Butler, "Che mondo è mai questo?"

Recensione a cura di Elena Ranieri

Nonostante la pandemia da Covid-19 sembri un ricordo ormai lontano, essa incarna perfettamente uno di quegli eventi-tipo, che non solo segnano la storia, ma ne condizionano oltremodo la direzione. In “Che mondo è mai questo?” la filosofa statunitense Judith Butler risponde all’esigenza di riformulare una nuova concezione del mondo e della vita, a partire proprio dai traumi e dalle ferite inferte dalla pandemia.

 Micheal Foucault riteneva che il ruolo del filosofo fosse quello di diagnosticare il presente, e in linea a tale funzione, Judith Butler fa della filosofia uno strumento per la mediazione tra varie discipline, a cui affida soprattutto il compito di aiutare a comprendere quella che definiamo “realtà”; difatti, lungi dalla visione comune di questa disciplina, Butler riempie la filosofia di significati e risvolti pratici, politici, e universali. Questo libro vuole dunque tentare di ridefinire l’idea di umanità nei termini di una relazionalità interconnessa e dipendente, non solo tra individui della stessa specie, ma tra qualsiasi forma di esistenza in questo mondo, persino oggetti e superfici. Per dimostrarlo, Butler prende in esame la dimensione corporea in relazione alle politiche sviluppatesi attorno alla pandemia, che nella maggioranza dei casi, non han fatto altro che aumentare il senso di isolamento e smarrimento, provenienti da una concezione egoistica dell’etica. 

Butler auspica una “trasvalutazione” da una soggettività delimitata e narcisista, ad un incontro incondizionato con l’alterità (p. 10), che non comporta la sparizione del soggetto, bensì un limite sulle possibilità di alcuni di privare altri della propria soggettività. Ma come si può passare da una concezione individualista del corpo come oggetto nel mondo indipendente, ad un senso del mondo globale, che connoti il corpo anche come apertura radicale all’alterità? Emerge qui lo scopo fondamentale di Che mondo è mai questo?, ossia esplorare gli squarci che la pandemia ha aperto nell’esistenza, col fine di orientare la percezione del mondo in una nuova direzione e, di conseguenza, modificare in esso la nostra azione. 

Nel tentativo di fornire un quadro clinico della soggettività, Butler non si limita a presentare un resoconto oggettivo della vita umana durante la pandemia. Si impegna piuttosto a evidenziare come quest’ultima abbia fatto emergere alcuni problemi endemici alla nostra società. A fronte della consapevolezza di un mondo mutevole, Butler tenta infatti di ridefinire il ruolo che l’essere umano può rivestire, sulla base di una cruciale e necessaria revisione delle categorie con cui, tendenzialmente, si descrive la realtà. Nella visione di Butler, sono proprio queste categorie, che con un linguaggio diverso possiamo denominare strutture, che determinano le conclusioni che traiamo sul mondo. Per scrutare, modificare e superare tali strutture, Butler si riferisce ai pensieri e ai metodi più disparati, per colmare la complessa vastità dei problemi analizzati, ma anche per spuntare le catalogazioni tradizionali, e rompere così con le concezioni dualistiche dominanti. Tale metodo, dirompente e provocatorio, pur rimanendo nella cornice del post-strutturalismo, non ne risulta per questo circoscritto e limitato. La novità dell’impostazione filosofica di Butler è rintracciabile nel proficuo incontro intellettuale tra voci della storia della filosofia, spesso reputate incompatibili, ma che la filosofa mette in dialogo proprio con l’idea di colmarne i limiti attraverso pensieri e riflessioni fra loro complementari. Non si tratta di un mero esercizio linguistico e intellettuale, quanto piuttosto del tentativo di scrutare il reale sotto più paradigmi possibili, con lo scopo di rintracciare aspetti che altrimenti avrebbero faticato ad emergere. Butler evidenzia come a cambiare debbano essere i limiti del mondo, ossia, l’orizzonte entro il quale esso ci appare (p. 16). Appellandosi alla teoria dei giochi linguistici di Wittgenstein e all’idea di immagine-mondo di Heidegger, l’A. auspica questo cambiamento non in virtù di una qualche trasformazione aleatoria, quanto in virtù di una trasformazione del senso del mondo, che modifica i suoi limiti, e con essi, il mondo stesso. 

Nel primo capitolo, denominato proprio “Sensi del mondo”, tale rivalutazione prende le mosse dalla concezione del tragico di Max Scheler, a confronto con la configurazione del corpo secondo Maurice Merleau-Ponty. Qui Butler definisce l’interrelazione tra i corpi ed il mondo, a partire proprio dal significato dei legami, sullo sfondo di valori e ideali specifici che connotano l’esistenza che viviamo. In primo luogo, ad essere preso in esame è il concetto di tragico, in riferimento all’esperienza che Scheler ha avuto della Prima guerra mondiale. Conforme alla corrente fenomenologica, il filosofo tedesco tenta di analizzare come si presenta il mondo, a partire da un orizzonte preesistente, che l’individuo percepisce tramite una trascendentalità che lo costituisce. La datità del mondo non è qualcosa di oggettivo che semplicemente osserviamo, bensì si costruisce attraverso una serie di processi e atti che le danno forma. 

Il tragico, dunque, viene inteso come un fenomeno che ci permette di chiarire numerosi aspetti dell’angoscia collettiva che situazioni come guerre e pandemie producono. Secondo Scheler, il tragico gode di uno statuto di autonomia particolare, poiché prende vita come qualità del mondo, come sua caratteristica. Egli non intende il tragico come un evento specifico, quanto piuttosto una categoria che sussume in sé un certo numero di esperienze, poiché appunto il tragico non è un fatto o un avvenimento, ma una sorta di aura che circonda le cose, quasi un’atmosfera. Ed è a questo punto che Butler si ricollega per definire gli effetti della pandemia, in cui quell’atmosfera si trasforma nell’aria stessa che respiriamo, e in cui il tragico si manifesta attraverso la perdita di valori dati per scontati. Difatti, nell’ipotesi scheleriana, il soggetto trascendentale viene dislocato a favore di un mondo colto oggettivamente, nel quale il tragico mostra al soggetto il mondo con tutto il suo peso, provocando una quantità di dolore che finisce per superare i limiti stessi dell’esperienza. 

Secondo un’altra prospettiva, ossia quella di Merleau-Ponty, il problema risiede nel fatto che il soggetto, inteso come corpo, è già parte integrante del mondo che abita, radicato in uno spazio, ma anche al di là di sé stesso, in un’esperienza tanto oggettiva quanto soggettiva. Il filosofo francese spiega tale concezione a partire da due caratteristiche fondamentali del Corpo, il fatto che vede, ed il fatto che è veduto, allo stesso modo esso tocca, nel momento stesso in cui è toccato, e viceversa, in virtù del fatto che il mondo è tangibile. Se per Merleau-Ponty il corpo è sia qui che altrove, è in forza della sua dimensione incarnata, di un’interrelazione dinamica che connette al mondo i corpi incarnati. È una caratteristica propria del corpo; la sua essenza è quella di implicare una relazione con altri corpi, oltre che con gli oggetti, le superfici, e tutto ciò che costituisce il mondo, ad esempio l’aria, che non è di nessuno, ma allo stesso tempo di chiunque. A partire da questi due pensieri differenti ma complementari, Butler tenta di definire le condizioni minime per vivere una vita vivibile a fronte della pandemia, nella quale ai disordini concreti di un’instabilità materiale si aggiunge una precarietà esacerbata nelle fasce più “deboli” e povere della popolazione. Dunque, per rispondere al quesito iniziale “che mondo è mai questo?”, occorre prima capire “come vivere in questo mondo”, poiché ad un mondo vivibile deve corrispondere necessariamente una vita vivibile.

Nel paradigma etico che emerge dalla pandemia, per Butler, è fondamentale riconoscere il carattere di interconnessione e dipendenza tra le forme di vita sulla Terra; è necessario concepire che questo legame reciproco coinvolge chiunque, a partire dalla dipendenza strutturale che caratterizza gli esseri quando vengono al mondo. Ed è solo attraverso questa consapevolezza che è possibile superare la classica concezione fittizia di individualità “naturale”, che deve rivelarsi invece come uno stato immaginario costruito a beneficio di alcuni, e a discapito di altri. Occorre, di conseguenza, delineare e applicare dei limiti alle attività invasive ed estrattive dell’uomo, mettere dei paletti alla libertà che sta permettendo all’uomo non solo di distruggere la Terra, le sue risorse, e con esse, la vivibilità stessa del nostro pianeta, ma che finisce con anche l’inasprirsi delle disuguaglianze sociali. Dinanzi a tale urgenza, Butler propone un altro tipo di libertà, che è quella della ricerca di un mondo comune, che non risponde più alle logiche di profitto e crescita smisurata che caratterizzano la società tardo-capitalistica. E da questa nuova libertà, ridefinire alcuni dei più importanti concetti politici, a favore dell’eguaglianza sostanziale tra tutti gli esseri viventi. 

Quest’idea di interconnessione ed eguaglianza radicale viene poi approfondita da Butler nel secondo capitolo, nel quale esamina le dinamiche e gli effetti della vita in lockdown, al fine di far emergere i criteri problematici con cui le istituzioni hanno affrontato il Covid. In primo luogo, l’A. critica la priorità che i governi, specie occidentali, hanno riservato alla salute dell’economia delle nazioni, instaurando l’idea inconscia di un “margine di mortalità accettabile”, che sancisce un numero di morti quotidiani accettabile, col solo fine di far ripartire la macchina economica e di profitto. In secondo luogo, la critica della filosofa si indirizza contro l’iniqua distribuzione degli strumenti per la lotta contro il virus, sia che si tratti di cure, vaccini o contributi economici, destinati principalmente a quelle fasce di popolazione ricche e privilegiate, al costo di un sacrificio che migliaia di persone hanno pagato senza scelta. A pagare il prezzo più alto sono coloro la cui vita è considerata dispensabile o sostituibile, la cui salvaguardia non è mai stata una priorità o un bisogno, tutti quelli le classi povere, le persone razzializzate, etc… Tale disuguaglianza radicale si inscrive in quello che la fenomenologia denomina “mondo della vita”, nel quale le vite assumono un significato, e prendono forma in virtù di un’interdipendenza costitutiva. Per Butler, tuttavia, non si tratta di mere individualità isolate in contatto tra loro, ma di un intreccio vero e proprio, nel quale si ristabilisce il senso dei corpi, dei loro confini e, inevitabilmente, dell’intersoggettività. Da ultimo, Butler biasima il rapporto attuale dell’uomo con Terra, la quale, in ottica antropocentrica e capitalistica, viene considerata una risorsa alla mercé degli esseri umani, di cui abusare a proprio uso e piacere. Tale concezione ha provocato conseguenze devastanti sulla nostra vita, a partire, ad esempio, dagli effetti temibili del cambiamento climatico sulla Terra e sulla nostra quotidianità. Per perseguire l’obiettivo di un mondo abitabile e di una vita vivibile, occorre necessariamente riconoscere il carattere radicalmente interconnesso della realtà. 

In funzione di questa fondamentale concezione, nel terzo capitolo Butler si focalizza sull’intreccio tra etica e politica, nonché sulla necessità di ridefinire gli orizzonti entro cui percepiamo il mondo, “alla luce dell’infinità che lo attraversa e lo supera” (p. 70). Secondo Butler, l’evento tragico sconquassa la nostra scala di valori, e ci consente di percepire il mondo in modi che non ritenevamo possibili, al punto da portare a chiederci se sia effettivamente possibile stabilire una forma ultima del mondo. Per dare un senso a tale quesito, la filosofa ripropone l’utilizzo della fenomenologia come alleata e strumento della critica sociale, poiché essa manifesta i modi in cui la vita incarnata condiziona l’intersoggettività. L’uso della fenomenologia ci consente infatti di tratteggiare il modo in cui le strutture della società influenzano sia la vita quotidiana che il corpo, tant’è che al centro della ricerca si pone l’esperienza vissuta, quello che le persone vivono e sentono, e da cosa essa scaturisca. A partite da tale metodologia Butler riprende Merleau-Ponty, e in particolare, il concetto di entrelac, ossia l’intreccio delle cose del mondo, e il mondo stesso. L’assunto di partenza è che gli esseri umani, in quanto corpi, sono sia nel mondo, che del mondo, e di conseguenza il piano delle relazioni si configura come una “sovrapposizione”, che si inscrive a sua volta in un’ontologia del corpo, nella quale la relazionalità fa e disfa il soggetto individuale. (p. 75) 

L’analisi di Butler è orientata ad una genesi, ad una ri-nascita, del mondo comune, nella quale trionfa la relazione intesa come chiasmo, incrocio reciproco di corpi che toccano e respirano lo stesso mondo; un mondo in cui ciò che distingue le soggettività, è anche ciò che le unisce in quello che Merleau-Ponty definisce un abbraccio tra il soggetto ed il mondo. (p. 79) Ora, lungi dalle derive idealistiche, Butler si concentra sulle conseguenze etiche di una tale concezione dell’intersoggettività, e pone l’attenzione sul bisogno di concepire più mondi, secondo una necessità che deriva dalle differenze e dalle diseguaglianze che caratterizzano il mondo che abitiamo. D’altro canto, se l’obiettivo è costruire un mondo comune, allora occorre ri-orientare il sé al di là dell’individualismo utilitarista, dal quale dipende l’attribuzione di un valore alla vita, ordinato su rigidi principi derivanti da logiche economiche e di mercato. In risposta alla violenza necropolitica e alla gerarchizzazione della vita, Butler propone una responsabilizzazione collettiva volta alla creazione di condizioni che diano ai gruppi “più vulnerabili” più diritti, primo fra tutti quello della dignità di lutto.

Con quest’ultimo concetto si chiude l’argomentazione di Butler, ossia con l’idea che ogni singola vita sia degna “di lutto”, nell’accezione freudiana della capacità di riconoscere e accettare la perdita. Dall’altro lato del lutto Freud pone la melanconia, ossia l’incapacità di riconoscere una perdita, e che Butler trasla in una forma culturale, alla base persino delle strutture che caratterizzano il genere. L’A. articola la sua tesi in due punti fondamentali: 1) la lotta alla diseguaglianza sociale deve necessariamente presupporre la lotta alla differente distribuzione della dignità di lutto; 2) quest’ultima è a sua volta parte integrante della lotta in favore della non-violenza. Affinché la razionalità del mercato cessi di controllare il valore di ogni vita, è necessario instaurare vincoli etici che ci permettano di riconoscerci in un tessuto sociale di vite che si intrecciano, verso quello che Hannah Arendt denomina amur mundi, amore per il mondo. 

In sintesi, Butler ci esorta a ri-significare il mondo sull’eguaglianza e la libertà più radicali, all’insegna della non-violenza, e a partire proprio da quei corpi il cui sforzo è esso stesso la sostanza del loro pensiero – e di una protesta trasformativa (p. 108). Che sia un’utopia o una mera speranza, oggi più che mai, l’opera di Butler ci consente di osservare le incoerenze e le ingiustizie del mondo e di guardare oltre quest’orizzonte liminale, in un futuro migliore per tutte e tutti.

 

Elena Ranieri si è laureata in filosofia con una tesi sul ruolo dell'inconscio nell'intersoggettività, da un punto di vista femminista presso l'Alma Mater Studiorum di Bologna. Ha effettuato un periodo di studio all'estero nell'università di Montréal in Canada, ed ha in programma un altro periodo di studio presso l'Ecole Normale Supérieure di Lione, in Francia. La sua ricerca verte principalmente sulla filosofia morale, con un particolare interesse verso l'etica applicata, a partire dallo strutturalismo e dell'esistenzialismo francesi. Sempre a Bologna, frequenta attualmente il corso di laurea in Scienze Filosofiche.