Baldissara, "25 aprile"

Recensione a cura di Federico Tori

Che cosa simboleggia il 25 aprile? Cosa ha rappresentato per la storia della nostra Repubblica? Ha ancora senso festeggiare questa ricorrenza? Sono tutte domande a cui si propone di rispondere questo agile volume di Luca Baldissara, pubblicato nel 2024 per la collana “Voci” de Il Mulino. Il tema è frequentatissimo, e negli ultimi anni ha subito una forte polarizzazione, provocata anche dallo scenario politico interno del nostro paese. Fra le tante parole scritte sull’argomento, però, queste rivestono un’importanza particolare in quanto frutto del lavoro di un ottimo storico contemporaneista quale è Baldissara, che utilizza e interpreta le fonti in maniera estremamente abile, smentendo (o confermando) quelle opinioni “popolari” e spesso non convalidate che permeano la nostra società.
La struttura del volume comprende un brevissimo prologo e tre capitoli: nel primo si ricostruiscono le vicende storiche che portarono al 25 aprile “originale”, quello del 1945, mentre i restanti due si occupano rispettivamente delle varie interpretazioni che a quella ricorrenza sono state assegnate durante quello che Baldissara chiama il “lungo dopoguerra” (per intendere gli anni 1945-1975) e nel corso della cosiddetta “era del maggioritario” (che arriva fino ai giorni nostri). Si potrebbe avanzare qualche perplessità sugli estremi cronologici sottesi da questi due sezioni; tuttavia, siccome il libro segue uno sviluppo diacronico, la divisione proposta non rappresenta un ostacolo eccessivo alla comprensione dei concetti. Prima del prologo, una citazione del 1949 di Panfilo Gentile, liberal-conservatore che scriveva sul settimanale «Il Mondo» con lo pseudonimo di Averroè, ben si adatta anche alla situazione dei giorni nostri, soprattutto quando sostiene che la Resistenza «non è stata più sentita come il reinizio vivente della nuova Italia democratica [ed] è stata doppiamente tradita: […] da chi ha rievocato il 25 aprile 1945 per farne oggetto di una bassa propaganda e da chi ha preferito addirittura dimenticarlo» (p. 7).
Si è già detto del tema del primo capitolo, ma è opportuno sottolineare la notevole capacità dell’autore di sintetizzare efficacemente e in poche pagine le vicende di un biennio complesso come quello 1943-1945. Attraverso testimonianze dirette e documenti del tempo ci si concentra tanto sugli eventi storici veri e propri quanto sulle sensazioni e sugli stati d’animo dei protagonisti. Emerge, in particolare, il fatto che la guerra di liberazione tenesse insieme culture politiche molto diverse fra loro, guidate però da un comune orizzonte ideale, ovvero il raggiungimento della democrazia e conseguentemente della centralità dell’individuo. Inoltre, viene evidenziato come i vari piani insurrezionali accuratamente disegnati non venissero quasi mai rispettati (p. 25), il che conferisce alla lotta una dimensione “casalinga”, guidata unicamente dalla volontà di riscattarsi con successo dall’esperienza del fascismo. Si tiene ovviamente presente che quella del 25 aprile è una data convenzionale, ma secondo l’autore il senso di scegliere proprio quel giorno per le celebrazioni, ovvero il momento in cui il Comitato di liberazione nazionale Alta Italia assume «tutti i poteri civili e militari […] quale delegato del governo italiano» (p. 37), risiede nel fatto che è quello il momento in cui «si fa conclamata la sensazione che la guerra sta per finire» (p. 41). In aggiunta a questo, come riporta il decreto-legge del 1946 che per la prima volta istituisce la ricorrenza, il 25 aprile vuole simboleggiare anche «la ricongiunzione delle province settentrionali al resto della Penisola» (p. 44). Va infatti ricordato che gli ultimi nove mesi di guerra civile si svolsero a nord di Firenze.
Dal secondo capitolo inizia l’esplorazione del percorso che la festività protagonista del volume di cui ci stiamo occupando ha compiuto fino ai giorni nostri. È ovvio che i festeggiamenti del 25 aprile siano sempre stati condizionati dallo scenario interno e internazionale, soprattutto nell’immediato dopoguerra. Emblematico è il caso del 1948, dove vengono vietate le manifestazioni a causa della vicinanza della Festa della Liberazione con l’esito delle prime elezioni politiche della neonata Repubblica. La lucida analisi di Baldissara rileva puntualmente che «prende così il via una prassi […] riassumibile nella polarizzazione tra le celebrazioni ufficiali […] e le commemorazioni politico-civili. […] La convivenza nella giornata del 25 aprile di un doppio passo celebrativo – quello della ritualità istituzionale e quello della festa popolare – è un tratto da subito evidente» (p. 60). Questa polarizzazione ha il suo corrispettivo politico nel tentativo della Democrazia cristiana di assegnare alla festività una funzione prevalentemente combattentistica da una parte, e in quello delle sinistre socialista e comunista di enfatizzare il significato politico-civile della fondazione di una nuova Italia democratica dall’altra. A questo dualismo che caratterizza il quindicennio successivo alla fine del secondo conflitto mondiale, si sostituisce negli anni Sessanta un rinnovato interesse verso la Resistenza, anche da parte dei giovani, visibile già nelle manifestazioni dell’estate del 1960 contro la decisione del governo presieduto da Fernando Tambroni di far svolgere il comizio del Movimento sociale italiano, partito che si richiamava a simboli e idee politiche del fascismo, in una città emblema dell’antifascismo come Genova. Il volume si appoggia frequentemente su ampi stralci di citazioni delle figure più importanti dei periodi presi in esame, ad esempio (relativamente agli anni Sessanta) Ferruccio Parri e Giorgio Amendola, e inserisce il decennio all’interno di una nuova polarità che contrappone due visioni della democrazia: «si doveva dunque favorire la continuità dello Stato di diritto, oppure dare vita a una «nuova» democrazia, fondata sull’inclusione, la partecipazione, l’autonomismo?» (p. 82), si chiede l’autore. Questa riscoperta della funzione politico-civile dell’antifascismo non è ovviamente casuale, ma discende dalla diffusa percezione del pericolo di un possibile ritorno del fascismo. Un rischio tutt’altro che inesistente, come dimostreranno gli attentati del 1969, in particolare quello alla sede della Banca nazionale dell’agricoltura di Milano, in Piazza Fontana, primo atto della cosiddetta “strategia della tensione”, portata avanti principalmente da Ordine nuovo, un movimento di estrema destra appoggiato anche da alcune parti delle istituzioni statali. Si aprono così gli anni Settanta, alla luce di una reinterpretazione di classe dell’antifascismo, secondo la quale la lotta deve puntare «sulla mobilitazione delle masse fino a un’azione nazionale contro le centrali fasciste» (p. 88). La stessa classe dirigente del Paese viene ritenuta colpevole di fascismo, visti «la continuità di uomini e strutture tra fascismo e repubblica, gli ambigui pencolamenti a destra della Dc, la violenta gestione delle piazze e del conflitto politico-sociale» (p. 93). Ciò che di conseguenza si propone è un antifascismo militante. A metà del decennio, però, i vari partiti, che si considerano sotto il duplice attacco dei terrorismi nero e rosso, si uniranno in un fronte comune: il 25 aprile del 1974, nel pieno del sequestro del giudice Mario Sossi, messo in atto dalle Brigate rosse, e poco prima del referendum abrogativo del divorzio, sia i giornali di sinistra che quelli vicini alla Democrazia cristiana enfatizzano l’importanza dell’antifascismo come «risorsa per il presente» (p. 97). Nel 1975 quindi, in occasione del trentennale della Liberazione, si giunge ad una celebrazione unitaria della ricorrenza, che tuttavia non è priva di paradossi.
Il terzo capitolo prende le mosse dal raggiungimento di questo fronte condiviso, ma l’acuirsi del terrorismo rosso alla fine degli anni Settanta comporta una nuova torsione dell’idea di antifascismo, che si trasforma in «statico presidio difensivo dell’imperfetta democrazia italiana e dello Stato stesso» (p. 107), una specie di porto sicuro in cui rifugiarsi quando il sistema democratico si trova sotto pressione. Il 1978 è un anno significativo sotto questo aspetto, poiché i festeggiamenti del 25 aprile cadono in un momento di massima tensione nel corso del sequestro di Aldo Moro, ancora una volta per mano delle Br. Con la fine del decennio si assiste all’ennesima modifica interpretativa, e per la prima volta il concetto viene accusato di essere superato e obsoleto, oltre che di rappresentare un ostacolo per l’innovazione del sistema politico-istituzionale. Si giunge perciò allo svuotamento del suo contenuto concreto. Non va dimenticato il momento storico in cui tutto questo avviene, ovvero gli anni Ottanta, i cosiddetti “anni del riflusso” nel privato, quando la partecipazione politica subisce un calo generale e il Partito comunista comincia a perdere voti a favore del Partito socialista guidato da Bettino Craxi, che si era dimostrato favorevole ad intraprendere un percorso di riforme istituzionali. Baldissara utilizza un’intervista di Renzo De Felice per far capire fino a che punto si spingesse la concezione dell’antifascismo come concetto desueto. Lo storico reatino sostiene che «un partito fascista c’è, è il Msi, ed è sopravvissuto a tutte le tempeste» (p. 130). Questa affermazione consente di mettere in dubbio la necessità dell’antifascismo come fondamento dello Stato e della sua Costituzione.
Il passaggio agli anni Novanta, caratterizzato da una crisi di sistema che scuote l’intero quadro politico italiano, dà all’autore l’occasione di introdurre un’alternativa alla tradizionale definizione di «seconda repubblica»: considerando che l’unico mutamento istituzionale di quegli anni è rappresentato dalla parziale dismissione del sistema elettorale proporzionale, Baldissara preferisce assegnare agli ultimi trent’anni di storia italiana la denominazione di «era del maggioritario». La necessità di superare la locuzione «seconda repubblica», con tutte le conseguenze che essa genera, è una questione affrontata sempre più frequentemente nella storiografia degli ultimi anni, e quella proposta in questo volume è una valida soluzione. Esito finale delle trasformazioni cui abbiamo accennato è la vittoria, nel 1994, della coalizione politica guidata da Silvio Berlusconi, all’interno della quale era presente anche Alleanza nazionale, il partito originato dalle ceneri del Msi. Questo provoca un nuovo mutamento nelle celebrazioni del 25 aprile, in un momento in cui i paradigmi della politica stanno di nuovo cambiando, orientandosi sempre di più verso la spettacolarizzazione dell’agire pubblico, anche a causa della predominanza del mezzo televisivo. Il leader di An, Gianfranco Fini, propone un nuovo modo di intendere l’antifascismo che ancora oggi viene periodicamente riproposto: «tutto sarebbe più facile se anche in Italia, come nel resto d’Europa, antifascismo fosse sinonimo di antitotalitarismo» (p. 140), una critica diretta al comportamento tenuto dal Pci (Partito democratico della Sinistra dopo il 1991) verso la ricorrenza della Liberazione e alla manifestazione promossa in quello stesso 1994 da «il manifesto». Scrive ancora Baldissara che questa sostituzione dell’antifascismo con l’antitotalitarismo quale fondamento dell’identità politico-civile italiana avrebbe consentito di procedere a una riconciliazione nazionale e ad una riconsiderazione della stessa centralità della Resistenza nella nascita della Repubblica, evidenziandone i limiti e mantenendone fermo il carattere di generica lotta per la libertà e per la conquista della democrazia (pp. 141-142).
Si dettano così i tratti distintivi destinati a caratterizzare destra e sinistra fino ai giorni nostri: se la prima spingerà verso la riconciliazione, intesa come «mutuo riconoscimento dell’avversario [e] reciproca autolegittimazione dei combattenti di ieri e dei supposti eredi nel presente» (p. 143), la seconda si orienterà verso il «richiamo alla verità storica» (ibidem), decisamente meno rassicurante e incerta. Ci troviamo al punto di partenza del discorso post-antifascista, il quale ritiene che il concetto di antifascismo sia stato superato dalla Storia e che quindi esso possa essere accantonato. Da questa premessa discende il tentativo di raffigurare la Resistenza e l’antifascismo in modo «accettabile per la maggioranza degli italiani, per irrobustire una debole identità nazionale e implementare un patrimonio di valori universalmente condivisibile» (pp. 146-147). La prova di questa tendenza si riscontra nel fatto che le varie forze politiche tentano «di apporre sulla giornata festiva il proprio brand identitario, adesivo o polemico» (p. 149), anche per delegittimare la parte opposta. In questo senso, un ulteriore momento di definizione della Festa della Liberazione da parte delle forze politiche è il discorso di Onna, pronunciato da Silvio Berlusconi nel 2009 fra le macerie del terremoto che aveva da poco colpito l’Abruzzo: in questa occasione vengono condannati i totalitarismi in generale e si ricordano con ammirazione tutti coloro che sono caduti in guerra, anche «quelli che hanno combattuto dalla parte sbagliata» (p. 153). L’ultimo salto cronologico porta ad una lettera inviata da Giorgia Meloni al «Corriere della Sera» nel 2023, che l’autore usa per evidenziare come «dalla scena della storia scompare il fascismo, […] ma scompaiono anche i soggetti protagonisti – i fascisti di Salò e i partigiani – della pur citata guerra civile, che resta solo in forma di eccidio sanguinoso» (p. 159).
Siamo dunque arrivati ai giorni nostri e al compimento di quella che Baldissara chiama una visione bipolarista della storia relativamente al 25 aprile, sintetizzata come contrapposizione fra una prospettiva che interpreta la ricorrenza come celebrazione di una tappa fondamentale del processo di democratizzazione delle istituzioni e della società, e quindi di educazione alla democrazia, e un’altra corrente, che pare ormai dominante, che intende la Resistenza come espressione di una «scelta di popolo» e di «amor di patria» che gli italiani avrebbero compiuto per raggiungere la libertà dall’occupazione straniera (p. 161). Questa narrazione dominante, soprattutto negli ultimi anni, gode di un consenso diffuso e radicato.
L’estesa trattazione compiuta dall’autore non è fine a se stessa, ma propone una soluzione per non cadere nella trappola del “tradimento” evocato nella citazione di Averroè all’inizio del testo: premesso che il 25 aprile «è dunque destinato a svolgersi perennemente entro un campo di forze in cui il significato storico della data inclina a entrare in rotta di collisione – più o meno traumatica – con la dimensione del presente» (p. 163), Baldissara nell’ultimo capoverso del libro ritiene che «un ritorno alla storia […] potrebbe essere d’aiuto […] nel rendere collettivamente edotti e consapevoli, nel recuperare le radici della festa, nel discuterne un possibile significato storico» (p. 164). Questo epilogo è forse il punto di maggiore rilievo di questo volume, soprattutto in un periodo nel quale non mancano le estreme semplificazioni di idee complesse, anche a causa dello spostamento in misura sempre crescente della comunicazione politica sui social networks. In un simile contesto, una corretta formazione storica può rappresentare una chiave per aumentare la profondità delle argomentazioni di un discorso ed evitare di scadere nei classici luoghi comuni. Per concludere, quindi, nonostante il libro di Baldissara non sia esente da difetti, come l’eccessiva densità di concetti riscontrabile in alcuni punti, che può confondere chi non ha confidenza con la materia, esso, soprattutto perché è alla portata di ogni tipo di lettore, rappresenta una lettura assolutamente necessaria per chiunque voglia confrontarsi con competenza con il tema dell’antifascismo.

 

Federico Tori è nato a Bologna ma vive da sempre a Sasso Marconi. Si è laureato nel 2023 in Storia dell’Italia contemporanea con una tesi che confrontava le giustificazioni teoriche date alla lotta armata da estrema destra ed estrema sinistra negli anni Sessanta. Attualmente frequenta il secondo anno del Corso di Laurea Magistrale in Scienze Storiche.