Eder, "How the clinic made gender. The medical history of a transformative idea"

Recensione a cura di Federico Peretti

Il testo di Sandra Eder How the clinic made gender si inserisce con grazia e perizia scientifica all’interno della recente tradizione storiografica che intende ricostruire una genealogia del gender. L’apporto dell’autrice al compendio di saperi legato a questo termine consiste non tanto nella formulazione teorica di una nuova modalità di concettualizzare il gender, quanto nel mostrare il percorso — al contempo materiale e teorico, dove la linea di demarcazione tra l’idea e la prassi si assottiglia a tal punto da diventare impercettibile — di come tale nozione sia diventata ciò che è oggi, disvelandone il retroterra e la derivazione spiccatamente medica. 

Sarebbe tuttavia un errore avvicinarsi a questo libro solamente come a una storia del gender: in esso si tratta della ricostruzione storiografica di una certa pratica medica che ha prodotto il gender. Occorre non cadere nell’errore di considerare il gender come il prodotto cristallizzato e compiuto di un’evoluzione storica coerente, altrimenti si rischierebbe di imputare a questa nozione una staticità e una sclerotizzazione assiologica all’interno della scienza medica e della pratica sociale, quando esso è invece un concetto dinamico e fluido; come Eder ripetutamente cerca di mostrare attraverso il continuo assemblaggio e smontaggio, mostrandone i punti ciechi, i trionfi, le sconfitte, le evoluzioni, le involuzioni. 

Dove si svolge questa vicenda di stravolgimento perpetuo del gender? Certamente, afferma l’autrice, i processi che portano al nascere di una teoria scientifica o all’evoluzione di un paradigma epistemico non sono mai localizzabili in un solo spazio, un solo tempo, nemmeno attribuibili a un solo individuo, bensì si inseriscono in un complesso reticolo collettivo di scambi di idee, pratiche, tecniche, oggetti; tuttavia, nel nostro caso, la formulazione embrionale del gender, a livello linguistico e teorico, è localizzabile nelle sale operatorie, negli studi psichiatrici, nei corridoi dell’ospedale Johns Hopkins di Baltimora, in un periodo che va dal 1950 agli inizi degli anni ’80. Johns Hopkins è dunque il luogo, mentre l’“oggetto” propriamente scientifico furono i corpi dei pazienti intersex che si recavano presso la struttura in cerca di cure e di spiegazioni: corpi sui quali la scienza medica cercò di risolvere le proprie idiosincrasie sul binarismo sessuale; corpi che, una volta marchiati dalla significazione del sapere discorsivo della medicina, adoperati cioè per una prassi scientifica che imputasse loro una particolare valenza semiotica e per essere sussunti nell’universo significante che li ascriveva, venivano inscritti in un rigido schema binario e di normalizzazione sociale al quale a stento appartenevano; essi divennero il candidato ideale per ripensare totalmente i presupposti e il funzionamento del sistema binario uomo-donna. 

Compiutasi nell’analisi minuziosa dei registri dei pazienti al Johns Hopkins, la sfida metodologica del testo di Eder consiste nella ricerca storiografica dello spazio epistemico delle pratiche medico-scientifiche che paradossalmente presupposero e al contempo produssero l’idea di gender. Il margine è sottile: i medici del Johns Hopkins avevano a cuore il paziente, si desiderava che gli interventi chirurgici, le terapie ormonali, le cure psichiatriche, portassero come effetto positivo la sua felicità, quando essa era in realtà una tacita adesione estetica, culturale, razziale, psicologica, a una certa tipologia di esigenza sociale che domandava al singolo di conformarsi alle norme culturali e sociali che lo precedevano; tuttavia, seppure i medici e gli specialisti operassero entro questo retroterra culturale, al quale inconsciamente si uniformavano, la prassi medica e l’esercizio scientifico-materiale sui corpi da una parte produceva e rinnovava gli a-priori sociali e culturali imprimendoli sui corpi, normalizzandoli, e dall’altra poneva le basi per una nuova formalizzazione teorica: la costruzione di un sapere incentrato sul gender. È questa la storia discontinua e complessa di cui si occupa Eder: una storia secondo cui la clinica made il gender sia applicando sui corpi un sapere discorsivo, sia formulando un sapere discorsivo a partire dai corpi; un’intricata dialettica dove «ideas were put into practice and practices informed ideas» (p. 4).

L’innovazione metodologica del testo si registra anche nel campo dell’interrogazione delle fonti, costituite per la maggior parte dai registri dei medici del Johns Hopkins sui loro pazienti. Lo sviluppo metodologico si delinea proprio nella problematizzazione del rapporto tra il soggetto analizzante, il medico, e l’oggetto analizzato, il paziente. Il ritmo saggistico dei capitoli del libro è interrotto tre volte dalla narrazione dettagliata delle vicende ospedaliere di tre pazienti: Robert, Karen, Janet. Il più delle volte queste storie non si risolvono in un lieto fine, almeno dal punto di vista diagnostico — Robert prosegue regolarmente le cure, mentre Karen e Janet instaurano rapporti di conflittualità e disobbedienza nei confronti dei medici — ma proprio qui si produce lo scarto, dove l’esperienza viva del paziente diviene irriducibile al valore di verità della voce e della scrittura del medico curante sul registro. L’‘oggetto-paziente’, intelligibile in quanto muto, rompe il suo silenzio nella frammentarietà della scrittura del medico, nelle cancellature e negli scarabocchi sui registri. In questi cortocircuiti diagnostici si presenta un’alterità irriducibile che il sapere medico non riesce a formalizzare: un’alterità ignota e senza nome, in quanto prodotta unilateralmente dall’autorità medico-scientifica, ma pur sempre un’alterità capace di restituire un mormorio asignificante che attesti la propria presenza al di là della formalizzazione discorsiva del sapere, tantoché «even if we cannot access the voice of a patient […] we may still be able to encounter a patient voice» (p. 192). Sono queste discontinuità che permettono di ripensare la stessa metodologia storica di interrogazione delle fonti, dove l’oggetto di sapere diventa momentaneamente agente nel suo atto di ribellione al soggetto. 

Oltre ai tre capitoli “narrativi”, il testo si suddivide in sette capitoli di stampo puramente storiografico. Il primo capitolo tratta il nuovo approccio promosso dal pediatra Lawson Wilkins alla cura dell’iperplasia congenita dei surreni (CAH) — malattia endocrina ereditaria dovuta a un deficit degli enzimi steroidogenici che può portare come effetto primario a un’eccessiva “virilizzazione” del corpo e, nei casi più gravi, alla morte — grazie all’utilizzo del cortisone. La funzionalità “miracolosa” del cortisone permise, infatti, un nuovo approccio alle possibilità di modificazione e di intervento sul sesso del paziente, tanto da portare Wilkins a riconsiderare la veridicità del “sesso biologico” in favore della ricerca del “better sex”, inaugurando per la prima volta una discontinuità tra il “vero sesso” e il sesso più “adeguato” al paziente, ottenibile anche attraverso interventi diretti sul corpo. Il secondo capitolo concerne la “svolta psicologista” nel determinare il “sesso adeguato” nei pazienti intersex: si costituisce qui un’asimmetria radicale tra il “sesso mentale”, oggetto di studio di psicologi e psichiatri, e il “vero sesso” del corpo; in caso di discontinuità, secondo le valutazioni psicologiche, il secondo deve essere modificato per combaciare con il primo. Il terzo capitolo presenta la figura centrale dello psichiatra John Money, il quale introdusse un approccio culturalista nella valutazione del “sesso psicologico” dei pazienti intersex: se il “sesso psicologico” era determinato dall’educazione della famiglia e del contesto culturale adiacente al/la bambino/a, allora si sarebbe potuta orientare l’educazione su uno sfondo di ingegneria sociale che avrebbe normalizzato, lungo un asse binario, il perfetto cittadino americano. Il quarto capitolo tratta della formazione del concetto di gender role, promosso come complessa unità mente-corpo da Money. Tuttavia, se il paradigma per valutare il gender role di una persona intersex si fosse interamente spostato da un piano biologico a uno sociale e psicologico — dove il termine psicologico riguarda la costituzione della personalità mentale dell’individuo in conformità alla sua identità sociale —, la tesi scientifica secondo cui un sesso poteva essere trasformato diventò ben presto l’idea che un sesso doveva essere assegnato dall’autorità medica, ovviamente stipulato in conformità a un immaginario sociale preciso riguardo a ciò che costituiva la mascolinità e la femminilità. Il quinto capitolo riflette sul nesso epistemico tra il trattamento della CAH e gli effetti auspicabili che avrebbe prodotto la guarigione: l’esito della terapia non era infatti la sola salute fisica del paziente, ma anche la possibilità che lui o lei potesse vivere una vita “normale” una volta fuori dall’ospedale, dove la normalità rappresenta l’esito di un processo sotterraneo di normalizzazione che vede l’individuo “curato” come perfettamente conforme ai rigidi standard binari dell’assimilazione sessuale e sociale americana. Il sesto capitolo tratta la formalizzazione teorica e manualistica delle ricerche mediche, psicologiche, psichiatriche sul gender role e sui corpi intersex, da cui seguì un accrescimento costante del prestigio scientifico dell’ospedale Johns Hopkins, riconosciuto anche oltreoceano; tuttavia ciò portò con sé una determinata sclerotizzazione del sapere in virtù dell’egemonia teorica esercitata dall’istituzione all’interno della comunità scientifica. Il settimo capitolo, infine, si propone di dare uno sguardo alla fortuna del concetto di gender fuori dalla clinica: prima come termine medicalizzato, impiegato non più solamente nei casi di pazienti intersex, ma anche nella valutazione di pazienti transgender; per poi illustrarne la lenta dipartita dal contesto medico-scientifico come categoria medica, da un lato fino al suo ingresso in contesti queer come terminologia emancipatoria, dall’altro fino alla sua adozione come categoria analitica nel contesto delle scienze sociali, della storiografia, della filosofia. 

How the clinic made gender si presenta come un testo esaustivo e fedele alle sue promesse metodologiche. La lettura a volte può risultare difficile, non per la complessità dei contenuti, avvicinabili anche per un pubblico universitario, quanto per la crudezza delle tematiche trattate. L’autrice stessa ci ricorda, come filo conduttore sepolto nelle pagine del testo, che questo libro, oltre a trattare di teorie scientifiche, psicologiche, mediche, racconta anche la storia di diritti negati, di voci silenziate, di operazioni chirurgiche condotte senza consenso, di discriminazione, di violenza. La questione del gender è tutt’ora al centro di numerosi dibattiti, di decisioni politiche, di domande, di interrogativi che hanno un impato materiale sulla vita di numerose persone, le quali sperano costantemente in un’esistenza migliore, riconosciuta, più giusta, più equa: una situazione non poi così differente da quella degli individui la cui storia è narrata in questo libro

Federico Peretti (2001) si è laureato in Filosofia presso l’Università di Bologna con una tesi sulle continuità e discontinuità del metodo genealogico nel pensiero di Nietzsche e Foucault. Ha svolto un Erasmus presso l’Université de Tours. Studia Scienze Filosofiche presso l’Università di Bologna, e l’università di Paris 1 Panthéon-Sorbonne. I suoi interessi vertono principalmente sulla filosofia della storia, studi di genere e antropologia.