Byung-Chul Han, "Vita Contemplativa o dell’inazione"

Recensione a cura di Chiara Fiorentino

Affermandosi con sempre più insistenza il principio di prestazione nelle società, Byung-Chul Han, filosofo e docente sudcoreano all'Universität der Künste di Berlino, con Vita contemplativa o dell’inazione desidera proporre un percorso volto a riscattare l’agire umano dalla mera produttività. Dunque, l’opera, pubblicata in Italia nel 2023 dalla casa editrice nottetempo, tenta di ricondurre l’azione alla sua controparte inattiva, che, lungi dall’essere solo una mancanza, è compresa come quell’absentia che determina la praesentia di un agire privo di scopi ulteriori, e desideroso di contemplazione. Inoltre, pare opportuno evidenziare come l’opera sia scritta sulla falsariga de Il profumo del tempo, l’arte di indugiare sulle cose (Byung-Chul Han, 2017), che in fase prodromica si sofferma sulle tematiche sviluppate in Vita Contemplativa. Non a caso, il volume del 2023 inizia proprio laddove si conclude l’opera precedente, il cui capitolo finale porta lo stesso titolo del testo oggetto di questa recensione. Allora, Vita Contemplativa vuole essere un prosieguo e un ampliamento di un libro già scritto, a partire dal quale si avverte la necessità di porre l’attenzione sull’importanza dell’inazione che precede e consente l’indugio presso le cose.

Il volume, proponendo un percorso in cui si avverte uno sfondo politico, nell’arco di sei capitoli invita il lettore a risvegliarsi dal torpore di una vita dedita alla sopravvivenza, e di conseguenza, a riconsiderare il perché dell’agire.
Nel primo capitolo, Visioni dell’inazione, riprendendo il discorso già iniziato ne La società della stanchezza (Byung-Chul Han, 2020) – in cui si delinea l’introiezione da parte del soggetto di un’iperproduzione dettata da una società che assolutizza la sopravvivenza – si attua una distinzione tra tempo libero e inazione. Il primo, rispetto all’attività lavorativa, è quell’inazione che «ritorna come un fuori circoscritto» (p. 11), e che dunque si configura come tempo mortifero e da ammazzare per evitare la noia; mentre, la seconda ha una propria temporalità che dà forma all’ambito dell’humanum. L’inazione non è concepibile in termini di efficienza, giacché dà voce all’inutile dell’agire, il quale meglio si esprime nelle celebrazioni festive. La festa, infatti, non è solo svago, ma anche centramento in sé della persona, la quale si riscopre al di là della propria produttività, vivendo finalmente un tempo non appiattito su una sistematica funzionalità, ma amplificato nella sua assenza di un obiettivo determinato. L’inazione, allora, presuppone un indugiare presso le porte di un ascolto più profondo: essa, poiché si manifesta in un tempo che riposa in sé, permette all’agente di considerare gli eventi, non come nessi di una catena di assemblaggio, e dunque come qualcosa da sfruttare, ma piuttosto come qualcosa da vivere, la cui dignità non va mai tagliata fuori. Sempre grazie al potere dell’inazione, persino la noia trova il suo corretto collocamento: essa non prende forma come spazio da riempire, ma diviene luogo in cui cooperano attesa e pazienza, e in cui il riposo spalanca a una maturazione involontaria e inaspettata. Pertanto, l’inazione è «la soglia che conduce all’azione inaudita» (p. 33), e che permette la realizzazione del non-premeditato e la nascita di un assolutamente altro dall’agire obiettivato. 
Il secondo capitolo, Un commento a margine su Zhuangzi, in un paio di pagine cita, legato al saggio di Kleist Sul teatro di marionette (1996), un aneddoto, attraverso il quale Han desidera sottolineare l’importanza del lasciarsi andare agli accadimenti senza cercare di dominarli, ma facendosi piuttosto trasportare e trasformare da essi.
Nel terzo capitolo, Dall’agire all’essere, l’autore presenta un’etica dell’inazione, in cui il non-agire non solo è presupposto alla coerenza dell’agire, ma è anche dimensione per eccellenza di contemplazione e meditazione. Si apre, dunque, nell’inazione un momento che consente sia una pausa dalla frenesia odierna che spinge all’azione, sia una riconsiderazione dell’agire stesso. Per dirla in termini bergsoniani, l’inazione esprime il tempo della durata reale, quello vissuto dalla coscienza individuale, e non il tempo spazializzato scomponibile in istanti cadenzati dal flusso del divenire del mondo. Ecco che questa capacità dell’inazione di entrare in un tempo indefinibile cronologicamente, concede a chi lo vive di predisporsi ad un ascolto più autentico. Essa conduce ad un’interruzione, a una sospensione che sottraggono la visione di un tempo di cui disporre, e conducono al tempo dell’inazione, in cui prendono forma l’atteso e l’imprevisto. Dunque, nell’inazione non c’è una vera e propria rinuncia all’azione – a meno che questa non venga intesa come azione che trova la sua ragion d’essere esternamente –, ma v’è paradossalmente un altro modo dell’agire: quello che si dispiega nel possibile e nell’eventuale. Il tempo dell’inazione, allora, è quel tempo senza briglie, privo della direzione che detta la progettualità, e vissuto nell’abbandono al silenzio e all’ascolto.
Il quarto capitolo, L’assoluta penuria dell’essere, instrada il discorso sul piano politico-sociale. Qui, Byung-Chul Han descrive la società odierna come luogo di scambio di informazioni, le quali, avendo una natura additiva, riducono l’uomo a serbatorio di una conoscenza impersonale. L’uomo, d’altro canto – ribadisce Han – è un «animal narrans» (p. 71); si nutre di simboli, i quali, poiché intrinsecamente destinati sempre a rimandare ad altro a partire da sé, permettono l’instaurarsi di un senso comune, e di una condivisione. Allora, nella società attuale, l’uomo, ridotto a filtro bucato della conoscenza, si trasforma in un essere senza cuore, senza ricordi e memorie, giacché tutto gli passa attraverso senza lasciare mai un segno.
L’unico rimedio a questa decadenza sta nel recupero di un tempo dedicato alla festa, che crea comunione e apre alla contemplazione, la quale, come vuole l’etimo del termine, è un approssimarsi con lo sguardo allo spazio del cielo, al regno delle idee immortali.
Il quinto capitolo, Il pathos dell’agire, procede parallelamente all’analisi di Vita Activa di Hannah Arendt (2017). Secondo Han, la filosofa taglia fuori dal sociale e dal politico la dimensione contemplativa, erigendo «uno spazio dato alla libertà al di fuori delle necessità e della mera vita» (p. 96). La Arendt nel suo testo descrive la società di massa, dominio di nessuno in cui l’azione vede scomparire il volto dell’agente, il quale viene ad assumere fattezze indefinibili. Da qui, nasce l’interesse della filosofa teso a rischiarare tutti gli aloni di mistero sull’azione e su chi la compie. Ella si propone di far presente, mettere in scena, l’agire senza nascondimenti. Di conseguenza, seguendo questo proposito di rischiaramento dell’azione, di presa di coscienza dell’agire individuale; dalla modernità in poi, l’azione, sotto il grido di un’esigenza crescente di libertà di espressione, non smetterà mai di essere inibita, ma sarà oggetto di una stimolazione continua, che tuttavia nell’eccesso eccitativo dimentica il suo senso. Ecco che la società attuale rovescia e al contempo declina in modo affine quella massificata: l’io, stordito da una produttività senza pari, arriva addirittura a sfruttarsi senza averne consapevolezza; si vede scomparire davanti alle azioni che compie, e benché ci metta la faccia, si ritrova puntato addosso un riflettore che lo investe di una luce così intensa da renderlo invisibile. Infine, Han ricorda che, solo verso la fine di Vita Activa, Hannah Arendt inizia a riflettere sull’assolutizzazione del lavoro, veleno per l’azione e per le facoltà umane. Tuttavia, fino all’ultimo ella «non si rende conto che è proprio la perdita della capacità contemplativa a condurre al trionfo dell’animal laborans» (p.114).
Il sesto e ultimo capitolo, La società a venire, chiude il libro con un invito a recuperare uno sguardo contemplativo sulle cose. Nella consapevolezza di vivere in un mondo che detta un ritmo uniforme, che non si adatta a nessuno e in più pretende di farsi ascoltare, stimolando un produrre che assolutizza l’imperativo del verbo; in un tale clima che fomenta ed eccita continuamente i sensi senza mai appagarli – secondo Han – diventa essenziale arrestarsi, prendere tempo, e osservare la bellezza annichilata dall’impeto dell’azione automatica e impensata. Allora, in quest’epoca, in cui l’iperattività si sostituisce alla religione o, meglio, si impone come una litania irrefutabile, la cui religiosità è schiacciata da un ascolto monotono e fastidioso che rende sordi; Han – richiamandosi a un’opera di Novalis, I discepoli di Sais (2001) – invita a una riconciliazione con il mondo, e in particolare con la natura che «appare come un gioco, libera com’è da scopi e guadagni» (p. 123). Solo attraverso una riappropriazione dell’individuo del suo essere parte di una natura misteriosa e incantevole, si potrà restituire all’uomo la sua dignità dispersa: quella che l’operosità cieca gli sottrae ingiustamente.

In conclusione, Vita contemplativa – sperando di accompagnare mano nella mano il lettore in un cammino volto a riconsiderare l’altra faccia dell’azione, la quale non si riduce a uno sprofondamento nel non far nulla – è una lettura consigliata a chi della distrazione non vede un semplice impedimento all’azione, ma soprattutto un potenziale che attrae verso un altrove disatteso. L’opera di Han, allora, desidera ricollocare su un piano più legittimo la famosa locuzione latina oraziana del carpe diem, oggidì usata e abusata più d’ogni, giacché dimentica del suo seguito altrettanto essenziale, ossia: quam minimum credula postero, affidandoti il meno possibile al domani (Orazio, Odi, 1, 11, 8). L’espressione, che, tradotta più fedelmente invoglia a cogliere il giorno più che l’attimo, è un invito a vivere il presente nella sua transitorietà, approssimandosi ad esso. Tuttavia, non bisogna abbandonarsi all’ansia o al panico suggeriti dall’effimero; non si deve recepire la locuzione come un’incitazione a cogliere un frutto che altrimenti marcirebbe, ma la si deve concepire come sollecitazione ad afferrare e a gustare il presente. Inoltre, riflettere sempre sul dopo porta a proiettare la mente in avanti, lasciando indietro il corpo e la realtà esterna. Si viene trascinati in una spirale di operosità che spinge a raccogliere frutti che però non si mangiano, che spinge ad accumulare senza mai assimilare. Dunque, Han – facendo risorgere dalle ceneri la celeberrima espressione di Orazio – esorta a cogliere il tempo presente, non semplicemente perché breve e irripetibile, ma soprattutto perché unico, autentico e vivo. 

Bibliografia 

Arendt, Hannah. 2017. Vita Activa. La condizione umana, trad. it. S. Finzi. Milano: Bompiani.

Han, Byung-Chul. 2023. Vita contemplativa o dell’inazione, trad. it. S. Aglan-Buttazzi. Milano: nottetempo. 

Han, Byung-Chul. 2017. Il profumo del tempo. L’arte di indugiare sulle cose, trad. it. C. A. Bonaldi. Milano: Vita e Pensiero.

Han, Byng-Chul. 2020. La società della stanchezza, trad. it. F. Buongiorno. Milano: nottetempo.

Kleist, Heinrich von. 1996. Sul teatro di marionette, trad. it. M. Sabbadini. Milano: La Vita Felice.

Novalis. 2001. I discepoli di Sais, trad. it. A. Reale. Milano: Bompiani.

Orazio Flacco, Quinto. 2018. Odi ed Epodi. Canto secolare, a cura di U. Dotti. Milano: Feltrinelli.

Chiara Fiorentino (Napoli, 1998) è una studentessa del Corso Magistrale in Scienze Filosofiche dell’Alma Mater Studiorum Università di Bologna. Si è laureata in Filosofia all’Università degli Studi di Napoli Federico II, con una tesi in Storia delle Dottrine Politiche dal titolo "L’emergenza sanitaria come biopolitica", in cui si analizzano gli sviluppi e le conseguenze della Pandemia di COVID-19. Ad oggi, studia e vive a Bologna.