che essa ha dovuto affrontare, offrendo sia considerazioni contenutistiche sulle opere citate sia speculazioni utili per capire la direzione dell’oggi. Dall’origine di questo termine, Mordacci ci conduce gradatamente al concetto, fino a giungere a puntuali considerazioni sul XX secolo e sul presente, che offrono altrettante riflessioni sull’effettiva necessità di un ritorno all’utopia come mezzo, assolutamente necessario, per pensare in avanti (p.IX). Tale gioco prospettico parte dunque dalla base evidente, che è costituita dallo stesso Thomas More, passando per i grandi maestri come Platone, Campanella, Bacon, Saint- Simon, Marx fino ad approdare al Novecento con Bloch, Marcuse e Bauman.

L’opera è suddivisa in cinque capitoli (a sua volta divisi internamente in sezioni specifiche): il primo capitolo, a partire da Thomas More, tenta di chiarire gli elementi essenziali dell’utopia; il secondo capitolo prende le mosse da un tentativo di più ampia comprensione del fenomeno letterario, andando alla ricerca delle cause della sua rinascita nel Cinquecento; il terzo capitolo pone enfasi sulla progettualità utopica e su come questa sia stata persa e recuperata attraverso le epoche; compito del quarto capitolo è proiettarsi sul concetto di “fine dell’utopia”, mostrando le distorsioni e le declinazioni del termine; infine l’ultimo capitolo rappresenta un autentico manifesto per il futuro dell’umanità, a cui Mordacci stesso intende offrire un contributo.

L’incipit del volume è dedicato all’Utopia di More, di cui si evidenziano, oltre a questioni filologiche, la natura e l’intento dell’opera. L’opera è realizzata come un trattato politico, con un taglio ironico, che gioca con l’atto del pensare la realtà sociale e la sua malleabilità, attraverso ordinamenti sistemici armoniosi, che rispondono a un desiderio concreto e che si fanno anche critica del presente. Essa fonda così il pensiero politico moderno attraverso un esercizio, sia ideale che pratico, che immagina e descrive una realtà altra al fine di comprenderla e disvelarne l’utilità per i propri contemporanei. Dunque il gioco (ironico) che ne costituisce l’essenza è quello dell’impossibilità apparente di accedere ai piani della giustizia e della felicità, ma che si fanno reali, confidando su un’immaginazione propositiva capace di produrre un mondo altro, perfetto e realizzato altrove. In questo, l’utopia riesce a porsi in contatto con il presente, contrastandolo attraverso ciò che esso ancora non è, facendosi pensiero rivoluzionario, dove l’unica trascendenza è il pensare un’alterità alle condizioni presenti.

In linea con il tema della possibilità, il secondo capitolo apre dal tentativo di comprensione del come una simile forza, ovvero l’utopia, sia sbocciata proprio nella prima modernità. Poggiata sul diritto di natura, l’utopia tenta di contraddire lo status quo perché ha portato a maturazione un’altra concezione politico-economica: con la forza di rappresentare altre condizioni socialmente e storicamente determinate, essa pretende di ri-fondare interamente la realtà. In questo processo si riattualizzano le virtù degli antichi, completandole con una sensibilità morale tipicamente moderna. A sua volta emerge uno spirito comunitario, in molteplici campi (lavoro, proprietà, famiglia), bramoso di poter finalmente dare concretezza alle proprie volizioni.

È proprio tale sensibilità a spingere More al recupero del modello platonico, da cui trae ispirazione per la giustizia, riconoscendone tuttavia la pura idealità e la mancanza di una dimensione prettamente politica: More necessita della potenzialità evocativo-pratica di Platone, ma ne valuta altresì l’astrattezza e la limitatezza di pensiero, che nell’Utopia viene adattata a un contenuto rinnovato, che sceglie di avvalersi di una comprensione unitaria del contesto umano e sociale. Si recupera dunque l’idea della miglior forma di Stato, che la modernità tuttavia supera pensandolo attraverso una giustizia e una felicità comuni a tutti. 

Dopo il salto nell’antichità, Mordacci continua sulla linea di una ripresa dell’antico con uno sguardo sulle epoche sucessive, in particolare sul Rinascimento per seguire l’apparizione di un realismo utopico, dove l’obiettivo non è la perfezione, bensì un’applicazione proto-illuministica della ragione, la quale include anche la fallibilità del sistema, fondato sulla libertà individuale.

Apre, invece, la terza parte del volume la considerazione che, al di là delle modificazioni narrative proprie dei tempi di stesura differenti, appartiene all’utopia un nodo cruciale, cioè la riscrittura del simbolo della giustizia (p. 59). L’operazione di Mordacci è quella di mostrare un permanere fluido di questo concetto, che nelle mani di Campanella si arricchisce di influenze teologico-politiche, perdendo la brama umanistica originaria. Una metamorfosi altrettanto profonda si rintraccia in Bacone, che pone il suo ottimo ordinamento politico attraverso la conoscenza (scientifica e tecnica), smarrendo quell’afflato critico verso lo status quo: è da ricercarsi qui, secondo l’autore, il fondamento del futuro approfondimento del rapporto utopia-tecnocrazia. 

L’Illuminismo accentua dunque quei valori che già avevano origine nell’Umanesimo, e che si fanno ancora più incisivi nell’Ottocento, dove l’utopismo si sviluppa in concreti progetti sociali: laddove nel Cinquecento prevaleva la narrativa “di viaggio”, l’utopia approda ora ad azioni concrete di riforma. Si fa così più chiaro il legame tra l’Umanesimo e il XIX secolo, fondato sulla progettualità creativa di un benessere comune: è proprio l’utopismo, con la sua volontà di diventare reale, ad avvalorare l’utopia che pensava esattamente quel reale come possibile. Mordacci esclude quindi dal filone utopico pensatori come Proudhon, perché alla base del suo anarchismo manca la dimensione dell’ordine sociale. La proiezione finale di quella progettualità confluirà invece in Marx e Engels, i quali riconoscono che, alla base dei progetti dei loro contemporanei, manca completamente un’analisi storica che riconosca la dialettica della lotta di classe, riconosciuta dal loro socialismo scientifico e ritenuto, invece, vincente nella progettualità grazie a una solida base teorica (rispetto alla metafisica che avvolge ancora il pensiero degli utopisti). Perciò la scienza deve sostituirsi all’immaginazione così come la previsione alla narrazione. L’autore conclude questa terza parte con l’osservazione che mentre Marx e Engels non tolleraravano l’utopia per la sua spinta immaginifica, non sufficienteme a reggere l’urto del secolo industrializzato, erano essi stessi ad attorniarsi di un sistema non privo di una dimensione utopica (p. 81).

Le considerazioni del quarto capitolo muovono proprio dalla critica marxista, che cambiò radicalmente la natura dell’utopia, appropriandosene: lo stesso marxismo, erede del desiderio di giustizia (p. 83), non poteva trascurare un simile spirito. È Ernst Bloch a riconoscerne l’impossibilità di un superamento dell’orizzonte utopico, animato da una forza universale che avvolge la storia stessa, ponendosi in contrasto con ogni passione romantico-regressiva (con un riferimento a O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente. 1918-22, trad. it. di J. Evola, Longanesi, Milano 1957): è quella tradizione marxista a cogliere nell’utopia il potere naturale di guida dell’azione emancipatoria. Sarà, successivamente, Marcuse a recuperare, attraverso termini freudiani, il suo nucleo, poiché quel principio di piacere che è ostacolato dal principio di realtà può solo attuare la sua manovra nella fantasia, che contiene perfettamente in sé i semi di un desiderio rivoluzionario. Declinandosi però nella realtà di cui si occupa Marcuse, questa manovra diviene il tentativo (utopico) di immunizzare il lavoro dall’alienazione, nonostante l’amara nota realistica di un irreversibile ingresso nella totale iniquità capitalistica che sottomette alla noncuranza e anestetizza il desiderio di libertà. Su questo punto Mordacci pone abilmente il lettore davanti a un’apparente desolazione: il marxismo riscopre l’utopia che tuttavia, pensata in questo modo, resta sul piano meramente ideale, bloccando ogni desiderio propositivo.

Da una simile condizione di staticità, assuefazione e angoscia l’autore ci conduce alla distopia, opposto iperbolico che non comprende appieno l’utopia di cui si vuole il rovescio. Recuperando implicitamente il fondamento baconiano, quell’anelito di giustizia trasformerebbe l’utopia in una mistura iper-razionalistica, tale da sfociare nel suo contrario catastrofico. Infatti, di quell’illusione moderna, il risultato concreto ottenuto sarebbe il dispotismo novecentesco. A sua volta, l’applicazione tecnologico-baconiana, che mira alla perfettibilità (sociale), può solo confluire in un totalitarismo tecnocratico-politico, che però ha all’interno della narrazione un limite, ovvero l’infondatezza sistemica che si traduce in un solo genere, la fantascienza. Permane comunque un punto di contatto tra l’utopia e la distopia, cioè l’anelito verso la giustizia che, in entrambi i poli, traduce un malessere verso il presente.

La conclusione di questo capitolo è favorita dal richiamo a un’altra distorsione del termine originario, cioè l’eterotopia di Foucault. Per quanto la sua riflessione verta su “luoghi reali”, facendo riferimento a strutture come prigioni o cliniche psichiatriche, il filosofo francese dimostra la loro natura comune di “non-luoghi”. Su questa linea si inserisce anche Mordacci, mostrando come la contemporaneità sia costituita di mondi-altri che alterano e sospendono inevitabilmente la dimensione del presente (come le crociere, p.105).

Ponendosi in relazione con quella passione romantico-regressiva e con il tema della “fine dell’utopia”, Mordacci sceglie di iniziare il quinto e ultimo capitolo dalla nostalgia, servendosi delle parole di Svetlana Boym. La pericolosità di questo sentimento antiutopico risiede nel fatto che ripone ogni dolore presente in un passato astorico, non offrendo confini progettuali precisi ma anzi, trasmettendo un soffocamento, mostra un rifiuto per una responsabilità sia individuale che collettiva. L’unico elemento di continuità del concetto che permane, come in ogni distorsione utopica, è il fattore “giustizia”, poiché anche in tale sprezzo del futuro si ripresenta la dimensione di un altrove ideale più giusto, ormai sradicato. Fu un simile stato a indurre Bauman a parlare allora di retrotopia, mostrando il rischio di dimenticare definitivamente il principio di comunità, in nome della maturazione di un desiderio di sicurezza leviatanica e di libertà individuale a sua volta generate dall’instabilità percepita nel presente. Conseguenza diretta è il proliferare di microcosmi chiusi che, secondo Bauman, permettono il fermento di nazionalismi, identitarismi e elitarismi antiglobalizzazione.

Tuttavia, sul rimpianto del passato (p. 116), Mordacci chiude il volume insistendo, invece, sul permanere dell’utopico nella contemporaneità, che avrebbe permesso l’attualizzarsi di riforme sociali a un tempo dette utopiche, quali l’educazione o la sanità pubblica. Apice di questo sviluppo sarebbe il modello di uno sviluppo sostenibile (p. 133), proiettato nel ben più ampio quadro delle riforme che mirano all’instaurarsi di un benessere collettivo: esempio ne sarebbe l’Agenda 2030, la quale coniuga ogni obiettivo in una dimensione organicistica, ricalcando proprio quella forma di narrazione cara all’utopia. Ecco perché il pensiero utopico, quale risorsa fondamentale per i periodi di crisi profonda (p. 137), si pon e infine, per Mordacci, come anterotopia, pensiero in grado di progettare il progresso futuro come un luogo davanti a noi.

L’unica zona oscura lasciata dunque dall’autore potrebbe essere rintracciata nel non aver dato spazio a una sempre più crescente coscienza collettiva, specie tra i giovani, nei confronti di determinati temi, che si afferma in modo sempre più ampio. Questo saggio, ponendosi come un testo didattico, permette una comprensione ampia del fenomeno utopico, corredato da precise introduzioni concettuali che lasciano aperti spazi di approfondimento anche al lettore non specialista. 

Alex Turra, dopo aver conseguito il diploma di scuola superiore presso il Liceo Scientifico Statale “G. Ricci Curbastro” con indirizzo “Linguistico”, si iscrive nel 2021 al corso di laurea triennale in Filosofia (classe L-5) presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna. È laureando in Filosofia politica, con una tesi sull’utopia di Gabriel de Foigny. I suoi temi di interesse vertono prevalentemente sulla filosofia politica, morale e del diritto, ma con interessi anche verso la contemporaneità.