Recensione a cura di Lorenzo Bodellini
Cosa sia la coscienza e come si debba ragionare su di essa è un tema ancora attualissimo e intricato. Daniel Dennett accetta la sfida nel suo libro “Coscienza. Che cosa è” nel quale affronta in maniera rigorosa i principali dilemmi relativi alla coscienza cercando di difendere la sua teoria empirica della mente.
L’opera, più che offrire una elaborazione completa, si occupa di mettere in discussione una serie di concetti dai quali siamo persuasi. L’avversario da affrontare per sviluppare una teoria della coscienza verosimile non è più soltanto il dualista, colui che crede nella presenza di due sostanze separate, una fisica e l’altra mentale; oggi si presenta sulla scena anche la figura del “materialista cartesiano”, colui che accetta il materialismo ma non lo porta alle necessarie conseguenze continuando a dare credito ad antichi pregiudizi. Il libro si pone l’obiettivo di metterli in discussione.
Nella prima parte Dennett introduce i principali problemi e discute della metodologia che sarà adottata. Gli autori che si sono occupati di coscienza hanno basato le loro affermazioni sul “presupposto della prima persona plurale”: possiamo tranquillamente parlare di ciò che si trova nei nostri flussi di coscienza poiché abbiamo su di essi un privilegio epistemico.
Secondo Dennett ciò su cui ci inganniamo è pensare che l’attività di introspezione sia semplicemente osservativa; egli sospetta sia invece più simile a una continua “teorizzazione” improvvisata. Forse abbiamo la tendenza a credere di avere un accesso a una versione genuina delle nostre esperienze coscienti, ma questa percezione, proprio perché soggettiva, è priva di contraddittorio; potrebbe non essere come crediamo. L’idea di Dennett è che invece sia utile elaborare una metodologia che possa al contempo essere verificabile oggettivamente e rendere giustizia delle esperienze soggettive. Questa prospettiva prenderà il nome di “eterofenomenologia”.
L’eterofenomenologo lascia che la narrazione che un soggetto fa della propria interiorità costituisca il “mondo eterofenomenologico” di quel soggetto. Il mondo così identificato avrà lo stesso statuto metafisico dell’ambientazione di un romanzo di fantasia o di un dio verso il quale ci troviamo agnostici. Potrebbe darsi che eventi nel cervello siano difformi a tal punto da quelli descritti dal soggetto nel suo mondo eterofenomenologico da poter affermare che esso si stia sbagliando, tratto in inganno dalla sua introspezione. Possiamo considerare gli oggetti eterofenomenologici come finzioni teoriche; la questione se essi esistano o meno come stati cerebrali è un problema di natura empirica, ossia la domanda sull’esistenza di una corrispondenza tra oggetto mentale e stato cerebrale è un fatto da dimostrare tramite l’osservazione.
La seconda parte del saggio è dedicata all’elaborazione di una teoria empirica della mente. Il primo esercizio da compiere è quello di mettere da parte l’idea che ci sia nel cervello un luogo privilegiato, un Teatro centrale, dove tutto converge. A questa visione Dennett contrappone la teoria delle “Molteplici Versioni” per cui «ogni attività mentale è compiuta nel cervello da un processo parallelo a piste multiple di interpretazione ed elaborazione dei dati sensoriali in ingresso». Non esiste alcuna gerarchia interna al cervello, non c’è nessun “Autore Centrale”. Vari circuiti, composti di unità particolari e circoscritte, tentano di produrre degli effetti, creando man mano delle Molteplici Versioni.
Chiedersi quando un determinato contenuto sia divenuto cosciente è problematico. Esso subisce una serie di continue revisioni da parte di molti processi distribuiti. In ogni momento, ci sono molteplici versioni del medesimo contenuto in vari luoghi del cervello. Non c’è dunque nessun “reale” flusso di coscienza, ma numerosi percorsi cui non necessariamente il soggetto può avere accesso.
Dennett decide di affrontare anche la genesi della coscienza poiché essa ha molto da dire in merito al suo funzionamento. In un’ottica evoluzionista la coscienza deve essersi generata per selezione naturale sfruttando strutture già esistenti e operanti per altri scopi; la coscienza deve perciò derivare da ciò che prima coscienza non era.
In un’epoca primordiale devono essere nate delle “ragioni”. Non più soltanto cause ed effetti ma veri e propri “interessi”. I primi replicatori sono discriminati in base alle proprie abilità a moltiplicarsi. Dove ci sono “ragioni” ci sono “punti di vista”. Dove ci sono “punti di vista” ci sono obiettivi e fini.
In seguito, nascono le prime forme di sistema nervoso per controllare i movimenti e permettere al corpo del replicatore di avvertire le minacce e sfuggire ad esse. Il processo evolutivo si è infine spostato all’interno del cervello umano. Si deve dunque parlare di “evoluzione culturale”. Le idee si moltiplicano e si selezionano, gli esseri umani imitano i comportamenti e questo genera un nuovo tipo di replicatore: il meme. Introdotto per la prima volta nel capitolo 11 de Il gene egoista di Richard Dawkins il meme si comporta in maniera non dissimile dal gene, nella misura in cui azioni o comportamenti vengono riprodotti, essi entrano in competizione gli uni con gli altri per occupare spazio nelle menti umane e attraverso processi di selezione vengono discriminati i più adatti. Questo fenomeno genera delle pressioni evolutive che portano i memi a migliorarsi e a sviluppare caratteristiche utili alla loro riproduzione. I memi, come i geni, costruiscono le macchine per la propria riproduzione: il nostro cervello è ristrutturato da millenni di evoluzione memetica. Il sé, ad esempio, è una modifica adattiva indotta dai nostri memi, l’io è una illusione, come abbiamo visto non c’è nessun “utente”, nessun “autore centrale”, ma un’illusione estremamente vantaggiosa, quando io “credo a” qualcosa si crea un legame tra le mie idee e la mia identità, le mie idee saranno protette, quelle altrui, in molti casi, allontanate; i memi ne traggono un notevole vantaggio.
La coscienza umana è dunque un «enorme complesso di memi», non è soltanto un prodotto dell’evoluzione biologica, ma anche di quella culturale. La nostra coscienza è un “software” culturale implementato su un “hardware” biologico. Dennett non porta questo tema alle necessarie conseguenze: se la competizione tra memi determina da quali idee è composta la nostra coscienza allora i nostri pensieri e quindi i nostri comportamenti saranno spiegabili in rapporto a quali memi sono stati capaci di infestare la nostra mente. Forse siamo determinati dai nostri memi e con noi gli strumenti che abbiamo sviluppato per comunicare. La nascita di internet, il personalizzarsi e il decentralizzarsi dei media nella società dell’informazione, la comunicazione bottom-up anziché top-down, sembrano tutti fenomeni spiegabili alla luce di pressioni evolutive memetiche.
Dopo aver descritto la sua teoria Dennett dedica la terza parte del suo libro a una serie di ulteriori problemi filosofici il più importante dei quali riguarda il dibattito sui “qualia”, il modo in cui l’aspetto, l’odore, il suono di un oggetto ci appaiono.
Nel XVII secolo, John Locke parlava di qualità secondarie per riferirsi ad essi, distinguendoli dalle qualità primarie come la forma, la dimensione o il numero. Le qualità secondarie erano “i poteri degli oggetti” di produrre degli effetti nelle menti di osservatori normali.
Dennett nega che i qualia esistano. Non ci sono qualità secondarie. Esistono soltanto «stati discriminativi, distribuiti nei cervelli che sottendono una schiera di disposizioni innate e abitudini apprese di varia complessità». Quando ci riferiamo ai qualia che percepiamo stiamo in realtà facendo riferimento al complesso di disposizioni che avviene nel nostro cervello; non c’è un occhio della mente che vede il colore o un orecchio della mente che sente un determinato suono, ci sono costantemente molteplici versioni che generano la nostra percezione. I qualia sono elementi fittizi nel nostro mondo eterofenomenologico.
Dennett si interroga infine sul concetto di sé. Siamo abituati a concepire il sé in chiave essenzialista. L’approccio evoluzionistico di Dennett, tuttavia, è rigorosamente contrario a questa interpretazione: anche la genealogia storica del sé è da immaginare come un lento processo composto da numerosi “anelli mancanti” che sfuggono a qualsiasi tentativo di inquadramento in una definizione. La contrapposizione che vorrebbe il sé o presente o totalmente assente è fuorviante. Questo approccio anti-platonico è una costante nella produzione di Dennett e rappresenta un cambio di prospettiva rilevante che Darwin introduce ma che Dennett applica con successo alla coscienza umana.
Dal momento che ciò che siamo è l’organizzazione dell’informazione che ha strutturato il sistema di controllo dei nostri corpi, un robot opportunamente programmato, secondo Dennett, potrebbe essere cosciente, potrebbe avere un sé.
In definitiva è possibile spiegare la coscienza ma al prezzo di sacrificare una serie di presupposti cui fatichiamo a rinunciare come il Teatro Cartesiano, l’Autore Centrale o una certa definizione di sé; dobbiamo sostituirli con altre “metafore” come il Software o la teoria delle Molteplici Versioni. Abbiamo bisogno di questi strumenti, conclude Dennett, per poter anche solo tentare di riflettere sulla mente.
Bibliografia
Dennett, D., Coscienza. Cosa è. Milano, Raffaele Cortina Editore, 2023.
Lorenzo Bodellini (2002) ha conseguito la maturità scientifica e attualmente studia filosofia presso l'Alma Mater Studiorum di Bologna. I suoi principali interessi di studio sono la filosofia della mente, la bioetica, la sociologia e l'analisi critica degli effetti delle nuove tecnologie sulla società, la politica ed il pensiero.