Fabbrichesi, “Vita e Potenza: Marco Aurelio, Spinoza e Nietzsche”

Recensione di Margherita Fidenzoni

Il testo si presenta come un’interessante e proficua analisi di alcuni dei termini fondamentali per la tradizione filosofica dell’occidente: felicità, vita e potenza. L’obiettivo del saggio è di analizzare l’elemento etico-pratico della filosofia, qui considerato come il motore eterno della stessa: agli occhi dell’autrice, la filosofia va intesa come la capacità di operare quello che gli stoici definivano “governo di sé”, al fine di controllare così le passioni costitutive all’essere umano. Tutto questo viene esemplificato attraverso la riflessione su alcuni dei più grandi autori della storia del pensiero: partendo da Marco Aurelio e dal suo stoicismo, l’autrice conduce il lettore in un viaggio passando per l’Etica di Spinoza e approdando alla filosofia nietzschiana. Tutto questo è possibile grazie all’occhio contemporaneo di Michel Foucault, per quanto concerne lo stoicismo, e di Deleuze per quanto riguarda Spinoza. 

L’opera è organizzata in tre capitoli, ciascuno dei quali sarà analizzato in questa sede: il primo è dedicato allo stoicismo e alla possibilità di uno sguardo contemporaneo, il secondo all’Etica e alla lettura che ne fa Deleuze, il terzo all’intimo rapporto che intercorre fra la filosofia di Nietzsche e la sua esistenza. L’intero testo è costruito non solo sulle basi testuali fornite dagli autori e dai rispettivi commentatori, ma anche sulla scia dei contributi filosofici di Pierre Hadot, punto fermo e di confronto specialmente nei primi capitoli. Rossella Fabbrichesi porta avanti la medesima tesi enfatizzata dall’autore francese, insistendo sull’idea della filosofia come arte del vivere bene. La felicità è il fine della vita, e la filosofia il mezzo per conseguirla.

Il primo capitolo inizia con un’approfondita analisi etimologica del termine greco eudaimonia, considerandolo come una parola composta eu-daimonia, avere un buon demone. Come è noto, nella Grecia antica i demoni erano considerati delle divinità minori, che accompagnavano l’uomo nelle sue azioni quotidiane: si configurano come delle figure mediane fra cielo e terra, proprio come le descriveva Socrate nei primi dialoghi platonici. A questo proposito, è nel Simposio e nell’Apologia che il daimon assume un’accezione più simile a quella della psyché, al quale il filosofo deve rimanere fedele (Platone, Apologia di Socrate, 31c- d).  

Per questa ragione, Fabbrichesi propone di intendere l’etimologia di eudaimonia come la capacità di sapersi alleare col demone che ci abita. In questo modo, sembra quasi che ci si trovi dinnanzi ad un esercizio di potenza di riconoscimento e appropriazione: la vita felice è la vita che compie ogni cosa secondo l’accordo del daimon che è in ognuno di noi.  

Da questa premessa, l’autrice permette al lettore di comprendere immediatamente dove vuole arrivare l’argomentazione: poche pagine dopo viene riportato come, sulla scorta della tradizione filosofica antica, gli stoici abbiano fatto tesoro del concetto di potenza, enfatizzandolo nei termini di quella che Hadot definisce “cittadella interiore” (1996). Attraverso i numerosi passi di Seneca, Marco Aurelio ed Epitteto, Fabbrichesi mostra abilmente come gli stoici ambissero alla costruzione di una vera e propria etica della potenza intesa come tonos dell’anima, volta al raggiungimento di uno stato di apatheia, massima virtù del saggio stoico. Egli è colui che, secondo le parole degli autori qui presi a riferimento, vive non facendosi toccare in alcun modo dalle passioni, rimanendo nella propria cittadella interiore. Tutto ciò è raggiungibile, però, solo attraverso una serie di pratiche ascetiche, etiche e comportamentali, che Hadot e Foucault chiamano etopoietica

Michel Foucault ha dedicato innumerevoli pagine allo studio di quest’insieme di pratiche, che ai suoi occhi costituiscono una tappa fondamentale nel mondo della storia della filosofia: egli vede negli esercizi spirituali la prima costituzione del soggetto moderno. È proprio qui che egli individua il passaggio da psyché al soggetto, insistendo sulla necessità dell’uomo di soffermarsi sulla propria potenza e capacità di fortificarsi.

Al fine di agevolare il collegamento con il secondo capitolo della sua opera, l’autrice introduce immediatamente il primo grande elemento di confronto con Spinoza: l’anti-platonismo. Gli stoici, considerano esistenti solo i corpi, dove con questo termine non si intende la materia, bensì il pneuma coeso. Esso consiste in un principio spontaneo dotato di una vitalità interna in grado di affettare ed essere affetto. Ed è proprio questo il tema che interessa Fabbrichesi: ai suoi occhi, Spinoza è in toto erede di questa forma di peculiare materialismo, dove Dio sarebbe effettivamente associabile al pneuma. Il Dio-Natura di Spinoza è, infatti, composto di materia dinamica ed energetica, rispecchiando così il paradigma stoico qui preso a confronto. 

In questo secondo capitolo, l’obiettivo centrale è proprio quello di lavorare su analogie e differenze fra Spinoza e gli altri autori che si sono presi come riferimento: la questione di un Dio materiale è considerata dalla Fabbrichesi come uno degli elementi centrali del prolifico rapporto Spinoza-Stoicismo, ma non certamente l’unico. Nella lettura di Spinoza, Fabbrichesi interpella spesso Gilles Deleuze, grande critico del pensatore olandese. In questo testo viene ripresa l’interpretazione del gioco dell’Etica tra affezioni e affetti, definiti da Spinoza con due termini diversi: affectio e affectus

Nella definizione III della III parte, viene chiarito come l’affezione vada ad implicare la modificazione di un corpo da parte di un agente esterno, ma come non si limiti solo ad essa: contemporaneamente, l’idea della modificazione va ad implicare anche l’aspetto percettivo-cognitivo dell’incontro, mentre l’affetto prende in esame l’affezione dell’aumentare o del diminuire della potenza. Diventa un parametro circa le variazioni della potenza dei corpi, portando così alla luce l’aspetto emotivo dell’incontro. 

La lettura di Deleuze è presa in esame da Fabbrichesi al fine di mostrare l’intimo intreccio tra vita e potenza nel pensiero Spinoziano. La sostanza stessa non è da intendersi in una maniera tradizionale e monolitica, bensì come qualcosa in costante movimento e plurale, definibile in base alla potenza dei suoi effetti. 

Ed è in virtù di questa unione fra vita e potenza che l’autrice, sulla scorta dell’interpretazione deleuziana, riprende un topos dell’analisi del filosofo francese: i tre generi di conoscenza di cui parla Spinoza vanno necessariamente letti in chiave esistenziale e non epistemica. Riprendendo le parole di Deleuze nel suo Cos’è un corpo, Fabbrichesi parla dei tre generi di conoscenza non in chiave gerarchica, come se fossero qualcosa da salire volta per volta, bensì come tre possibili e irrelate pratiche esistenziali. Secondo Spinoza, non è possibile liberarsi definitivamente della prima o della seconda per vivere interamente nella terza. È necessario quello che l’autrice definisce sforzo trasformativo: modellare l’ambito delle opinioni inadeguate al fine di raggiungere l’esperienza dell’eternità, tema affrontato nella V parte dell’Etica. Il vero progetto dell’Etica è diventato un voler condurre ad un rischiaramento generale delle idee, al fine di diminuire la potenza di quelle inadeguate e di condurre l’uomo fuori dalla peggior forma di schiavitù, l’ignoranza. 

E qui emerge un’importante tema di confronto con lo stoicismo: nell’Etica, l’individuo non raggiunge la saggezza attraverso l’apatheia, bensì attraverso un mettere a servizio dell’intelletto le passioni. Qui Fabbrichesi individua il grande nucleo che distingue il saggio stoico da quello spinoziano: nel primo si ambisce alla totale apatheia, al chiudersi in quella cittadella interiore di cui si è abbondantemente parlato. Spinoza, di contro, parte dal presupposto che le passioni esistono, e che è impossibile liberarsene: esse devono essere messe al servizio della ragione. Inoltre, quest’ultima non è da intendersi come opposta agli affetti, bensì come l’affetto più forte: è molto chiara, dunque, la distanza dagli stoici. 

Dopo queste riflessioni, per Fabbrichesi è semplice allacciarsi immediatamente a Nietzsche attraverso l’analisi della condizione tragica descritta da Spinoza nell’Etica. In uno degli assiomi della IV parte, l’autore olandese dipinge un mondo composto dalle potenze più varie, ognuna delle quali «se ne dà un’altra più potente dalla quale quella può essere distrutta» (Spinoza, Etica, Assioma Parte IV).  Qui viene dipinto con estrema chiarezza un universo che sembra voler essere un’anticipazione di quello Nietzschiano: in entrambi i casi, infatti, ci si trova dinnanzi ad un mondo come costellazione di potenze. Inoltre, dalle parole del filosofo olandese emerge un mondo tragico: ogni potenza è destinata a soccombere sotto l’influenza di una più potente. Ed è qui che viene introdotta la riflessione sul conatus, la modalità propria di esistenza di ogni essere vivente, e l’unico modo per opporsi alla sopraffazione delle altre potenze. Più si è in grado di farlo, più si è virtuosi, dove con questo termine si intende l’eccellere nella propria virtù naturale, la quale viene esibita senza timore. Si tratta di una concezione di virtù che raggiunge il suo apice durante il rinascimento, ma che è di fondamentale importanza anche per il pensiero di Nietzsche, che parla dell’essere virtuoso del superuomo, colui che è dotato di una potenza leonina e feconda.

Su queste basi, la fine della IV parte dell’Etica va a delineare il ritratto di un uomo che tanto ha in comune con l’Übermensch Nietzschiano: l’uomo Spinoziano è libero e virtuoso, in quanto egli desidera raggiungere la sua autentica aspirazione a pervenire a un esemplare umano. Sembra quasi essere quello spirito libero e gaio di cui tanto si parla nello Zarathustra. Nel caso del filosofo olandese, si è davanti ad un uomo che medita sull’esistenza, ma non è mai una meditatio mortis: obiettivo non è abbandonare la vita, ma raggiungere la felicità e dismettere la paura, affrontando gli ostacoli con fortezza d’animo, proprio come ha fatto il filosofo olandese durante tutta la sua esistenza. 

Arrivati a questo punto, è evidente quanto sia prolifico il dialogo fra Nietzsche e Spinoza, suggellato anche dalle influenze di Lou Salomé, grande amore del filosofo e grande conoscitrice dell’autore dell’Etica. Il terzo capitolo del testo qui preso in esame va ad analizzare la complessa relazione fra la tormentata esistenza del filosofo tedesco e la sua filosofia, al fine di sottolineare il binomio intimo e inscindibile fra i due. La potenza risulta essere uno dei grandi temi di interesse sia di Spinoza sia di Nietzsche, costituendo il perno di molte delle loro riflessioni. Ciò che però è da prendere in esame è il contributo dell’autrice su questo tema: attraverso una precisa analisi filologica dello Zarathustra e dell’Etica, Fabbrichesi mette in luce come la potenza in entrambi gli autori vada ad assumere su di sé la capacità creativa di trasformare, portare a perfezione e rendere virtuoso, al fine di seguire il naturale talento dell’uomo. 

Proseguendo nella lettura, è interessante osservare come l’autrice individui dei legami fra l’esperienza esistenziale di Nietzsche e la sua filosofia, basandosi non solo sulla sua produzione scritta, ma sul suo stesso epistolario. Molte sono infatti le lettere scritte dal filosofo tedesco nelle più disparate fasi della sua vita, che danno un interessante spaccato sul suo stato emotivo in quel momento. Ed è proprio su queste basi che Fabbrichesi introduce un interessante paragone fra l’amor fati di Nietzsche e la libertà stoica. Questi ultimi adottano una strategia che avrà un enorme successo nel mondo occidentale: l’unico modo affinché l’uomo sia libero è quello di desiderare ardentemente la necessità che lo condiziona, dicendo sì al destino che lo trascina. Ed è qui che l’autrice vede un’innegabile relazione con il filosofo tedesco: quando il corso degli eventi travolge l’uomo, è inutile sprecare la propria potenza cercando di fermarlo. L’unica maniera per raggiungere la felicità è quella di mettersi accanto al destino che è stato preparato per me: come scrive Marco Aurelio, io sono il mio destino, e non devo subirlo, ma adoperarmi affinché sia ciò che desidero. Fabbrichesi riprende il termine «rassegnarsi», utilizzandolo nel suo senso etimologico più puro: ri-assegnarsi, fare sì che il destino diventi ciò che si desidera, riprendendo le parole di Nietzsche stesso nella lettera a Franz Overbeck (5 giugno 1882).

Nel complesso. siamo dinnanzi ad un testo dalla raffinata analisi esegetica, pieno di interessanti rimandi testuali profondamente arricchenti per il lettore. Si tratta di una lettura chiaramente indirizzata ad un pubblico che ha già una buona base teorica per poterne comprendere la complessità, e che ha già una buona conoscenza dei testi qui presi in esame. 

 

Bibliografia

Fabbrichesi, Rossella. 2022. Vita e Potenza: Marco Aurelio, Spinoza e Nietzsche, Milano: Raffaello Cortina Editore.

Hadot, Pierre. 1996. La cittadella interiore: Introduzione ai pensieri di Marco Aurelio, trad. It. Milano: Vita e Pensiero. 

Nietzsche, Friedrich. 2020. Così parlò Zarathustra, trad. it Sossio Giammetta, Milano: RBA SRL.

Spinoza, Baruch. 2020. Etica, trad. it. Filippo Mignini, Milano: RBA Italia SRL.

Margherita Fidenzoni

Margherita Fidenzoni (Roma, 1999), studentessa laureanda in Scienze Filosofiche presso l'Università di Bologna. Mi interesso soprattutto di Storia della Filosofia e Filosofia teoretica, insistendo molto sui confronti fra autori e il legame con le epoche storiche in cui vivono. Nell'ultimo periodo ho iniziato ad apprezzare i vari sistemi di pensiero orientali, con un focus particolare sul mondo Zen, vagliando delle possibilità di dialogo fra l'Europa e l'Oriente.