Balibar, Negri, Tronti, "Autonomia del politico"

Recensione a cura di Alessandro Balbo

Riassumere ed esporre in modo chiaro il pensiero di un autore è un obiettivo complesso, poiché il rischio di cadere in semplificazioni è sempre incombente. Questo è ancora più arduo se l’autore in questione è un pensatore come Mario Tronti, la cui figura non si può sussumere in categorie risolutive pur essendo inserito in un preciso alveo del pensiero occidentale: quello del marxismo operaista. Il testo Anatomia del politico riesce in questo lavoro di sintesi in un modo peculiare, cioè partendo da una conferenza tenutasi nell’aprile 2019 presso l’Università Paris I Panthéon-Sorbonne in cui parteciparono, oltre allo stesso Tronti, altri due esponenti del marxismo contemporaneo: Antonio Negri e Étienne Balibar. Il titolo della conferenza era Le démon de la politique. Autor de l’ouvre de M. Tronti. Il libro riporta il contenuto della conferenza, gli interventi di Negri e Balibar in merito alle principali tesi di Tronti e la risposta di quest'ultimo ai due intellettuali.  

Vi è però un’interlocutrice silenziosa all’interno del libro, Jamila M. H. Mascat, la quale ha curato l’opera riportando quanto sviluppato durante il convegno (da lei organizzato). Mascat vive a Parigi e insegna presso il dipartimento di Cultural Studies a Utrecht, in Olanda. Specializzata in Hegel, si occupa di filosofia politica e teoretica, marxismo contemporaneo e teorie femministe. Oltre a ciò, è anche un’attivista politica in Francia. La curatrice del libro è riuscita nel faticoso compito di racchiudere in un testo, che conta meno di cento pagine, il denso contenuto della conferenza, trasmettendone l’aspetto dialogico e la forza dei tre interventi. Si può dire che è proprio a rendere il libro degno di nota: ossia un confronto tra esponenti della medesima scuola filosofica che non si limitano a riportare le principali tesi del loro pensiero, ma creano una dialettica comune e un continuo confronto. Il fondamento del testo sono le tesi di Tronti sull’operaismo, che finiscono per spaziare in un’analisi del periodo politico degli anni ’60 e ’70 in Europa e sulla situazione politica attuale.

L’introduzione di Mascat offre gli spunti e le chiavi di lettura del pensiero trontiano: «inevitabilmente duale appare la matrice del suo pensiero, filosofia del polemos e della totalità, della parte che si erige sul tutto, dell’Uno diviso in due, ma senza sintesi edificante – mai Uno e sempre il due senza tre» (p. 10). Riprendendo e sviluppando le tesi dei principali scritti di Tronti (Operai e capitale, il demone della politica, Noi operaisti e L’autonomia del politico) il testo è un decoupage sul suo pensiero, che non rinuncia a rivendicare il “diritto all’esperimento”, all’autonomia politica della classe lavoratrice e all’essenziale conflitto di classe come “guerra civilizzata”. La conferenza di Parigi non è una morta analisi del marxismo ma un vivo dialogo sulla memoria dell’operaismo e sul rapporto tra classe, partito e Stato. Cosa resta oggi di quella stagione politica? Quali sono le condizioni odierne del capitalismo? Dove si colloca oggi il politico? Tali domande sono il centro dello scritto, che cerca continuamente un modo di pensare il politico per le nuove dinamiche economiche e sociali. 

Il testo è un’analisi del concetto del politico che parte dai punti fermi dell’operaismo trontiano: il nesso teoria-pratica, l’anti-riformismo e la creazione di un movimento operaio (lavoratori subalterni) alternativo e autonomo ai ceti dirigenziali politici. Tronti non rinnega la sua idea che «la parte deve farsi partito per cogliere la totalità, e per poterla aggredire da potenza a potenza» (p. 15). Si è dentro lo stato come partito ma si è contro di esso come classe che organizza le lotte e punta al governo del reale: questo è il politico. La classe che si fa partito è l’emergere stesso del politico con le sue rivendicazioni peculiari, contro ogni forma di economicismo, spingendo sulle contraddizioni stesse del capitalismo: «[…] Tronti teorizza la necessità di rivendicare e predisporre un uso operaio delle istituzioni per non lasciare al capitale il piano dello Stato» (p. 21). Il lascito dell’operaismo, secondo Mascat, è una lotta conflittuale e dialettica per il lavoro che si organizza per costruire una struttura politica alternativa, forte della sua armatura teorica. Infine, l’introduzione si sofferma sulla crisi del politico, o meglio dell’affermarsi dell’Antipolitico che per Tronti ha il suo germe nei movimenti post ‘68 e culmina con lo scioglimento dell’Urss, cioè con la dissoluzione di un’organizzazione politica alternativa, che lascia il campo libero al populismo nelle sue due forme: quello democratico e quello autoritario, entrambe riflesso dell’egemonia capitalistica. Questo è forse l’aspetto più pessimistico nel pensiero di Tronti, poiché si passa, secondo l’autore, da una Grande storia politica ad una considerata Minore.

 

L’intervento di Balibar si sofferma su due tematiche dell’opera di Tronti: la composizione politica del capitale e la visione pessimistica dell’odierna situazione del politico: «l’una e l’altra evocano il tema del conflitto e del ruolo della lotta di classe nel corso della storia moderna e quello della “centralità operaia” all’interno di una porzione di questa storia» (p. 28). Tali temi si sviluppano attraverso registri differenti: uno più analitico e dialettico, l’altro più speculativo e drammatico. Per Balibar quello di Tronti è un movimento di politicizzazione integrale della storia nelle sue varie congiunture, vedendo nel politico il motore trascendente del divenire immanente. Tronti riprende la concezione marxiana della dialettica tra modi e rapporti di produzione, integrandola con i concetti di organizzazione politica della classe e di sviluppo tecnico del capitalismo. Sostanzialmente, Tronti sostiene che il divenire è il processo sempre nuovo dello sfruttamento capitalistico della classe operaia, portando quest’ultima a entrare in conflitto con il Capitale. Dunque, prosegue Balibar, Tronti vede nella fabbrica (luogo del lavoro tecnico alienato) il piano primario del conflitto e pertanto della lotta: «lo stesso sviluppo industriale è a double-face: consolidamento dell’organizzazione “scientifica” del lavoro e accrescimento della produttività, ascesa verso un antagonismo irriducibile» (p. 32). La storia, secondo la ben nota tesi marxiana, procede dal negativo, cioè dal conflitto, il quale però è posto su un unico livello: la lotta politica e quella economica non sono disgiunte ma è un’unica lotta di classe che si articola in varie forme, in primis nella lotta per e contro lo Stato. 

Quello che Balibar però sottolinea, discostandosi da Tronti, è come le odierne condizioni capitalistiche di produzione (globalizzate, delocalizzate e finanziarie), formino una dissociazione tra l’operaio isolato, in quanto parte della massa-lavoro intercambiabile, e il luogo della produzione, cioè la fabbrica sempre più mobile e automatizzata. Per Balibar il lavoratore salariato non ha più la possibilità di contrastare il potere capitalistico né dentro né fuori il luogo di lavoro, portando al declino del politico da cui consegue immediatamente quello della politica. L’aspetto di declino del politico è quello proprio del nostro tempo, una neutralizzazione delle lotte e del conflitto, cioè la fine delle grandi mobilitazioni collettive e della creazione di una alternativa all’imperante economicismo. Perdendo questo aspetto conflittuale si ferma il movimento stesso del reale, non inteso come fine della storia, ma come fine dei momenti di apertura a un’alterità storico-politica. Il conflitto, che è la breccia nel continuo storico, non ha più effetto, la storia non esce da sé, ma continua inalterata. Balibar traduce efficacemente questa visione trontiana riprendendo il concetto paolino del katéchon: la storia non ha più un fine a cui tendere, il conflitto è solamente la forza che trattiene il dispiegarsi delle potenze capitalistiche. Così il capitalismo in quanto struttura finisce per non esser messo in discussione. Tutto ciò ha un effetto preciso: l’eliminazione degli antagonismi di classe, la riduzione di quest’ultimi a problemi quantitativi di disuguaglianza e infine la proliferazione e normalizzazione di una violenza estrema e sistemica (p. 41). Per Balibar, Tronti vede la storia umana diretta verso il peggio poiché l’essere umano non riesce a soverchiare le stesse condizioni che lo portano in tale direzione. Invece, per il filosofo francese, il conflitto, il polemos, apre sempre delle condizioni di possibilità che sta a noi cogliere e saper sfruttare.

 

Il secondo intervento della conferenza è di Antonio Negri, che non manca di tributare a Tronti l’importanza del suo pensiero nella propria formazione intellettuale e militante. Negri si sofferma tuttavia su una serie di divergenze storico-intellettuali con l’autore di Operai e Capitale. Questi punti di contrasto ruotano intorno al concetto di Partito (in primis il PCI), del suo ruolo all’interno dello spazio politico e del suo rapporto con le esigenze sociali collettive. Questi punti si legano alla reticenza di Tronti verso il movimento studentesco e verso il pensiero francese degli anni ’70: «in parole povere, uno spostare dal basso all’alto la sorgente del potere e l’iniziativa della lotta di classe» (p.48). Negri si sofferma sul concetto trontiano di “autonomia del politico” sviluppato nei primi anni ‘70, cioè le diverse pratiche di rivendicazione economica e lotta politica. Per Tronti la lotta politica, riprendendo alcuni concetti weberiani, si dà solo nella classe organizzata in partito, cioè in quanto portatrice di interessi particolari. Il partito (della classe lavoratrice) però è doppio: come facente parte del sistema capitalistico-statale, in quanto “agente strumentale”, e come forza antagonista al Capitale, poiché ne vuole la fine. Gli operai sono quindi da una parte soggetti al capitale e dall’altra agenti rivoluzionari. La tensione dell’operaismo per Negri è qui: gli operai devono anticipare le contraddizioni dello Stato e del capitalismo prendendone il controllo, prima che le istituzioni egemoni si accorgano di queste criticità per riformarle: «la classe deve farsi stato. Questa è dunque l’autonomia del politico» (p. 50). Solo con il movimento operaio, in quanto classe subalterna ma integrata nel sistema, si possono portare avanti le lotte di classe. Dunque, senza i lavoratori non si ha lotta politica. 

Qui di nuovo si analizzano le tesi trontiane sulla congiuntura odierna: la lotta, che risiede sempre nelle battaglie dei subordinati, oggi non ha più un’organizzazione politica di riferimento radicata nel sistema; dunque, i suoi atti non possono considerarsi propriamente politici ma principalmente conflittuali. Per Negri, il pensiero di Tronti ha preso così una piega teologica, e non più ideologica, nella spiegazione odierna del conflitto: il politico è l’argine (katékhon) al capitale, e non più la sua critica, finendo in una commiserazione della lotta di classe e dell’umano. Invece, per Negri il capitalismo non ha cambiato volto da quando venne studiato da Marx, è lo stesso dispositivo che si è “aggiornato”, e dunque anche la lotta va in tal senso “aggiornata”. Oggi, dice Negri, va costruito un “contropotere” al modello politico globalista: questo poter e dover creare un’alternativa è secondo Negri il lascito maggiore dell’operaismo. 

 

In conclusione, sono da riportare le risposte di Tronti a Balibar e Negri, i quali vengono giocosamente definiti dal filosofo italiano “amici politici” poiché stanno dalla stessa parte contro un’altra parte. Tronti inizialmente ripercorre la sua carriera politica e militante, rivendicando i successi e le sconfitte del movimento operaio, analizzando più ampiamente quella stagione politica italiana. Per Tronti, riprendendo Machiavelli, è chiaro che la politica sia una guerra strategica. Ogni mezzo può esser utile alla propria causa, che sia la mobilitazione dal basso, o l’ostruzione dall’alto. In questo, secondo Tronti, l’operaismo rimane un’esperienza di successo, forse una delle meglio riuscite, poiché davvero ostacolò il capitalismo. Questo perché l’operaismo è la teoria che si fa nella pratica della lotta, la sua “veridicità” risiede nelle conquiste reali, non in dimostrazioni teoriche.

 

Subito dopo Tronti vuole precisare i commenti fatti al suo “pensiero negativo”, o della crisi. Pensiero questo che si ricollega esplicitamente a precise tesi filosofiche: la gabbia d’acciaio di Weber, la teologia politica di Schmitt e la filosofia della storia di Benjamin. Tronti però nega un pessimismo cosmico o antropologico. Infatti, dopo la fine della guerra fredda, si ha una crisi capitalistica che diventa crisi di civiltà; questa non è altro che l’emergere delle contraddizioni interne del sistema stesso. Dunque, ribadisce Tronti, il negativo è radicato nel sistema non nell’essere umano.

Quindi il filosofo italiano passa alla sua analisi del rapporto tra operaio (ceto subalterno) e potere; rivendicando la possibile presa delle istituzioni da parte del lavoratore come legittima. Il “basso” che si fa “alto” non è contradditorio, è realismo politico; la Rivoluzione d’ottobre ne è l’esempio. Per Tronti questo ha uno scopo preciso: non lasciare quello spazio all’avversario. Le istituzioni di potere nascono come sovrastrutture di controllo, ma possono essere utili alla classe dominata, se da essa gestite. Oggi, continua Tronti, i centri del potere sono appannaggio esclusivo dei ceti egemonici e con essi si ha una narrazione unica del politico: l’homo oeconomicus si è incontrato e identificato con l’homo democraticus spegnendo qualsiasi opposizione rivoluzionaria e aprendo a una stagione di populismo e antipolitica (p. 67).

Questo è il tema centrale dell’intervento di Tronti in merito alla sua riflessione sulla contemporaneità: cosa è il politico dopo la fine dell’organizzazione di massa (sia essa un partito o un movimento)? Tronti risponde affermando che il politico non è scomparso, non può farlo, ma esso ha perso la sua forza; il politico oggi è disinnescato dal suo potenziale di apertura a una alternativa poiché «le trasformazioni, soprattutto tecnologiche, danno l’illusione del grande cambiamento in una condizione dove invece “le stesse cose ritornano”» (p. 68). Tronti, non fa che metterci in guardia da quella condizione di ripetizione senza differenza in cui sta scivolando il tempo presente, rivendicando invece un’opportunità sempre attualizzabile che risiede nell’imprevedibilità d’agire del politico. La lotta tende sempre a un orizzonte che pretende di realizzare, opponendosi alla direzione attuale della storia, comprendendo che «Non c’è dunque solo l’oltre come problema, c’è il problema “dell’oltre, oggi” del come portarlo politicamente ad effettualità» (p. 74).

Alessandro Balbo è studente magistrale presso l'Università degli di studi Bologna "Alma Mater Studiorum". Si è laureato all'Università degli studi di Torino nell'aprile 2021, con una tesi intitolata: Nietzsche Anarchico: Un confronto tra Emma Goldman e Gianni Vattimo. Collabora al centro di ricerca Sive Natura. Ha scritto una serie di recensioni per la rivista Philosophy Kitchen. I suoi interessi si focalizzano sulla filosofia teoretica, politica, e morale, in particolare sul rapporto tra collettività e individualità e sulla gestione e formulazione del potere. I principali autori di riferimento sono Nietzsche, Spinoza e Deleuze.