Recensione a cura di Chiara Azzi
Il volume si presenta come una raccolta di saggi che, attraverso la polifonia degli interventi che lo compongono, fin da subito rivela una ricerca dai tratti fortemente interdisciplinari. Al lettore è proposto un percorso ramificato, reso tale dall'intersezione di differenti ambiti di studio. I primi saggi si situano in un contesto principalmente filosofico attraverso i contributi di Vincenzo Costa, Luca Vanzago, Sebastian Frisighelli; con l'intervento di Federico Leoni si ha occasione di spaziare in un ambito antropologico; infine, le voci di Davide Liccione, Filippo Cramerotti e Diego Liccione si addentrano in un settore prevalentemente clinico. Il tentativo comune è avvicinarsi tramite angolazioni diverse all'analisi del concetto di “evidenza naturale”, rintracciandone il significato in un’origine fenomenologica fino ad arrivare a considerarne gli effetti dello smarrimento (o della sua assenza) nell'uomo, scivolando necessariamente in considerazioni di carattere clinico e patologico.
Il centro intorno a cui orbita il dibattito è rintracciabile negli studi condotti sul finire del secolo scorso dallo psichiatra tedesco Wolfgang Blankenburg, da considerare con particolare attenzione per quanto afferma nel volume La perdita dell’evidenza naturale (1971). È in questa occasione che i suoi studi di impostazione psichiatrica si combinano a considerazioni di natura fenomenologica – che eccedono una diagnosi unicamente quantitativa dei sintomi del paziente per cercare risposte nelle condizioni costitutive dei deficit riscontrati. In particolare, ciò che Blankenburg indaga nei suoi pazienti sono le patologie tipiche del rapporto uomo-mondo, o meglio le fragilità che emergono dalla perdita di quella ovvietà semantica che accompagna ogni nostra conoscenza pre-riflessiva. Attraverso l'esempio della sua paziente, Anna Rau, Blankenburg rileva come sia la perdita di questa ovvietà, una evidenza naturale appunto, a caratterizzare il deficit basale della psicosi. Anna Rau avverte di essere spaesata, disancorata rispetto a quel senso comune che istintivamente guida le esperienze corporee e le lega al mondo. Le manca quel piccolo, strano, importante legame capace di guidarla nella comprensione del mondo e del suo modo d'essere nel mondo o con gli altri soggetti, su un piano che dovrebbe precedere la riflessione e l'intenzionalità. Secondo le parole di Vincenzo Costa, la psicosi è proprio questo vuoto: «un'alterazione dell'orizzonte di mondo nella sua totalità, un'alterazione complessiva del sistema dei rimandi» (pp. 17-18). Il paziente che ha perso o è privo di evidenza naturale non è in grado, istintivamente, di essere in accordo con l'esperienza di sé e di sé nel mondo, non può dare per scontato il proprio camminare nel mondo senza interrogarsi intenzionalmente o ricevere rassicurazioni sulla presenza del terreno sotto i propri piedi. In tutto ciò si mostra innovativo lo sguardo di Blankenburg perché, a differenza degli approcci meccanicisti alla questione dell'esperienza, permette di attuare una riduzione fenomenologica al fine di «liberarsi dell'ovvietà e dalla naturalità, superare la resistenza a evitare di considerare ovvio l'ovvio» (p. 42).
Questa crisi che Blankenburg situa nella corporeità trova un riferimento nel significato che a questo termine attibuisce M. Merlau-Ponty. Nella sua opera principale, Fenomenologia della percezione (1945), e nella raccolta di appunti Il mondo sensibile e il mondo dell'espressione (1953), il filosofo francese mette in una relazione inscindibile lo spazio, il movimento e lo schema corporeo. Già da questo rapporto sensibile ha origine il senso. La sintesi di tutti i dati fenomenici, solitamente attribuita a un intelletto attivo in senso kantiano, è invece resa possibile grazie al momento della percezione; in altre parole, solo con un'attività passiva di costante osmosi tra aspetto percettivo ed esperienza si comprende come il senso cresca insieme al sensibile. La coscienza non è fonte primaria di senso grazie al ruolo dell'intelletto, piuttosto è una coscienza embodied che partecipa alla produzione di senso partendo dai margini del sensibile esperito percettivamente e lavorando anche sugli elementi di sfondo. La nozione di “evidenza naturale” affonda le sue radici qui, poiché questa coscienza è descritta da Merleau-Ponty come tacita, come strumento latente di partecipazione al senso e sede ospitante di strutture e significazioni. Laddove una coscienza percettiva sia correttamente innestata in un corpo, si vedrà una ovvia e istintiva concrezione di senso e di attitudine naturale dell'individuo. Se questa coscienza non è unita al corpo, se non c'è più unità sinergica di azioni, allora si è privi di quel logos proprio della percezione dei fenomeni; di conseguenza, come nel caso dei pazienti di Blankenburg e degli esempi clinici riportati dal volume in esame, vengono registrati casi evidenti di aprassia e agnosia nei pazienti psicotici. L'effetto è una assenza di progetto personale o di presenza corporale pertinente a una situazione esterna o intersoggettiva, una mancanza di adattamento a priori dell'organismo al mondo, alle proprie possibilità e ai rimandi di significato che esse offrirebbero. Merleau-Ponty definisce il corpo normale come una località poiché «io pre-sento nella mia iniziativa la mia inserzione nelle cose, e quindi la possibilità di un toccare, un vedere, un vedere che non è solamente un luogo tra gli altri ma possibilità di rilevare tutti gli altri, rapporto normato con essi» (M. Merleau-Ponty, 1953).
Nel volume preso in considerazione, i primi saggi si prefiggono di interpretare il concetto di evidenza naturale tramite sguardi vicini alla filosofia. Vincenzo Costa ripercorre un'analisi fenomenologica del disturbo psichico, che caratterizza appunto come la rottura del rapporto con il mondo, alterazione dell'esperienza che ne facciamo e crepa nella catena di rimandi necessaria per comprendere i significati degli oggetti e delle situazioni. «Il sintomo manifesta che un vuoto o una rottura si è creata nella catena di rimandi, per cui il sintomo non è fuori dal senso, ma fuori dal senso che viviamo noi, ed è questo aspetto a sfuggire alla psichiatria classica. Nel disturbo psichico, l'esistenza non sa più dove andare a cercare quel mancante che ormai costituisce il senso attorno a cui si organizza la propria intera esistenza» (p. 14). In modo simile, Luca Vanzago si concentra sulle considerazioni fenomenologiche che offrono una base all'analisi psicopatologica di Blankenburg. A tal proposito, egli sottolinea come le maggiori influenze filosofiche derivino dalla fenomenologia di Husserl e Merleau-Ponty ma anche dal pensiero heideggeriano sulla situatività di un individuo nel mondo. Il caso di Anna Rau, infatti, porta a interrogarsi su come intendere il “poter essere” dei pazienti malati e in quale modo avvenga la modificazione del loro “co-sentirsi” situati, aspetti latenti o invisibili esternamente che aprono alla problematica dell'essere-nel-mondo e dell'intersoggettività. Una terapia funzionale deve partire da una riduzione fenomenologica capace di eliminare le cause meccanicistiche, con l'obiettivo «di presentificare l'esperienza del paziente, cioè di rendere presente al terapeuta, fin dove possibile, ciò che il paziente prova» (p. 34). Solo in seguito è possibile adottare una fenomenologia costitutiva, capace di indagare il mondo in cui il paziente vive e impostare una riabilitazione psichiatrica. Questa tappa evidenzia come «l'atteggiamento naturale è dato per scontato dalle persone sane mentre è un compito, sempre molto complesso, da assolvere e a cui pervenire per i pazienti» (p. 35).
La crisi di questo senso comune, evidenza naturale, porta a una dispersione dell'essere del paziente, nonché a una crisi della situatività individuale, e alla perdita di un ancoraggio pre-riflessivo al “mondo-della-vita” in quanto insieme di possibilità di realizzazione intersoggettive. È un ancoraggio che le parole di Sebastian Frisighelli descrivono come un «difetto nell'articolazione degli assiomi della vita quotidiana [...] e perdita della componente tacita e non tematizzata di conoscenza che rimane sottesa a ogni momento effettivo dell'essere nel mondo» (p. 49). In particolar modo, la sua riflessione analizza profondamente il significato di “evidenza naturale”; se, per Aristotele, physis è ciò che contiene il principio del movimento ed è evidente per induzione, anche l'evidenza naturale dell'individuo sano è un sapere pre-riflessivo dell'immediato. Il paziente malato avrà allora perso la capacità di relazionarsi con la physis, con il mondo naturale (non da intendere in senso naturalistico), per via di una sua incapacità di cogliere ciò che naturalmente e continuamente si dà. Nasce da qui l'incertezza nell'afferrare il senso delle cose che denuncia Anna Rau, sanabile solo da rassicurazioni o giudizi esterni. Federico Leoni definisce come “autolegame” (p. 75) questa evidenza naturale di cui la paziente è priva. Le è possibile muoversi nel mondo solo grazie all'aiuto di una sintesi attiva, spesso fornitale in questo caso dalla madre, poiché non riesce ad avvertire quel continuum naturale che va da sé ed è senso spontaneo della materia del mondo. La mancanza di evidenza naturale si traduce, in lei, nell'esclusione da quel legame a cui partecipano le cose del mondo nella loro produzione di senso. «Le manca la possibilità di un legame che si fa da sé, che va da sé perchè ognuna delle cose legate da quel legame è già una cosa che va da sé a sè» (p. 75).
I saggi finali del volume, riflettendo in pieno lo spirito interdisciplinare dell'indagine, rimandano ad alcuni casi classici, oltre che contemporanei, della letteratura sul disturbo psichico. Negli ultimi quattro decenni la neuropsicologia ha mostrato di essersi avvicinata a una considerazione fenomenologica della persona, estremamente prossima alla posizione di Merleau-Ponty, secondo cui il nostro essere (la nostra ontologia) è dettata da ciò che percepiamo. La persona è esistenza incarnata e situata, afferma lo psicoterapeuta Davide Liccione tra le pagine del proprio saggio. Le funzioni cognitive risiedono e operano nell'esperienza corporale, trovando il proprio significato grazie alla collocazione in una rete di rimandi precisa storicamente e culturalmente. È una cognizione incarnata che consente una sincronia implicita con le situazioni del mondo; laddove sia assente questa capacità di «avvertire nella carne le regole del gioco socio-relazionale» (p. 92), afferma Davide Liccione, il paziente può attingere a capacità riflessive e decontestualizzate per svolgere determinati compiti formali (risolvere un problema matematico, raggiungere un luogo determinato seguendo indicazioni date) ma non sarà in grado di proiettare se stesso nel mondo e nel tempo. La serie di esempi offerti dai saggi nel volume mostra casistiche differenti su un piano clinico, tenendo salda questa concezione di evidenza naturale.
In modo particolare, Davide Liccione si sofferma sul momento della perdita di questa ovvietà naturale, evidenziando come gli effetti sui pazienti siano assimilabili ai disturbi emotivo-comportamentali tipici della sindrome frontale (condizione patologica prodotta da una lesione alle aree cerebrali prefrontali). Attraverso alcuni esempi, è possibile vedere come un danno in quell'area conduca a un cambiamento quasi inspiegabile del paziente: sorprendentemente, le facoltà fisiche e prettamente intellettuali rimangono intatte (capacità di vedere, udire, muoversi, calcolare), ma sono compromesse le possibilità sia emotive che corporali del paziente. Il paziente affetto da sindrome frontale sa pianificare in modo astratto, ma non sa proiettare la propria esistenza in questi progetti – sembra, dunque, avere perso la sua evidenza naturale. È chiara la vicinanza rispetto a Merleau-Ponty, i cui studi attribuirebbero questo effetto alla rottura dello schema corporeo: la lesione cerebrale nei pazienti considerati da Davide Liccione ha provocato una crepa nel logos percettivo (il corpo), nella «complicità organismo-pensiero, cioè realizzazione del pensiero mediante l'organismo» (M. Merleau-Ponty, 1953).
Filippo Cramerotti e Diego Liccione, infine, presentano casi clinici recenti affrontati nel corso della loro esperienza di psicoterapeuti alla luce della fenomenologia: «La fenomenologia, lungi dal volere offrire una spiegazione obiettiva del comportamento o dei processi cognitivi della mente umana, si pone viceversa l'obiettivo di consentire un accesso all'essere nel mondo della persona, che non sia pregiudicato da teorizzazioni precostituite» (p. 105), afferma Filippo Cramerotti nel proprio contributo. È questo insieme di considerazioni legate al paziente a consentire un'indagine effettiva dei disturbi psicopatologici e delle loro origini. I contesti di crescita, la difficoltà a inserirsi in contesti solitamente comuni, la naturalezza compressa da una eccessiva riflessività, sono esempi di interruzione dell'incontro con il mondo e negazione del compiersi spontaneo dell'azione – esempi di assenza di evidenza naturale. Il paziente avrà difficoltà a cogliere le possibilità del mondo e abbandonarsi al flusso della situazione, dovrà invece scomporre ogni gesto in numerose riflessioni tali da rendere artificiale anche il movimento del sedersi. Perdendo (o non avendo) questa connessione con l'ovvietà è preclusa quella connessione implicita con il senso del nostro essere nel mondo: il paziente sarà costretto a ricercare forzatamente quei fili invisibili che un individuo in possesso dell'evidenza naturale sa (deve) ignorare, fili che legano i frammenti di un contesto e consentono istintivamente la sua comprensione. Il disorientamento provocato da questa mancanza è tale da obbligare il paziente a riflettere meccanicamente sull'intenzione di ogni gesto o il significato di ogni sguardo in qualsiasi situazione sociale, non capace altrimenti di dedurlo dal contesto.
Tramite i contributi analizzati, il volume Il mondo estraneo. Fenomenologia e clinica della perdita della evidenza naturale è stato caratterizzato da una collaborazione interdisciplinare atta a confermare l'unione tra ricerca fenomenologica e aspetti clinici. Questo è stato reso possibile raccogliendo l'eredità degli attori principali di questo connubio, Maurice Merleau-Ponty e Wolfgang Blankenburg, le cui strade si sono congiunte in una riflessione che nasce nella fenomenologia e i cui effetti sono indirizzati alla psicoterapia. In modo particolare, l'incontro è avvenuto grazie alla volontà di “salvare i fenomeni”, obiettivo di stampo originariamente filosofico che però ha saputo trasformare i metodi di indagine (e, in alcuni casi, cura) dei disturbi psichiatrici. Non si tratta più, dunque, di trattare atomisticamente i sintomi di un paziente al fine di ricondurli a una teoria scientifica di diagnosi e trattamento – rimanendo così nel solco di una psichiatria e psicoanalisi di ispirazione metodologica positivista. Piuttosto, l'intento è guardare ai fenomeni per come essi si manifestano, adottando una prospettiva che consideri in modo globale il disagio psichico del paziente e lo rapporti alla temporalità, alle relazioni e alle interazioni tra corpo e mondo. «Da una prospettiva fenomenologica dunque è possibile osservare come le forme psicologiche che prevedono uno “scollamento” dal mondo siano caratterizzate non da “convinzioni”, “processi cognitivi disfunzionali” o “pensieri inadeguati”, quanto piuttosto dal peculiare rapporto, pre-riflessivo e pre-tematico, che il malato intrattiene con il mondo» (p. 106).
Bibliografia
Blankenburg Wolfgang, La perdita della evidenza naturale. Un contributo alla psicopatologia delle schizofrenie paucisintomatiche, trad. it. F. M. Ferro e R. M. Salerno, Raffaello Cortina, Milano 1998.
Merleau-Ponty Maurice, Il mondo sensibile e il mondo dell'espressione: Corso al Collège de France (1953), a cura di Anna Maria Dalmasso, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2021.
Merleau-Ponty Maurice, Fenomenologia della percezione (1945), trad. it. Andrea Bonomi, Bompiani, Firenze-Milano 2017.
Vanzago Luca, Merleau-Ponty, Carrocci Editore, Roma 2017.
Chiara Azzi è una studentessa magistrale di Scienze Filosofiche presso l'Università di Bologna. Ha conseguito la laurea triennale in Filosofia presso l'Università di Bologna nell'anno accademico 2021/2022 con una tesi in Bioetica, approfondendo la tematica della morte cerebrale e della sua relazione con il trapianto di organi.