Verso una critica utopica: intervista a Roberto Mordacci

A cura di Antonio Marsicano

Roberto Mordacci insegna Filosofia morale, Filosofia della storia e The Western Tradition: Moral and Political Values presso la Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. È co-direttore della rivista Filosofia Morale / Moral Philosophy. Tra le sue più recenti pubblicazioni La condizione neomoderna (Einaudi 2017), Ritorno a Utopia (Laterza 2020), Critica e utopia. Da Kant a Francoforte (Castelvecchi editore 2023).

Segnalibri Filosofici - Nell’affrontare il concetto di utopia ci si concentra spesso sull’ambivalenza costitutiva del termine: coniata da More nel 500, la parola utopia conserva sia il significato di ou-topia (quindi non-luogo) che di eu-topia (letteralmente buon luogo). Poca attenzione forse è data al terzo termine che costituisce la parola utopia, tenendo insieme proprio l’ou e l’eu: il topos, il luogo. Che ruolo ha questo terzo termine? Di che luogo stiamo parlando nel parlare di utopia? E in che modo l’ou-topos e l’eu-topos sono legati attraverso il topos stesso? 

Mordacci - questa è una domanda molto interessante: è vero che c’è stata poca attenzione al concetto di luogo nell’interpretazione dell’Utopia di More o più in generale nel chiarire il senso di utopia. Direi questo, topos indica non semplicemente un luogo, ma piuttosto lo spazio civile, lo spazio pubblico: topos è il modo per indicare un preciso luogo, non semplicemente lo spazio, ma una regione. In questo senso è appropriato: More non parla di una oupolis o di una eupolis, ma parla proprio di una utopos, di una regione; e sappiamo peraltro che nella descrizione che lui dà di Utopia parla di uno stato abbastanza grande, delle dimensioni dell’Inghilterra, quindi uno stato complesso, uno stato nazionale di tipo moderno non la vecchia polis di tipo greco. In questo senso siamo distanti anche dal modello platonico, che immagina una città-stato, con una comunità civile molto omogenea, molto unitaria.

Allora quest’idea dello spazio pubblico oggi ha una grande risonanza, intanto perché nella filosofia politica contemporanea si parla molto di spazio pubblico, spazio della ragione pubblica – per esempio in John Rawls, dove lo spazio in cui si confrontano le ragioni è lo spazio dell’agorà, della comunità civile, dei media. Credo sia rilevante dire che il luogo, la regione dove si gioca la partita politica di per sé implica il bisogno di essere una regione ben amministrata, ben articolata, di buona convivenza, e che questo purtroppo non è quanto vediamo costantemente, e lo vediamo – fuori di metafora – nel disastro che riguarda molti dei nostri luoghi: nelle periferie degradate, nello sfruttamento indiscriminato di certi territori. Questo è il non-luogo, il luogo disastrato che abitiamo, e, proiettandolo sullo scenario globale, è il pianeta. Il pianeta è un buon luogo che rischia di diventare un non-luogo, un luogo in cui non c’è più spazio né modo di vivere e abitare ragionevolmente. Per me questo indica molto uno dei temi centrali dell’utopia, ma su questo forse torneremo, il tema del buono spazio in cui abitare, e quindi dell’ambiente.

SF - Vista la struttura interrelata di ou-eu-topos, che ruolo ha la negazione nel fondare la positività e, viceversa, la positività nel fondare la negatività? Ou senza eu rischia di essere una negazione fine a se stessa, quasi intellettualistica, eu senza ou rischia invece di essere una fantasticheria distaccata dal reale…

M - l’intuizione veramente geniale di More è stata quella di prendere solo la “u”, e di creare questo neologismo lasciando volutamente l’ambiguità. Egli ha in mente entrambe le cose. Quanto lei dice è assolutamente chiaro, mi sembra già autoesplicativo: parto dall’eu-topos: se noi immaginiamo un buon luogo, perfettamente realizzato e realizzabile, stiamo progettando una società perfetta in base alla possibilità di possedere lo schema e anche i modi della sua realizzazione. Questa pretesa di conoscere fino in fondo quale sia il significato di bene e il modo in cui arrivarci, è una pretesa totalitaria e autoritaria. Dunque, l’eu-topos da solo porta in quella direzione. L’ou-topos dice: “attenzione, qualsiasi progetto tu abbia, non sarà mai la piena realizzazione del bene”. Ogni utopia, ogni eu-topia che cerchi di realizzare, non è ancora, perché non potrà mai essere, la piena realizzazione della società giusta e felice. Quindi l’eu-topos rimane, e deve rimanere, un ou-topos, perché questo consente di avviare progetti di riforma, di trasformazione, di emancipazione consapevoli però di non esserne la realizzazione definitiva. E questo ci evita il totalitarismo, questo ci evita l’autoritarismo: perché chi propone, sapendo che quello che propone non è l’assoluto, non potrà pretendere obbedienza cieca e assoluta dai cittadini.

SF - nella sua risposta sento una certa eco dialettica, in particolare si legge in questo rapporto tra ou ed eu il ruolo della negazione determinata, quale descritta da Hegel, ma forse ancora più da Adorno nella sua versione negativa. Come si può ragionare su questo tema, sull’utopia come negazione determinata?

M - beh, allora, intanto l’utopia è costituita da due momenti, di questo parleremo anche dopo. E il primo momento è proprio quello della negazione determinata: ossia la negazione dello status quo come giusto e felice. Questa non è una negazione gratuita, è una negazione che deve andare a ricercare nello status quo i punti di criticità, e questo è quello che fa Adorno, è quello che fa Hegel quando dice che la dinamica dialettica sul piano della storia è una dinamica che risulta dall’emergere delle contraddizioni interne, che vanno portate a coscienza affinché ci sia una trasformazione. Le contraddizioni possono permanere, essere sottotraccia e perpetuare uno strato di contraddizione, che è un po’ la situazione di blocco in cui ci si trova nella società tardocapitalistica, secondo per esempio Adorno ma anche Horkheimer o Marcuse: un blocco di situazioni discriminatorie, ineguali, di illibertà che però non arriva pienamente a coscienza, perché la coscienza di queste situazioni viene occultata dalla grande macchina della comunicazione, della cultura, della soddisfazione dei piccoli bisogni e della creazione di bisogni inesistenti – quest’ultima è la tesi di Marcuse. In questo senso certamente tutta questa congerie ha una struttura che bene Hegel ha elaborato nel suo concetto di dialettica, specialmente sul piano della storia, ma chiaro che questo precede in qualche modo Hegel – nella misura in cui lo stesso More parte dalle contraddizioni del suo tempo – e la storia della dialettica è molto articolata in questo senso. Non dimentichiamoci infine di Marx, che aveva articolato la nozione di contraddizione storica in termini di strutture di produzione: questo è stato un modo per dare al concetto di dialettica hegeliana una pertinenza e una capacità di interpretare il presente straordinariamente forte. Poi l’analisi marxiana ha dei difetti, è superata per molti aspetti, ma proprio questo ci dice che il tema della dialettica è ancora un tema vero.

SF - Abbiamo citato More come colui che ha forgiato il termine utopia: perché a 5 secoli di distanza resta ancora il modello di riferimento quando affrontiamo questa problematica?

M - Resta il modello di riferimento per l’ovvia ragione che è stato il coniatore del termine e quindi il fondatore del concetto. Ma poi perché la storia del concetto ha avuto un’involuzione: da subito si è preso il modello letterario – ossia quello di una società ben amministrata, ben governata, giusta e felice – senza che però si prendesse da More il metodo. Il metodo del pensiero utopico è un metodo che non troviamo né in Campanella, né in Bacon, e che poi nelle utopie successive ha avuto varie fortune: si è prodotto il motivo di un racconto politico, eu-politico si potrebbe dire. Allora questo, secondo me, ha impoverito enormemente il concetto di utopia e ha fatto emergere il sospetto, tra Ottocento e Novecento, nei confronti dell’utopia come immaginazione solo eu-topica, di progettazione sociale, che nasconde un’istanza di controllo, dunque autoritaria.

 Il Novecento ha sviluppato, contro questa congerie dell’utopia, il genere dei romanzi distopici, da 1984 a Brave new world, cioè romanzi che percepiscono il pericolo che l’articolazione di un modello sociale, anziché fondarsi su una dinamica emancipativa, si fondi su una dinamica di controllo. E lo denunciano, in maniera molto forte. A me sembra che in Thomas More ci sia una consapevolezza per prima cosa di un’utopia di tipo umanistico e non tecnocratico: nell’utopia di more non c’è nessuna mirabolante invenzione tecnologica che tiene tutto in ordine, sono le persone che nella loro relazione agiscono in maniera comune in base a una condivisione del lavoro e della vita comunitaria. In secondo luogo, More era consapevole dell’incompletezza del suo progetto, e lo notiamo con la sua ironia: in molti passi il personaggio More prende le distanze dal racconto di Itlodeo proprio tramite l’ironia. In questo senso More va riscoperto, come utopia di tipo umanistico, non tecnocratico, non teocratico, ben più interessante per noi.

SF - Lei ha citato grandi romanzi del XX secolo come 1984 e Brave new world: perché, secondo lei, proprio nel Novecento la distopia emerge maggiormente rispetto all’utopia, esasperando la dimensione corrotta del reale, come in Huxley, Bradbury o Orwell? Forse la critica distopica ha maggiore presa sul lettore in quanto in grado di giocare sulle sue paure più che sulle sue speranze?

M - intanto le distopie nel XX secolo hanno avuto una funzione fondamentale, quella di mantenere vivo il senso critico rispetto alla principale macchina di governo dei sistemi novecenteschi: la propaganda. La fattoria degli animali, ma anche 1984, sono basati su questo, cioè sull’idea che la cosa più inquietante di un regime politico sia il controllo delle menti, la chiave di volta di un potere totalitario. Le distopie hanno avuto questa funzione e sono alleate dell’utopia in quanto denunciano la deriva reale di certe forme di governo, di certe inclinazioni e declinazioni della politica. Ciò non significa che il portato critico dell’utopia sia perduto, anzi, anche qui bisogna riscoprire il fatto che nel primo libro dell’Utopia Thomas More fa una denuncia della società inglese del suo tempo: c’è la distopia nell’utopia, ed è sempre lì la scaturigine, bisogna sempre fare un’analisi e denunciare la situazione. I romanzi distopici e la letteratura distopica fanno quest’analisi in forma letteraria, e questo ha una presa fenomenale: ha molta ragione lei quando dice “prendono molto perché prendono le paure”, se c’è una cosa che ha dominato la politica del Novecento è stata proprio la paura, la paura sociale – che purtroppo rischia di dominare anche il XXI secolo, con elementi di paura dell’altro, della fine, della catastrofe, paura per altro giustificata in quanto rischiamo realmente la catastrofe. Le distopie sono dunque fondamentali, e hanno un ruolo irrinunciabile. 

L’utopia contiene l’istanza distopica. Ma quanto io ho notato è che l’eccessiva concentrazione sull’elemento di denuncia della modalità distopica ha generato una certa incapacità di immaginare situazioni migliori. C’è bisogno di utopia, di pensare in termini positivi, in quanto questo aiuta a immaginare in termini costruttivi, senza avere poi la pretesa di realizzare il progetto perfetto c’è bisogno di pensare utopicamente in quanto per uscire dalla situazione bisogna inventarsi qualcosa. E quest’inventarsi qualcosa non viene se qualcuno si limita a denunciare, questo è il grande limite di molta parte della letteratura filosofica: come cerco di mostrare in un libro uscito da poco (Critica e utopia. Da Kant a Francoforte, Castelvecchi editore, 2023, ndr) va bene denunciare, ma se non lo colleghiamo ad una pars construens rischiamo di pronunciare soltanto dei no.

SF - L’utopia di More si divide in due libri, un primo che definiremmo più propriamente critico della società a lui contemporanea, un secondo dove, tramite l’immaginazione dell’autore, invece, è descritta la società di Utopia. More non immagina dal nulla una società, ma trascende la critica all’Inghilterra dei suoi giorni tramite la potenza dell’immaginazione. Le chiedo di approfondire il rapporto tra quelli che nel testo Critica e Utopia, da Kant a Francoforte ha appunto definito “il primo e il secondo libro della critica”, ossia, qual è il rapporto in una critica immanente del sociale tra critica tradizionale ed immaginazione, in un contesto storico filosofico in cui quest’ultima non è stata accolta propriamente come lo strumento principale del logos?

M - La mia impressione è che nell’arco del Novecento, nella produzione di filosofia morale e politica, l’elemento critico è stato fortemente presente: oltre ai francofortesi, pensiamo a un autore come Sartre, l’esistenzialismo in generale è stato la denuncia di una condizione insostenibile dal punto di vista della realtà individuale e sociale – è la realtà sociale che deforma le relazioni al punto tale che tutto diventa terrore. Il Novecento in molti autori, dal punto di vista etico e politico, è stato un periodo in cui l’esercizio del pensiero si è configurato come denuncia di certe storture e situazioni inaccettabili. E non parlo solo della filosofia continentale. Anche John Rawls è incomprensibile se non proiettiamo, ad esempio, A theory of justice del ‘71, sullo sfondo della politica degli anni ‘60: quello a cui Rawls reagisce è una vera e propria distopia, la situazione di quasi esclusiva dominanza di una filosofia morale e politica di taglio utilitarista, fortemente economicista e antiegualitarista. Nello scrivere una teoria della giustizia, Rawls rivendica innanzitutto la priorità dell’eguale libertà di ciascuno come principio fondante di una teoria della giustizia, e poi rivendica anche la necessità di ammettere diseguaglianze economiche solo nella misura in cui vanno a vantaggio dei più deboli, cioè di riequilibrare la diseguaglianza. Tanto che lo stesso Rawls, spostando l’attenzione dalle questioni nazionali a quelle internazionali, parla di legge dei popoli e di un’utopia realistica.

In questo senso il primo libro è ancora fondamentale: ma nel fare una critica della società attuale, bisogna darsi certi strumenti – sto pensando all’analisi tipica del marxismo sulla società capitalistica, nel fare quest’analisi bisogna formulare una ricomprensione del capitalismo, ottimo in tal senso è il lavoro fatto da Nancy Frazer in Capitalismo Cannibale (Laterza, 2023). Tra i due libri, ripeto, c’è una relazione importante. Il secondo libro, quello dell’immaginazione, è secondo me il luogo dove si mostra in esercizio una facoltà di immaginazione politica che abbiamo un po’ disimparato a esercitare e che si ritrova però in alcune sperimentazioni ed esempi emersi negli ultimi anni. Ho scritto Ritorno ad Utopia (Laterza, 2020) sull’onda di un interesse per il concetto, ma anche perché ho percepito che ci fosse un ritorno verso questo tema, e lo vedevo in molti libri pubblicati tra il 2017 e il 2020: la parola utopia ha ripreso a occupare certi spazi perché si è forse intuito che è una risorsa. Il punto è che il pensiero utopico non è quella libera fantasia giocosa e immediata, ma è un metodo molto rigoroso. C’è dunque l’occasione di riprendere l’utopia come metodo politico, ma anche il rischio che si perda perché non si comprende tale potenzialità.

SF - A tal riguardo, nei suoi scritti ha proposto il concetto di critica utopica, intesa come una critica che affronti il reale sul modello delle esperienze novecentesche, ma che riesca a superarlo con la potenza dell’immaginazione in quello che già abbiamo definito il secondo libro della critica. Può parlarci meglio del concetto di critica utopica?  

M - dicevo prima che il pensiero utopico è un metodo, questo metodo va un po’ capito. Una parte l’abbiamo affrontata: pensare utopicamente si può fare solo a partire dalla rilevazione delle criticità esistenti. Ciò non significa rilevare che le cose non vanno, in questo bisogna essere ‘francofortesi’ fino in fondo, bisogna operare secondo il metodo della critica immanente: non basta dire non mi piace, è immorale o ingiusto, noi non disponiamo di un pensiero normativo, politico ed etico così strutturato da poter giudicare il mondo in maniera top-down, dalla teoria alla pratica. È molto più sensato studiare la pratica, le pratiche, la vita sociale, e mostrare che gli scopi di quelle pratiche finiscono per contraddirsi: pensiamo alla medicina, i cui scopi vengono ad esempio pervertiti da una logica strettamente commerciale; si perdonerà l’esempio concreto, ma guardiamo a cosa succede nella sanità lombarda, e in generale in Italia. Il sistema pubblico sanitario italiano è stato uno dei fiori all’occhiello di un certo welfare europeo, ma è stato, soprattutto in Lombardia nell’ultimo trentennio di governo di centro-destra, sistematicamente impoverito e messo in secondo piano rispetto a un sistema privato. Il ché ha fatto perdere ai cittadini il diritto alle cure, in particolare alle cure tempestive: pensiamo alla differenza tra i tempi di prenotazione di una visita specialistica nel pubblico e nel privato. Questo significa che ci sono palesemente delle storture che nascono dal modo in cui è praticata l’idea di servizio sanitario: si promette cura agli indigenti, ai pazienti, a chi ne ha bisogno, come recita la costituzione, ma lo si fa in un modo che priva di fatto i cittadini del diritto alla salute.

Ora questa è una vera e propria contraddizione pratica, non è solo ipocrisia: è proprio il caso in cui si dice una cosa e se ne fa un’altra, e lo si fa, tra l’altro, in nome dell’efficienza, in nome di un principio che sarebbe giusto. questa è la critica immanente. Ora, la critica immanente deve generare il pensiero alternativo. Ma attenzione: il pensiero alternativo non è quello che dice “io voglio la sanità così”, io devo prendere le contraddizioni interne al modello che ho praticato e rovesciarle: ad esempio, affidare l’efficacia e la rapidità delle cure ad un sistema privato è una contraddizione che va rovesciata lì, devo rovesciare il fatto che sia possibile accedere alle cure solo nel sistema privato. Questo è un modo del pensiero utopico: rispetto alla singola contraddizione – in questo caso l’inefficienza del modello privato – il pensiero utopico lo rovescia concretamente – proponendo un’alternativa pratica a partire dalla contraddizione: non mi limito a dire che ci vorrebbe un sistema sanitario efficiente e funzionale, ma a vado a vedere dove si trovano le storture del sistema attuale, rovesciando quei punti. Il metodo del pensiero utopico è un metodo in cui l’alternativa risulta dal rovesciamento – e in questo senso la critica utopica è profondamente dialettica – e rovescia la tesi nell’antitesi, la contraddizione attuale nel suo opposto.

SF - potremmo quindi dire, forse abusando di questo termine, che l’utopia è realistica? Un metodo realistico nella misura in cui ha a che fare col reale, vive sul reale, si fonda sul reale, ma non può fare a meno di trascendere il reale, continuando a mantenersi legata al reale.

M -assolutamente sì, in questo senso è profondamente dialettica, come dicevo. Ed è realistica in due sensi. Il primo è quello che si diceva: ha un rapporto con la realtà e rileva dalla realtà analizzata il suo punto di attacco, il suo punto di rovesciamento. Ma immaginare il rovesciamento è anche quello, dev’essere anche quello, un esercizio di realismo, nella misura in cui non può essere questo una forma di rovesciamento impraticabile, deve essere un rovesciamento possibile: l’utopia non si occupa dell’impossibile, ma del possibile. In questo senso il possibile è reale, mentre l’impossibile assolutamente irreale. Questo è il realismo di un’utopia che, nell’immaginare il realismo, coglie gli elementi di condizione in cui operare, però forzandoli. In molti casi diciamo “dovremmo rovesciare questa situazione”, e si risponde come questa cosa sia impraticabile, per interessi economici, poteri forti etc. Questo è l’elemento in cui l’utopia non si arrende: puoi anche dire “it’s economy baby”, tutto deve andare secondo quel tipo di logica, ma io voglio forzare proprio quell’elemento in maniera critico-trasformativa, e forzarlo affinché abbia un successo. E questa è la storia delle politiche sociali della seconda metà del Novecento: c’è stata la capacità di inserire in economie di mercato liberali, politiche sociali serie, diritti dei lavoratori. Un caso importante, a mio modo di vedere, è una cosa come il salario minimo, non a caso introdotta in 22 paesi dell’UE per temperare le dinamiche tipiche di un’economia di mercato radicalmente liberista. E forse è strano che non ci si abbia pensato prima, forse perché fino a un certo punto la contrattazione e il lavoro dei sindacati aveva un’efficacia, mentre dagli anni ‘80 in poi la cosa è andata scemando. Sono gli anni di Reagan, della Thatcher, il periodo in cui per la prima volta cade drasticamente il potere contrattuale dei sindacati.

SF - Abbiamo toccato il punto della prossima domanda. Un autore molto letto dalla mia generazione, Mark Fisher, ha definito l’ideologia oggi predominante come “realismo capitalista”, ossia come quel solidificarsi del motto thatcheriano del “there is no alternative”: la dimensione della possibilità è azzerata, gli individui faticano ad aspettarsi e prospettarsi qualcosa di diverso dall’orizzonte di organizzazione sociale neoliberale. Qual è il ruolo dell’utopia in un orizzonte ideologico che nega la possibilità stessa del possibile? Aprire verso l’utopico può servire a decostruire tale struttura ideologica o rischia di dare ancora più spazio a quanti, positivisti economici del nostro tempo, negano ogni possibilità di un’organizzazione sociale diversa?

M - È molto giusto richiamare Mark Fisher, in quanto è stato un esponente della radicalizzazione anche della diagnosi francofortese della società tardocapitalista, quella in cui le risorse di alternativa allo status quo sembrano completamente essersi prosciugate. Questo è un pensiero deprimente, a cui non si può sfuggire proponendo un pensiero utopico che sfugge dalla realtà. È stato il rischio di un certo tipo di rivoluzione di fine anni ‘60: il sogno pace-amore-libertà della cultura antisistema degli anni ‘60 non aveva un sufficiente radicamento nell’analisi della realtà sociale e contribuiva a produrre una serie di soluzioni di vita alternative completamente slegate. L’esperienza della cultura hippy era un po’ quella: l’isolarsi dalle cattive situazioni mettendosi in un rapporto alternativo con la natura, il mondo, la produzione, che aveva però un rapporto di fuga dalla realtà, ed è stato un fallimento. L’altra fuga dalla realtà è stata il terrorismo, modalità per cui la lotta diventava una lotta antisistema di tipo violento. E su questo, nel ‘69, ha detto parole chiarissime proprio Hannah Arendt in un libello pubblicato nel ‘70 che si chiama “sulla violenza”, e nel quale argomenta lucidamente che il ricorso alla violenza da parte di uno stato come da parte di una controcultura è un segno di debolezza: è il potere quello che conta, se è nel popolo è agganciando il popolo che lo si può esercitare. Pensiamo alla tremenda vicenda italiana e tedesca, tra le BR e la RAF, quella è stata la pietra tombale su alcune aspirazioni di riforma e cambiamento proprio perché l’accesso alla violenza contro le istituzioni, le persone, esponenti del sindacato, del giornalismo, non poteva esser compreso dalla popolazione se non come ciecamente ideologico. 

In questo senso Fisher rischia di essere letto come diagnosi definitiva di impossibilità del cambiamento e, in questo senso, fa il gioco della Thatcher. Rompere questo schema si può, ma non con un’utopia astratta. Rompere questo schema significa prendere l’analisi di Mark Fisher, identificare i punti di frizione, le crepe del sistema, e far fiorire in quelle crepe delle esperienze alternative, che non mancano, ci sono. Ci sono anche idee alternative: una di queste, su cui io non sono completamente d’accordo, ma che ha un potenziale provocatorio molto alto dal punto di vista dell’idea, è quella del reddito universale di base: idea un po’ folle, molto utopica, dove il reddito è di base incondizionato ed universale. Cioè non si chiede di procurarsi un lavoro, ma si dà a tutti, davvero a tutti, dal clochard al miliardario, e questo perché elimina una serie di complessità e storture della selezione. È una follia da un certo punto di vista, in quanto non si sa se sia efficace né si sa se sia giustificato, ma il punto è che questo tipo di proposta è interessante, bisogna iniziare a pensare in quei termini, nei termini in cui l’alternativa è una politica economica, un modo di gestire la povertà sociale. L’utopia riesce dunque a essere elemento di scardinamento del realismo capitalista nella misura in cui essa stessa è realista, ma non in quel senso. Il realismo capitalista è un realismo positivista e, dal punto di vista della filosofia della storia, immobilista: il realismo utopico dal punto di vista della filosofia della storia è progressivo.

 

Antonio Marsicano è studente di filosofia all'università di Bologna. Tra i suoi campi di interesse vi sono la filosofia marxista, la teoria critica della società e lo studio del concetto di immaginazione. Fa parte della redazione di Oasi Rivista, spazio orizzontale di analisi sul presente e di immaginazione sul futuro artistico e politico del nostro mondo.