Fabris, “Heidegger. Una guida”

Recensione a cura di Gaia Bertotti

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Fabris, A. (2023). Heidegger. Una guida. Roma: Carocci.

Alcuni maggiori studiosi di Martin Heidegger (1889-1976) presentano in questo volume gli argomenti che meglio scandiscono il suo pensiero. I dieci capitoli che lo compongono avanzano una profonda e accurata analisi: partendo dall’approccio fenomenologico e culminando con l’influenza cristiana emerge una descrizione quasi completa della figura controversa di Heidegger. Benché nel panorama italiano gli studi su Heidegger siano stati precoci, questa guida si propone di indagare in maniera nuova e storicamente attenta la filosofia del tanto discusso pensatore. I nuclei tematici della riflessione heideggeriana danno qui il nome ai capitoli del volume: fenomenologia, ermeneutica, ontologia, pensiero dell’Ereignis, opera d’arte, pensiero e poesia, tecnica, pensiero ecologico e cristianesimo sono, infatti, i termini chiave che riassumono lo studio delle questioni filosofiche tradizionali toccate dallo stesso Heidegger.

A seguire l’Introduzione di Adriano Fabris, circa la differente ricezione degli scritti heideggeriani sul suolo europeo, americano e giapponese, vi è il capitolo sulla fenomenologia, presentata prima come corrente e poi come metodo. Chiave d’accesso alla pratica fenomenologica è senz’altro Edmund Husserl (1859-1938), collocato da Heidegger tra i “numi del suo personalissimo pantheon filosofico, accanto ad Aristotele, Lutero e Kierkegaard” (p. 43). Grazie al suo maestro, Heidegger scopre la fenomenologia, ora considerata non più come corrente filosofica, bensì come metodo e possibilità del pensiero: “La fenomenologia, dunque, non ha nulla a che spartire con la convinzione ingenua per cui sarebbe sufficiente affidarsi alla registrazione casuale di dati di fatto” (p. 47), convinzione di stampo husserliano. Non bisogna intendere la fenomenologia come l’ambizione di cominciare ex novo, ma come via per conquistare il dato mediante la precedente distruzione delle categorie inadeguate della tradizione. In seguito alla rottura teorica e di collaborazione con Husserl, Heidegger prende le distanze dal termine “fenomenologia” per usarlo solo in occasione del riferimento al padre della stessa.

Ricorrendo a un linguaggio più diretto rispetto alle scuole del passato, Heidegger si avvicina alla riflessione sulla vita concreta, in particolare all’ermeneutica della fatticità. Il termine “ermeneutica” – come spiega il terzo capitolo di questo volume – viene da lui scoperto durante gli anni di studio di teologia. Per il filosofo tedesco, l’ermeneutica non è la conferma degli esiti di Schleiermacher o di Dilthey, cioè non è l’insieme di regole interpretative sistematizzate a partire da inizio Ottocento, bensì la manifestazione del “senso presente in forma implicita in ciò che accade, che richiede di essere esplicitato” (p. 68). L’approccio ermeneutico permette a Heidegger di cogliere il senso dell’esistenza individuale nel qui e ora dell’essere al mondo. Il duplice significato dell’ermeneutica si può riassumere in questo modo: da un lato indica come la vita fattuale sia portata a comprendere se stessa, dall’altro denota la modalità dell’Esserci esistente in un mondo, quindi il suo come, il suo progettarsi in possibilità originarie (e non in forme deiettive).

Imprescindibile, per la filosofia heideggeriana, è il problema ontologico, la “ricerca sull’essere” (p. 101). Heidegger desidera far luce sull’essere in quanto il pensiero tradizionale occidentale ha dimenticato e confuso la differenza tra essere ed essente, sovrapposti nel to on greco. L’intento di Essere e tempo (1927) è, quindi, la distruzione della storia dell’ontologia e il ritorno al vero senso ontologico. Il tentativo di assumere la “fenomenologia come nuovo approccio ontologico” (p. 105) al problema dell’essere si sviluppa a seguito dell’idea per la quale il senso dell’essere non si inserisce semplicemente in un’ontologia, ma all’interno della fenomenologia. L’esistenza va intesa come esperienza vissuta del sé e non come dato di fatto. Questa prospettiva viene assunta pienamente nell’opus maius mediante l’elaborazione dell’analitica esistenziale pensata come ontologia fondamentale. A indagare l’essere è l’Esserci (Dasein), ossia l’ente che noi stessi siamo e l’unico che può porsi la domanda sul senso del suo essere e dell’essere in generale.

Il quinto capitolo tratta Il pensiero dell’Ereignis, il vasto progetto di comprensione del rapporto reciproco di essere e pensiero. La verità dell’essere va indagata a partire dall’apertura dell’Ereignis (termine di difficile traducibilità, solitamente tradotto come evento o appropriamento), in quanto esso è “il modo e [...] l’ambito dell’essenziarsi (Wesung) dell’essere, in cui l’essere e il pensiero, l’essere e l’uomo pervengono alla loro essenza più propria” (p. 134). L’interrogazione sul senso dell’essere è il filo conduttore delle opere heideggeriane. Perché il domandare si presenti in modo originario, occorre una profonda corrispondenza tra pensiero ed essere, in particolare a partire dal concetto di inizio (Anfang). Con questo termine Heidegger fa emergere il movimento di velamento e svelamento tipico dell’essere: la costante tensione della differenza tra essere ed ente si spiega grazie al “carattere di inizialità dell’inizio” (p. 138).

Nella conferenza del novembre 1935, Dell’origine dell’opera d’arte, Heidegger parla per la prima volta della questione dell’arte. Questa riflessione nasce dalla ripresa, oltre che dei pensatori greci, di alcuni autori moderni: Kant, Schiller, Hölderlin, Hegel, Schelling e Nietzsche. Accanto all’essere-utilizzabile e all’essere-sussistente, dal ’35 compare la terza modalità d’essere dell’ente, ovvero l’essere-opera. L’opera d’arte non va intesa qui come prodotto culturale o come oggetto più o meno pregiato, bensì come “fenomeno dell’ente [...] in senso originario” (p. 158). Essa si dispiega nell’unione conflittuale di esposizione di un mondo e di deposizione della terra, cioè di se stessa. Da questo movimento di apertura e di chiusura l’opera d’arte prende origine (Ursprung) e mostra il suo profondo e autentico legame con la verità (aletheia).

Il capitolo su Pensiero e poesia pone l’accento su esistenzialismo, umanismo e antiumanismo. Heidegger rifiuta di assimilare la domanda sull’essere a qualsiasi filosofia dell’esistenza, soprattutto all’esistenzialismo di Sartre. Questo atteggiamento di contrarietà è evidente soprattutto nella presa di distanza dalla soggettività cartesiana: con la pretesa di esibire il fondamento dell’essere nel cogito me cogitare si cade, secondo Heidegger, nella “fallacia antropologica che inaugura il pensiero moderno” (p. 185). Heidegger marca la sua lontananza sia dall’esistenzialismo, solidale con l’umanismo della tradizione soggettivistica della metafisica, che dall’antiumanismo poiché legge una “convertibilità dell’umanismo metafisico nel suo opposto” (p. 186). Heidegger decide di argomentare le sue considerazioni pubblicando Lettera sull’«umanismo». Mentre il pensiero dice l’essere, la poesia nomina il sacro: ad accomunarli è quindi il linguaggio. Negli scritti heideggeriani la poesia (Dichtung) non è intesa come genere letterario caratterizzato da canoni formali, ma è il poetare, l’instaurazione della verità, “il dirsi del mondo” (p. 200). Per indagare l’essere e la verità occorre, pertanto, fare ricorso al pensiero e alla poesia.

Un altro tema caro ad Heidegger è La tecnica. L’ottavo capitolo di questo volume propone infatti di ripercorrere la riflessione del filosofo tedesco circa gli effetti della tecnica, in particolare negli anni successivi alla Grande guerra. Strumento di rivoluzione mondiale e strumento di mutamento della vita individuale, la tecnica mostra un profondo impatto su più livelli andando oltre la volontà di potenza di Nietzsche. Heidegger rimane colpito dalla descrizione delle leggi misteriose e anonime, di cui si serve la tecnica, trattate in La mobilitazione totale (1930) e Il lavoratore (1932) di Ernst Jünger (1895-1998). La lettura di questo autore è importante in quanto permette alla prospettiva teorica heideggeriana di ricondurre la tecnica contemporanea alla technē di matrice greca e di ritornare “su quella «essenza dell’essere» che [...] è stata coperta [...] da una determinata interpretazione dell’essere” (p. 209). Nonostante a Jünger sfugga l’impronta filosofica della tecnica attuale e l’incarnazione nel lavoratore del culmine della soggettività cartesiana, l’apporto jüngeriano rimane importante poiché conduce all’elaborazione heideggeriana, negli anni Trenta, della Machenshaft, la macchinazione. Con questo termine Heidegger indica “l’interpretazione dell’essere dell’ente come fattibilità” (p. 221), ossia l’apertura al fare tecnico sotto una prospettiva onto-storica: concetto teorizzato nel 1953 e capace di abitare la terra in un modo diverso, cioè in un rapporto libero con la tecnica, è infine il Ge-stell.

Martin Heidegger va inserito tra i precursori del pensiero ecologico (Zimmerman, 1983; Seidel, 1971; James, 2000), poiché prende coscienza dell’importanza dell’abbandono dell’antropocentrismo e del dualismo occidentale umano-natura. Sul significato di natura Heidegger torna più volte richiamandosi alla physis greca e alla Fisica di Aristotele. All’interno del mondo- ambiente vi sono gli animali: si può ottenere solo una parziale definizione della loro essenza, poiché non è dato all’essere umano indagare oltre il riconoscimento esterno di dolore e piacere, “la relazione umana con il mondo è troppo ricca per assumere come propria la povertà animale” (p. 252). Se si ragiona in termini di temporalità, Heidegger non nasconde il legame che intercorre tra gli animali e una loro coscienza del tempo. Per segnare una differenza tra l’essere umano e l’animale bisogna ricorrere al discrimen aristotelico, cioè al linguaggio che dà accesso alla temporalità. Heidegger non desidera inaugurare una nuova filosofia della natura, ma aprire la riflessione a un’analitica dell’Esserci capace di connettere la domanda sull’essere con l’abitare. L’essere-nel-mondo non indica infatti l’occupare uno spazio, ma la “continua maturazione temporale dell’Esserci, che accade nel suo prendere spazio nell’estendersi storico-temporale della sua esistenza dalla nascita alla morte” (p. 260).

L’eredità cristiana appartiene anche al padre di Essere e tempo: data l’assenza di possibilità familiari d’accesso all’alta istruzione, la formazione di Heidegger si deve al sostegno finanziario cattolico. È nel 1911 che il percorso accademico heideggeriano muta: dalla Facoltà di Teologia a quella di Filosofia. Traccia di rimandi al proto-cristianesimo è pertanto presente in più testi del filosofo. Poco alla volta si genera in lui una divergenza dal cattolicesimo e dai dogmi cristiani che culmina nell’“ateismo metodico” (p. 271) e nell’avversione viscerale per il cristianesimo cattolico ed evangelico.

La ricostruzione del discontinuo pensiero di Heidegger trova una buona formulazione in questa guida curata da Adriano Fabris, benché “non tutti i tentativi compiuti da Heidegger [portino] necessariamente a un risultato” (p. 14). Molte riflessioni vengono e debbono essere lasciate aperte per giungere alla radura dell’essere. Questo volume, dunque, non si pone l’obiettivo di rispondere alle maggiori questioni heideggeriane, ma quello di muovere i lettori a una costante riflessione.

 

Riferimenti Bibliografici 

Fabris, A. (2023). Heidegger. Una guida. Roma: Carocci.

 

Gaia Bertotti, dopo la laurea in Filosofia e Comunicazione presso l'Università del Piemonte Orientale e la partecipazione al progetto Erasmus+, nel 2023 è dottoressa in Scienze filosofiche presso l’Alma Mater Studiorum.
Attualmente lavora presso la casa editrice EV Torino ed è autrice e inviata per l'Associazione culturale Melainsana.
I suoi interessi vertono in particolare su ontologia, fenomenologia e studi di genere.