Intervista a Jairo Da Silva

A cura di Lorenzo Perrone, Marlene Prosdocimo e Debora Spinn

Jairo Da Silva (São Paulo State University)

Laureato in Fisica, ha conseguito un master in Matematica (algebra), un Cand. Phil. in Matematica presso Berkeley (logica) e un dottorato di ricerca in Filosofia (logica ed epistemologia). I suoi primari campi di interesse sono i fondamenti della matematica e la filosofia delle scienze formali e fisiche. Le sue principali pubblicazioni riguardano la fenomenologia e la filosofia della logica e della matematica di Husserl.

Segnalibri Filosofici - Grazie mille per essere qui con noi oggi, Professore. Non sarebbe errato definire la sua formazione come “eterogenea”: vorremmo pertanto partire dal chiederle su cosa fosse incentrata la sua tesi di dottorato.

Jairo Da Silva - Sì, la mia tesi di dottorato è incentrata sui fondamenti della matematica. L’ho fatta con la direzione di Andrés Raggio, un logico e filosofo argentino di origini italiane che viveva in Argentina – adesso è morto. Studiò in Europa e ha insegnato anche in Germania, Francia e altri Paesi. Un signore simpaticissimo! Conosceva benissimo la logica, la filosofia, la matematica e la musica: un po’ di tutto. La prima volta che ho parlato con lui, mi disse che lui pensava che la matematica predicativa di Hermann Weyl avesse un fondo filosofico kantiano e che io avrei potuto investigare questa possibilità. Quando ho cominciato a leggere Weyl mi è parso chiaramente che non fosse Kant la base filosofica ma Husserl; questo è stato effettivamente il mio primo contatto con Husserl. La mia tesi, O predicativismo em Hermann Weyl (Il predicativismo in Hermann Weyl), è stata pubblicata per un’edizione molto ristretta. Ho, dunque, ricevuto il titolo di dottore in filosofia, parlando di logica ed epistemologia, con questa tesi sul predicativismo di Hermann Weyl, grande matematico tedesco, forse uno dei più importanti matematici del secolo scorso.

SF - E in che misura si può quindi rinvenire questo fondo filosofico husserliano, sia nella sua ricerca sia, di fatto, nella sua tesi di dottorato?

JDS - È interessante, c’erano rapporti personali fra Husserl e Weyl: quest’ultimo sposò una studentessa di Husserl, è stato lui stesso uno studente di Husserl – seguì un corso sulla fenomenologia del tempo – si nota molto precisamente nel suo lavoro sull’aritmetica. Questo perché la matematica predicativa è una matematica costruttiva, che si fa di livello in livello, e in questo si vede l’approccio genetico husserliano.
Il concetto di intuizione in Weyl non è l’intuizione kantiana ma quella husserliana, molto più ampia. Ciò mi è parso chiaro. Ma c’è anche di più! Weyl stesso dice, in qualche opera, di aver scritto sulle influenze dirette di Husserl – per esempio ha scritto un libro sulla relatività generale, Raum, Zeit, Materie (1952), dove ha voluto fare una cosa molto interessante, ossia scoprire una base geometrica dell’elettromagnetismo, poiché voleva mettere l’elettromagnetismo accanto alla gravità di una teoria geometrica: per raggiungere questo obiettivo lui ha creato una geometria chiamata geometria locale. Nell’introduzione di questo libro afferma che questa idea gli è venuta da Husserl, è stata un’intuizione diretta. Perché questa influenza husserliana? Perché si tratta di una filosofia dal punto di vista di un io localizzato e puntuale. Anche nel libro sull’aritmetica e l’analisi predicativa, Das Kontinuum (1918), si dice che tutta la parte logica è dovuta a Husserl. Io ho soltanto chiarito questi rapporti.

SF - Mi sembra però che lei non si limiti a studiare l’influenza storica che Husserl può aver avuto su Weyl.

JDS - *ride* Ah, no! Quello proprio non mi interessa!

SF - Allora come mai lei crede che nella filosofia contemporanea della matematica o della scienza dobbiamo raccogliere e fare nostra l’istanza husserliana?

JDS - Io penso che noi possiamo apprendere un sacco di cose da Husserl e usare queste idee – che sono brillanti – per capire cose che Husserl stesso non ha studiato (non ha avuto, forse, il tempo e l’interesse di approfondirle). Nella Krisis c’è un principio di filosofia della fisica, ma soltanto un principio. Io penso che un filosofo che sia interessato al pensiero husserliano possa fare quello che ho fatto io, cioè partire da quel punto e sviluppare, andare più avanti e chiedersi, anche: in quel punto Husserl ha forse sbagliato? Io penso che Husserl fosse molto prudente perché per lui era molto importante mantenere un filo di contatto con l’esperienza in sé intuitiva. Egli pensava che una fisica allontanata di molto dalla percezione sarebbe stata una forma di alienazione; io invece penso che questo non sia corretto, è soltanto un metodo e non una forma di alienazione. Quando partiamo dall’intuitivo formale, andiamo da un contesto limitato a un contesto molto più ricco, anche se perdiamo un po’ il contatto con la percezione della realtà vissuta.

SF - Intende l’Erlebnis?

JDS - Sì, la Lebenswelt, il mondo della vita. Secondo Husserl perdiamo un po’ il contatto con il mondo della vita, e questo era un problema: accettava il metodo simbolico ma con la condizione che quel metodo fosse semplicemente pragmatico e non essenzialmente necessario; quando il simbolismo diventava essenziale Husserl pensava ad un contesto alienante. Io non sono d’accordo, non lo trovo un contesto alienante, penso piuttosto che sia una necessità della conoscenza: dobbiamo farlo! Anche se perdiamo il contatto, il suolo sotto i piedi.

SF - Cambiamo momentaneamente area di indagine. In merito alla questione della conoscenza, le chiedo: dati due sistemi isomorfi, quali un “sistema di cose” e un “sistema di segni e di regole per manipolare gli stessi segni” e dati due metodi distinti di acquisizione di conoscenze, quali – ad esempio – un algoritmo e una persona, si potrebbe, osservando l’algoritmo, studiare, approfondire o formarsi delle nuove idee, empiriche, materiali sulla forma di acquisizione della conoscenza nella macchina così come potrebbe avvenire anche nell’uomo?

JDS - Vediamo se ho capito la tua domanda. Tu mi chiedi se i sistemi simbolici siano sistemi di conoscenza? Sicuramente sì, sicuramente, perché c’è una conoscenza materiale della realtà e c’è una conoscenza formale della realtà. I sistemi simbolici ci danno accesso alla struttura formale della realtà. Quella è sicuramente una forma di conoscenza, anche se esclusivamente formale. Ad esempio, in fisica quasi tutta la nostra conoscenza del mondo è una conoscenza formale e perciò la matematica è così importante.

SF - La domanda verteva più sul metodo di acquisizione della conoscenza. Ad esempio, fornendo ad un algoritmo determinati esempi di addizione, arriverà un dato momento in cui l’algoritmo sarà capace di svolgere autonomamente tutte le addizioni possibili. Trasponendo questo metodo di acquisizione della conoscenza nell’individuo conoscente, questa scoperta – se di scoperta si può parlare – può contribuire a quella che è la nostra conoscenza del metodo attraverso il quale noi conosciamo il “mondo”? Prendendo gli esempi di Platone e di Aristotele, per Aristotele vi è all’inizio “tabula rasa”: l'uomo, non sapendo, scopre. In Platone, invece, l’uomo già da sempre sa, solamente non sa di saperlo e ri-scopre tramite esperienza.

JDS – Cosa ne penso io? *ride*. Sicuramente noi non siamo “tabulae rasae”. Abbiamo una coscienza e la nostra coscienza è una macchina del creare. La conoscenza costantemente pone realtà e mondi. Quindi, quando parliamo della conoscenza dobbiamo chiederci: “conoscenza di che cosa?”, perché il nostro oggetto di interesse sono mondi creati dalla nostra coscienza. Va bene? Questa è una forma di auto analisi della conoscenza che si dirige a se stessa e si indaga: che cosa è? che cosa fa? Questa è sicuramente una forma di conoscenza di un mondo, per un mondo che è creato da noi, come per esempio la matematica; nella matematica noi conosciamo mondi che noi stessi creiamo. Come creiamo? Creiamo ponendo. Creiamo sistemi, inventiamo regole, inventiamo relazioni e ci chiediamo anche quali siano le implicazioni e le conseguenze di queste creazioni. Questa è una forma di conoscenza, ma non di una realtà indipendente; è una realtà oggettiva, però non indipendente dalla coscienza. Quindi, sicuramente, “tabula rasa” non siamo. Allo stesso tempo, noi crediamo che ci sia una realtà, una realtà fuori di noi e ci chiediamo comunque come conoscerla. Questo è un problema serissimo: come possiamo passare da questo livello di esperienza personale a una realtà oggettiva? Qual è il metodo per farlo? Questa è tutta la filosofia idealistico-trascendentale. Quindi, se tu mi chiedi quale modello di conoscenza sia più corretto: il platonico, che dice che c’è tutto un mondo intellettuale indipendente, oggettivo, che esiste in se stesso e per se stesso, o un mondo aristotelico che parte dall’empirico della propria esperienza, forse, né l’uno né l’altro. Sicuramente c’è un mondo di esperienze che è un effetto, diciamo. Possiamo vedere i segni e i dati percettuali come effetti di un mondo che non conosciamo, al quale, però, noi sostituiamo un certo mondo creato dalla coscienza/conoscenza che è intenta a dare un senso a questi dati percettuali. Quindi c’è una realtà, però la nostra conoscenza e questa realtà dipendono dalla costituzione della nostra coscienza; quindi alla fine non sappiamo se abbiamo o no raggiunto questo mondo trascendente, però sappiamo che quel mondo che abbiamo costruito fa bene il ruolo di un mondo trascendente. Va bene? è più o meno così. *ride*

SF - Questa operazione può rassomigliare a quella per cui noi possiamo dire di conoscere un mondo creato intersoggettivamente, ma non un mondo oggettivo – nel senso che prescinda dai soggetti?

JDS - Sì, sicuramente. Diciamo, il mondo trascendente è un’ipotesi metafisica, però il mondo oggettivo per noi è quello intersoggettivo che costruiamo insieme. Questa è la realtà. Se questa realtà corrisponda o meno precisamente a un mondo trascendente non lo sappiamo e non lo sapremo mai, perché questa è la nostra condizione: siamo limitati. E perciò le fantasie metafisiche sono per me molto interessanti, perché sono quasi sogni: noi sogniamo di questa realtà trascendente, che è un sogno. E a volte sono sogni bellissimi, come per esempio con la metafisica interessantissima di Leibniz o con Schopenhauer, che trova una metafisica bellissima. Però sono solo sogni e solo fantasie, bellissime, però fantasie. La realtà è che noi siamo ridotti, ridotti a quello che possiamo fare, pensare e concepire, non sapremo mai se quello corrisponde o meno a una realtà trascendente.

SF - E come facciamo però a giungere e a stipulare l’esistenza di questa realtà trascendente se essa è un “X” sconosciuto, o addirittura a chiederci se la nostra rappresentazione di questo “X” sconosciuto corrisponda ad esso?

JDS - Questo “X” è una necessità, diciamo, per spiegare le nostre sensazioni. In fondo noi crediamo che la nostra percezione sia causata da qualcosa di indipendente: che cosa sia, noi non lo sappiamo. Noi possiamo soltanto creare tutta questa realtà oggettiva fra noi, all’interno dell’intersoggettività, e sperare che corrisponda a una realtà trascendente, ma non lo sappiamo. Questo “X” è e sarà sempre un “X” sconosciuto, sarà sempre un’incognita. Almeno così penso io.

SF - Dunque lei mantiene l’istanza husserliana e allo stesso tempo quella kantiana, da questo punto di vista.

JDS - No, io penso che Husserl sia uno sviluppo di Kant. Husserl stesso ha detto con le Meditazioni Cartesiane: «Cartesio ha cominciato, io continuo». È così, no?

SF - Forse con Husserl viene meno, però, l’idea della “cosa in sé”, del fatto che ci sia una limitazione dovuta alla nostra costituzione. Prima lei giustamente affermava: “L’oggettività intersoggettiva è la realtà”. Punto. Non c’è una cosa in sé da cogliere.

JDS - Husserl dice che è questa la realtà, punto e basta. Non ha senso indagare più a fondo, entreremmo nel campo della divagazione metafisica. Possiamo inventare la volontà et cetera che sono cose bellissime e mi piacciono molto, però sono fantasie. La realtà è questa costruzione intersoggettiva: questa è la realtà. Anche per la scienza.

SF - Infatti, chi è il soggetto della scienza? La comunità? E quale sarebbe la realtà per questo ipotetico soggetto?

JDS - Evidentemente è la comunità. Per la scienza, per la pratica scientifica, l’unica realtà che c’è è quella che noi, quando filosofiamo, pensiamo essere una creazione intenzionale. Per la scienza questa è la realtà e non c’è più niente. È interessante perché lo scienziato deve per necessità credere che la realtà sia conoscibile e percepibile, perché in caso contrario la scienza sarebbe impossibile. E quindi per definizione, da un punto di vista scientifico, la realtà è questa – realtà che ci è data nella scienza, conosciuta attraverso la scienza. Questa è la realtà e non c’è altro. I filosofi si fanno sempre questa domanda in più: che c’è dopo? Che c’è al di là? Da un punto di vista scientifico questo non esiste.

SF - Bisogna però vedere di quale scienza si stia parlando; inoltre, lei stesso ha detto che la scienza non ha a che fare solo col percettibile.

JDS - Sì, ma un fisico può considerare una pazzia quello che ho detto – ossia che il mondo oggettivo, la natura dal punto di vista della fisica, sia un costrutto intenzionale; lui dice che questa è la realtà, che la percepiamo, la vediamo tutti, e che con la nostra intelligenza possiamo vedere attraverso questa realtà. I fisici non vedono questa realtà come un costrutto, ed è proprio perché non vedono così che il problema dell’applicabilità della matematica diventa un mistero. Per loro è un mistero perché ritengono che la realtà sia matematica in se stessa; la realtà sarebbe così matematica indipendentemente da noi, e quindi ci sarebbe un problema. Però, da un punto di vista filosofico, quando vediamo questa realtà come un costrutto capiamo benissimo che tutta questa struttura matematica è messa lì da noi, in un certo senso, come in un intento di recupero di una realtà trascendente che è sempre lontana. Ma questo è un punto di vista piuttosto filosofico, e non scientifico.

SF - Ma questo costrutto di cui lei parla non è un metodo arbitrario, creato a tavolino. Ci sono delle condizioni di possibilità che reggono tale costruzione, o quantomeno dei criteri che la guidino?

JDS - L’unica condizione è la coerenza: non c’è altro. È tutto un’invenzione, in un certo senso; è tutto una creazione. Noi creiamo liberamente – certamente con delle condizioni iniziali, condizioni di contorno, condizioni di coerenza. Ci sono condizioni logiche di coerenza, condizioni di contorno, condizioni iniziali che sono date dal sistema percettivo, e questo è tutto. Il resto è un mondo aperto all’immaginazione. La cosa più importante per uno scienziato è l’immaginazione, è la capacità di inventare, di creare fantasie: un grande scienziato è sempre un grande creatore di fantasie. Quando parlo di scienza penso sempre alla fisica: ci sono degli scienziati che vanno in laboratorio a fare esperimenti e hanno certamente l’idea di stare in contatto diretto con la realtà. Però anche loro utilizzano tutto l’apparato scientifico per costruire una realtà, quella realtà della percezione è contaminata nella scienza, è già contaminata dalla nostra costruzione teoretica. Questo problema è analizzato da Husserl nella Krisis quando lui dice precisamente, chiaramente, che ci sono tanti presupposti nella scienza che lo scienziato sperimentale non può mettere in questione in quanto anche lui lavora con le stesse presupposizioni. La scienza è un mondo di fantasia, i criteri sono semplicemente questi: dobbiamo obbedire alle condizioni iniziali, di contorno, che ci sono date dai sensi, dalla percezione, dal sistema percettivo, e poi alle condizioni di coerenza logica. Il resto è fantasia, è creazione.

SF - Ultima domanda: su cosa sta scrivendo adesso e quali sono i suoi progetti futuri?

JDS - Adesso sto scrivendo il mio epitaffio! *ride*. Sto scrivendo un libro su un concetto che di recente è stato molto maltrattato: il concetto di verità. Che cosa sono la verità, la logica della verità, i diversi tipi di verità? Mi occupo anche di un’etica della verità. Adesso rifletto anche sui rapporti della verità con l’arte: l’arte può essere un modo di accesso alla verità ma di che tipo, in che modo? Finire questo libro sulla verità è ora il mio progetto. Viviamo in un mondo di post-verità, un mondo di costruzione. È’ come se la gente vivesse in un mondo di fantasia costante; si dice: “A che cosa serve la verità? La verità non serve a niente”. La gente vuole essere confortata, vuole sentire soltanto quello che è piacevole e che non ferisce, mai la verità. La verità è adesso in un punto bassissimo della sua esistenza.

Mi chiamo Lorenzo Perrone, sono uno studente del corso di Laurea Triennale in Filosofia presso l’Università di Bologna. I miei interessi, ad oggi, vertono su ontologia, fenomenologia e filosofia del linguaggio. Attualmente approfondisco il rapporto tra Dasein e il concetto di «performatività» ne i «primi corsi friburghesi» (1919-1921) e in Sein und Zeit (1927) di Martin Heidegger, mantenendo vivo il confronto con la critica alla metafisica della sostanza – e conseguente critica al binarismo di genere - in Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity (1990) di Judith Butler.

Mi chiamo Marlene Prosdocimo. Mi sono laureata in Scienze Filosofiche con una tesi in Filosofia Teoretica relativa al problema del darsi del negativo nella filosofia tedesca da Meister Eckhart a Heidegger. I miei interessi attuali riguardano soprattutto l'ontologia e la teologia, in un'ottica principalmente non ontoteologica, ma non escludono altri ambiti come la gnoseologia o la filosofia della scienza.

Mi chiamo Debora Spinn e frequento il terzo anno del corso di laurea triennale in FILCOM - Filosofia e Comunicazione, presso Bologna. Al momento i miei studi vertono dalla filosofia morale - con particolare attenzione alla Scuola Francofortese e Günther Anders - alla psicoanalisi freudiana e la fenomenologia esistenzialista. Il mio interesse è analizzare gli effetti del contesto storico-politico sulla psiche umana: ad esempio come dal Novecento la «Diskrepanzphilosophie» occupi violentemente posto nella mente umana, tanto da venerare il Dio-Capitale, figura che ricorda il «Padre» di Totem e tabù.