Intervista a Homero Santiago

A cura di Margherita Bovo e Alessia Vanni

Homero Santiago

è professore di Storia della Filosofia Moderna presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università de São Paulo. Oltre che di numerosi saggi pubblicati e la traduzione dei Principi della filosofia di Cartesio e Pensieri metafisici (2016), è autore di Espinosa e o cartesianismo: o estabelecimento da ordem nos Princípios da filosofia cartesiana (2004), Amor e desejo (2011), Geometria do instituído: estudo sobre a gramática hebraica espinosana (2014) e Entre servidão e liberdade (2019).

Buongiorno professore e grazie di questa possibilità di dialogo con il centro di ricerca “Sive Natura” e con il progetto “Segnalibri Filosofici”. Vorremmo partire da un suo recente volume, Entre servidão e liberdade (“Tra servitù e libertà”, 2019): come si sviluppa il ragionamento intorno ai due concetti indicati nel titolo?

Homero Santiago - Buongiorno, vi ringrazio per avermi invitato a questo incontro. Dunque, la prospettiva generale del volume prende in considerazione i due concetti non come assoluti. Il punto fondamentale per me è la preposizione “tra”, che esprime la possibilità di transizione da uno all’altro. In Spinoza gli affetti sono presentati come dei passaggi (il termine latino chiave è “transitio”, “transitiones); la gioia, per esempio, è il passaggio da una perfezione minore a una maggiore, mentre la tristezza è il passaggio da una maggiore perfezione a una minore[1]. Il desiderio è l’essenza attuale dell’uomo quando questi, determinato da un affetto, è rivolto verso il compimento di un’azione. Come precisato alla fine della terza parte dell’Etica[2], il desiderio è un qualsiasi tipo di impulso in rapporto alla costituzione variabile di un essere umano che, in tal senso, può essere visto come un essere di passaggio, di transizione. La vita umana è sempre variazione e la schiavitù e la libertà possono avere senso solo in questa variazione. Possiamo concepire la servitù come la predominanza -e non, si noti, l’omogeneità- di passaggi verso una minore perfezione, ovvero come una dinamica di diminuzione della potenza umana. La libertà si può invece intendere come la predominanza di transizioni verso una maggiore perfezione, cioè come un aumento della potenza. Tra questi due poli si pone un problema etico fondamentale: come si può aumentare la potenza ed evitarne la diminuzione? Da questo punto di vista ho cercato di domandarmi quale sia la condizione peggiore per una vita umana. La risposta mi è sembrata il fatalismo: esso è il blocco delle variazioni e, dunque, della vita in quanto concepibile nei termini di queste. Secondo un’ottica fatalista è impossibile cambiare la vita, che si tramuta in destino ineluttabile. Un simile punto di vista mi sembra derivare dalla superstizione, perché essa è un sistema della tristezza, una paura che blocca la vita e che sopprime ogni possibilità, dando origine a una costante decrescita della potenza umana.

S.F. - Quali sono stati i principali interlocutori nella sua riflessione?

H. S. - Due nomi mi hanno accompagnato. Il primo, curiosamente, è Pascal. Semplificando, possiamo dire che con lui la determinazione e la predeterminazione sono generalizzate rispetto alla salvezza. La sua adesione al giansenismo risulta interessante, in particolare riguardo alla dottrina della predestinazione, secondo la quale Dio, fin dal principio, sa chi verrà salvato e chi verrà dannato e solo lui può far sì che la grazia tocchi il cuore di una persona. Tutto indica una via verso il quietismo e, di fatto, un certo fatalismo: non sappiamo se siamo destinati alla salvezza e non è possibile, in ogni caso, cambiare questo decreto. Eppure, Pascal sviluppa un progetto di apologia della religione cristiana, ponendosi un fondamentale problema: cosa può l’azione umana all’interno di un sistema di determinazione? Solo Dio ci può salvare, ma noi, nonostante ciò, dobbiamo lavorare ogni giorno e in ogni momento come se fossimo salvi e come se lo fossero anche tutti gli altri. Per Pascal questa è una scommessa: scommetto di salvarmi per poter essere davvero salvato, senza limitarmi ad attendere inerte la scelta divina, altrimenti ho già perso in partenza. Egli sembra suggerire di ignorare la determinazione ed esortarci ad agire per il meglio, nonostante la nostra ignoranza circa le scelte di Dio, lavorando per l’incerto come se esso fosse certo. È così che possono avere luogo l’apologetica, l’azione e, infine, la conversione, intesa come passaggio da uno stato di non credenza a uno stato di disponibilità a salvarsi, ad accogliere la grazia divina; l'apologetica può disporre i cuori degli uomini alla salvezza.                                                                        

Anche il mondo di Spinoza è impregnato di determinazione, sebbene in questo caso non si parli, diversamente da Pascal, di predestinazione. Non essendoci trascendenza nel mondo della causa sui, tutto potrebbe essere conoscibile; questo non significa, tuttavia, che arriveremo a conoscere l’intero ordine infinito delle cause. Il luogo dell’azione umana resta indipendente da tale conoscenza che, dal punto di vista spinoziano, è impossibile, dal momento che il nostro intelletto finito non la può abbracciare per intero. Viviamo necessariamente con una parte di ignoranza che è quantitativa, perché dovuta non alla trascendenza, ma all'infinità dell'universo. Tutto ciò può facilmente portare al fatalismo e all'inazione per via della tendenza a pensare che l'agire possa aver luogo e successo solo attraverso la conoscenza della determinazione generale delle cose; è una prassi intellettualistica. E invece occorre vivere, seppur rimanendo nell’ignoranza. Incessantemente compiamo azioni che sono incerte, ciononostante dobbiamo scommettere in un esito positivo. Il nostro agire, allora, non sarà intellettuale, bensì rapportato alla nostra ignoranza che dobbiamo dimenticare, prendendo le cose come possibili. 

Il possibile è un concetto fondamentale nel mio volume, in relazione sia a Pascal sia alle definizioni della quarta parte dell’Etica, relative alla contingenza e alla possibilità[3]. Ambedue sono forme di ignoranza, ma presentano delle differenze: la contingenza è l’ignoranza circa l’essenza di una cosa; il possibile è l’ignoranza circa le cause che producono la cosa. Sorge il possibile quando non sappiamo se ci sia una causa determinata a produrre un effetto, è un dubbio che si rivolge alla causa produttrice e ci presenta quella che io chiamo la “forma della determinabilità”: ignorando la determinazione, la causa pare determinabile e possiamo, allora, essere noi a stabilirla, avendo, così, la possibilità di compiere azioni che esigono di dimenticare l’integralità delle cause. Se consideriamo il Trattato teologico-politico, notiamo che nel quarto capitolo Spinoza afferma che per la pratica della vita è meglio, anzi necessario, considerare le cose come possibili[4]. Il fatalismo impedisce questo tipo di atteggiamento. Proprio queste cose possibili sono i fattori decisivi nel “tra”, cioè nella dinamica di una vita. Il dialogo con Spinoza è stato fondamentale per cercare di comprendere cosa possiamo fare all’interno di un sistema di determinazione e uno dei capitoli del libro è intitolato, infatti, “Una teoria spinoziana del possibile”.                                                                                                                         

Un altro interlocutore del volume è Antonio Negri, il cui lavoro è stato importantissimo in Brasile tra il 2000 e il 2015. Mi ha interessato in particolare il suo lavoro con Michael Hardt, ovvero la trilogia Impero, Moltitudine, Comune, utile per pensare le politiche del possibile che, in assenza di certezza d’esito, possono aprire all’azione un campo di trasformazione della società. Qui diventa chiaro perché l’interpretazione di servitù e libertà come termini non assoluti sia importante: se si assume la libertà come meta finale di un percorso di conoscenza e uno stato di saggezza, rimane ben poco spazio per valutare l’azione politica, in particolare quell’agire che non è fondato sul sapere; diverso è quanto avviene se si intende la libertà come la predominanza di transizioni che portano verso la liberazione. La libertà allora non è uno stato ma un processo, che può essere messo in marcia da politiche che allargano il campo del possibile e che rendono gli individui e la società più disponibili -riprendendo l’idea pascaliana- alla libertà stessa. Mi sono anche chiesto che cosa possa dire lo spinozismo in relazione all’importanza di pensare il possibile e i concetti di servitù e libertà in modo da renderli applicabili a determinate situazioni sociali e alle politiche pubbliche. Un capitolo è dedicato a un programma di reddito minimo del governo brasiliano, denominato “Bolsa-Familia”, creato a metà degli anni ‘2000 sotto il governo Lula. Ho cercato di suggerire quanto una rendita regolare per le persone sia un elemento capace di promuovere la disponibilità alla libertà, in quanto apre il campo al possibile, dispone ai cambiamenti e allarga lo spettro delle speranze. Niente di tutto ciò garantisce che la libertà arriverà, ma ritengo che senza non ci sia modo di pensare ad essa in un modo politicamente rilevante. In un certo senso il libro è stato un tentativo, partendo da Spinoza, di pensare a un periodo di importanti trasformazioni del Brasile, ma il finale è malinconico. Il processo si è concluso, infatti, con l’impeachment di Dilma Roussef e la vittoria di Jair Bolsonaro. In altre parole, nello schema che ho impostato, si parte da una condizione di libertà (predominio delle transizioni verso una maggiore perfezione sociale) e si ricade nella servitù (predominio della paura e della tristezza, chiusura delle possibilità di trasformazioni sociali).

S.F. - Abbiamo notato in lei un forte interesse per Spinoza proprio nell’ambito dell’attuale realtà brasiliana. In che modo il pensatore in questione può dialogare in questo campo?

H. S. - Il mio lavoro Entre servidao e liberdade non è esattamente un libro su Spinoza, ma nel momento in cui in Brasile avveniva ciò che prende il nome di “lulismo”, ho cercato di usare le categorie spinoziane per capire le trasformazioni del paese e le possibilità che vi si aprivano (il mio libro è stato pubblicato nel 2019, ma l’ho scritto tra il 2005 e il 2015). Occorre tenere in mente lo sviluppo dello spinozismo in Brasile e, in generale, in America Latina. Esso si presenta sin dall’inizio come una filosofia fortemente implicata nelle discussioni politiche e nei movimenti sociali, accanto alle sue interpretazioni accademiche. Un dettaglio curioso che fornisce un’illustrazione del contesto: dopo gli anni più duri della dittatura, i cosiddetti “anni di piombo” (assassini sistematici, torture, estradizioni, ecc.), tra il 1976 e il 1977, per la prima volta, un collettivo di studenti ha avuto il coraggio di scendere in piazza chiedendo di porre fine al regime; ebbene, questo gruppo si chiamava “Libertà e lotta” e sembra che il nome derivasse da alcuni studenti che frequentavano un corso su Spinoza tenuto dalla professoressa Marilena Chaui, in cui si affermava che la libertà dipende dalla lotta ed è qualcosa che va conquistato. La figura di Marilena Chaui per il Brasile è stata fondamentale, in quanto ha permesso a Spinoza di dialogare con i movimenti sociali e con la politica. Ella è stata, inoltre, una personalità molto importante nel PT (“Partito dei Lavoratori”), oltre ad aver svolto un ruolo come intellettuale militante nel periodo post-ridemocratizzazione del Paese e come Segretaria della Cultura della città di San Paolo per quattro anni, nel primo governo di sinistra della città. Spinoza era sempre presente nei suoi interventi, nelle sue riflessioni (per esempio, circa la centralità dei diritti nella democrazia), pertanto era una cosa naturale farlo dialogare con la situazione brasiliana. Non che fosse considerato un profeta, ma nel senso inteso da Merleau-Ponty: il classico non esaurisce mai ciò che ha da dire, ci insegna sempre a pensare da prospettive inaspettate ciò che è abituale per noi.

Un’altra figura importante nel periodo Lula fu Antonio Negri. Negli anni in cui il Sud America affrontava un processo di intensa trasformazione (erano coinvolti in questo Brasile, Uruguay, Argentina, Bolivia, Ecuador, Venezuela), Negri era una presenza costante. Ricordo le Giornate Negri, con PUC-Rio, tenute a Rio e a San Paolo, o anche i tre giorni di colloquio dal titolo “Dialoghi con Negri”, svoltisi nel 2016 a San Paolo con la partecipazione dei movimenti sociali. Egli è stato un modello di come pensare, a partire dalla storia della filosofia e soprattutto da Spinoza, la contemporaneità politica.                 

S.F. - Da un punto di vista accademico, invece, qual è stata la ricezione dello spinozismo in Brasile?  

Gli studi su Spinoza iniziano tra gli anni '50 e '60 all'Università di San Paolo. Prima di allora c'erano sì dei lettori che si dedicavano a scrivere alcune cose o a tradurre Spinoza (è da notare che negli anni '30 apparve in Brasile la prima traduzione dell'Etica), ma gli studi regolari iniziano più tardi. Vale la pena parlare un po' della storia del mio ateneo. L'USP nasce nel 1934 con l'aggregazione di più scuole tradizionali (medicina, giurisprudenza, ingegneria), ma mancava allora una facoltà di filosofia, lettere e scienze umane. Per fondarla vennero invitati svariati professori europei, alcuni piuttosto famosi. Prendiamo ad esempio Lévi-Strauss, che da giovane è stato professore di antropologia a San Paolo (lì ha preparato il dottorato sui Nambikwara), o Giuseppe Ungaretti che vi ha insegnato letteratura italiana. È stata inoltre determinante la presenza della scuola francese di storia della filosofia, come nel caso di Martial Gueroult, anche lui professore per alcuni anni a San Paolo; il suo assistente, Lívio Teixeira, uno studioso di Descartes e Spinoza, ha scritto una tesi di libera docenza sui modi di percezione che, se non erro, è stata la prima opera sistematica su Spinoza in Brasile (1957). Da quel momento in poi si venne a creare una tradizione di studi spinoziani anche nel mio paese. È importante ricordare nuovamente il nome di Marilena Chaui, che ha dedicato negli anni ‘70 il dottorato e la libera docenza proprio a Spinoza, diventando così il nome più importante nell'interpretazione dello spinozismo. Oggi esistono centri di studio spinoziani a San Paolo, a Rio de Janeiro e al nord del Brasile.

 

S.F. - Un tema sul quale lei si è concentrato è quello della superstizione, centrale sia in Spinoza sia in qualunque discorso legato all’attualità. Secondo lei, come si delinea la superstizione nei contemporanei governi autoritari?

H. S. - Il tema della superstizione è centrale nella mia produzione e nel volume oggi considerato. Il problema si collega alla produzione determinata della trascendenza all’interno dell’immanenza; l’immanenza radicale esige infatti che la trascendenza sia concepita come un suo prodotto. Se non c’è un Dio, da dove viene la trascendenza? Con questa domanda ho lavorato sull’appendice della prima parte dell’Etica e sulla prefazione del TTP. Non vi è trascendenza nella realtà, ma accade qualcosa all’interno dell’immanenza e, più precisamente, all’interno del nostro stesso essere. Mi ha sempre colpito l’affermazione spinoziana per la quale siamo tutti inclini per natura ad abbracciare la superstizione[5]; anche se non tutti lo facciamo allo stesso modo, c’è qualcosa della nostra natura che ci spinge verso di essa. Spinoza parte da due dati fondamentali: in primo luogo, tutti nasciamo ignoranti delle cause; in secondo luogo, siamo consapevoli di cercare ciò che ci è utile. Da questi due elementi deriva la superstizione, che si configura come la combinazione tra ignoranza (che può essere maggiore o minore, ma sempre presente in noi, dal momento che non possiamo conoscere tutto) e desiderio. Quando si desidera qualcosa si è consapevoli di provare desiderio e si sa cosa si sta desiderando, ma è molto raro comprendere perché si desidera. In questo modo nasce il finalismo: non conosciamo la totalità delle cause e pensiamo, allora, che le nostre azioni dipendano da cause finali, formando una dottrina al cui vertice vi è la figura di un Dio creatore e trascendente che ha creato il mondo secondo certe finalità che sono all’uomo insondabili, in quanto derivanti da un essere infinito. Emerge, allora, il fatalismo, secondo cui il mondo è strutturato così perché questa è la volontà di Dio. Le conseguenze per gli affetti umani sono nefaste: ne deriva un sistema della tristezza e della paura (il timore dei castighi, la paura dell’inferno e così via) che apre un campo in cui la superstizione diventa una questione di potere teologico-politico. Colui che si fa interprete dei fini divini può ottenere un potere sulle altre persone, unendo in sé teologia e politica, dando vita alla forma più perfetta per dominare una multitudo

Anche oggi la superstizione agisce producendo trascendenza, in qualsiasi forma possibile. Un buon esempio di autoritarismo che ha fatto suo questo paradigma è rappresentato dal caso brasiliano: quando vengono presentati motti come “Il Brasile sopra tutto” oppure “Dio prima di tutti”, si insiste sulla trascendenza della patria e su quella divina. Evidentemente molte mediazioni sono necessarie, ma il concetto fondamentale che mi interessa della superstizione è il fatto che essa è un prodotto del nostro stesso desiderio.

S.F. - In relazione a questo, si è recentemente interessato al tema delle fake news. Le si potrebbe considerare come una forma di superstizione contemporanea?

H. S. - Direi di sì, per ciò che concerne due fenomeni principali: la mancanza di criteri condivisi e il discredito della razionalità, della possibilità che si possa comunicare un mondo comune. Tornando all’appendice della prima parte dell’Etica, Spinoza dice che quando gli uomini decidono che tutto, il mondo, la natura e gli stessi esseri umani sono guidati da cause finali, questa domanda sui fini diventa la più importante[6]. Quando sorge la figura di un dio trascendente i cui fini sono insondabili, la nostra unica certezza è che non possiamo essere sicuri di nulla perché non conosceremo mai questi fini; spariscono i criteri comuni e si lascia il campo a chiunque di pensare qualsiasi cosa e così abbiamo solo confusione. In questa situazione di assenza di criteri condivisi, base della razionalità, il campo è aperto all'emergere della figura del teologo, ossia di colui che manipola, che interpreta il mondo per l'umanità, che insegna i fini delle divinità. Il discorso teologico ne approfitta perché conferisce agli uomini dei criteri cosiddetti divini in modo tale da potersi servire di un potere su di loro. 

Pensiamo alle fake news e alla mancanza di criteri: si può dire che non c’è una sola verità ma diverse versioni sulle medesime cose. Non abbiamo bisogno di una teoria della verità per riconoscere la bugia; le notizie false non sono semplicemente bugie o menzogne o falsità. Se la fake news fosse una falsità, basterebbe la verità per rendere questa impotente. Non lo vediamo accadere. È inutile brandire la verità. Ricordiamo la proposizione 1 della quarta parte dell’Etica: “Nulla di quel che un’idea falsa ha di positivo, è tolto dalla presenza del vero, in quanto vero”[7]. La verità è indice di sé e del falso e in presenza della verità, la falsità è tolta, però la falsità oltre alla negatività ha anche qualcosa di positivo che non è tolto dalla verità in quanto verità. Questo positivo del falso è quello che rende possibile che una falsità diventi una bugia (la menzogna è diversa dalla falsità). Le notizie false sembrano coinvolgere qualcosa di positivo, lo stesso positivo del falso che si presenta anche nel discorso teologico. Di cosa si tratta? Questo è quello che mi interessa capire. Per ora dico: la capacità di imitare la verità, un lavoro dell’immaginazione, un potere di mimetizzazione.

Il discorso teologico, come appare nel TTP, mi sembra avere una somiglianza cruciale con il discorso delle fake news. Quello che avviene nei due casi è lo stesso. La verità non elimina le fake news, poiché queste hanno la capacità di rispondere al nostro desiderio: esse funzionano perché noi non le riceviamo passivamente, bensì le desideriamo. Siamo tutti propensi a questo. 

S.F. - La sua opera Amor e desejo (“Amore e desiderio”, 2011) è mossa dalla domanda su una possibile identificazione tra amore e desiderio, la cui risposta viene ricercata attraverso il confronto con vari filosofi. In che modo ciò si rapporta a Spinoza?

H. S. - La domanda è un po’ difficile e non ha senso cercare di razionalizzare troppo la risposta. Il libro -un libro piccolissimo- è nato dall’invito per una collana che si proponeva di presentare dei concetti filosofici agli studenti del liceo dai 15 anni in su. Quindi, primo punto, non ho scelto il tema. Tuttavia, ho deciso di accettare l'invito e di scrivere per una ragione spinoziana, ma non solo. Mi ha sempre dato fastidio una certa esaltazione di quello che definirei “puro desiderio” (e questo proviene da Deleuze e Guattari), ovvero il desiderio tout court, dell'idea, cioè, che considerare l'oggetto del desiderio ci porterà sempre a una concezione negativa di esso. D’altronde, c’è da dire che Spinoza parla soprattutto di amore. Nel Trattato sull’emendazione dell’intelletto dice che la nostra felicità dipende dalla qualità dell'oggetto su cui deponiamo il nostro amore e che, dunque, l'oggetto del desiderio è fondamentale. Esiste desiderio senza oggetto? Non credo. Spinoza non parla mai di un desiderio puro; per lui, l'amore è dato dalla combinazione di desiderio, oggetto e gioia. Questo mi interessava: pensare all'oggetto del desiderio, all'oggetto dell'amore e con quella domanda ho iniziato a leggere alcuni testi classici. Il percorso di Amor e Desejo parte da Platone e arriva a Freud, passando per San Paolo, Descartes e Spinoza, andando a toccare anche alcuni poeti come Catullo e Dante. 

La mia domanda guida era capire perché comunemente si dice che c'è sesso con amore oppure sesso senza amore. In entrambi i casi è presente il desiderio, ma non l'amore; l'elemento distintivo deve essere quello che chiamiamo amore. Molto brevemente, ho cercato di proporre quanto segue: possiamo concepire il desiderio come un movimento verticale di un essere umano, l’emergere di un essere umano che si sveglia nel mondo, che si lancia verso qualcosa nel mondo (come dice Spinoza, noi ricerchiamo l'utile) e che è cosciente di desiderare (ogni essere umano è un essere desiderante). Ora, questo rivolgersi a qualcosa nel mondo potrebbe presto finire, come nel caso del sesso senza amore; cosa è diverso quando parliamo di sesso con amore? La persistenza del desiderio, un desiderio che non finisce subito non appena viene soddisfatto ma che si perpetra nel futuro, che permane (e questo vale anche per altre cose umane, non solo per il sesso). Dunque, possiamo anche concepire un moto orizzontale successivo a quello verticale, pensare all’amore come un doppio movimento. Immaginiamo che il moto desiderante (che ci rende umani) emerga, sorga; a volte, esso va avanti, persiste e si ripresenta. Il desiderio si è così trasformato in amore perché dura e ha una storia. Ecco come definisco l’amore: la storia -mi interessa sempre la storia- di un desiderio, la temporalità prolungata di un desiderio che è pensato positivamente e che è inseparabile dal suo oggetto, cioè dall'amore. Insomma, sono partito da Spinoza ma la mia non è esattamente una prospettiva spinoziana.

 

S.F. - Qual è il percorso filosofico che l’ha portata a Spinoza? Quali sono stati i suoi autori di riferimento?

Mi sono dedicato a Spinoza a partire dalla laurea, ho fatto una prima ricerca che ho continuato durante il master. Senza dubbio Descartes è il primo autore che ho studiato veramente ed è stato lui a condurmi verso Spinoza. Il problema chiave era per me quello dell’immanenza; non sono mai riuscito a credere in Dio e questo mi ha turbato per tutti gli anni dell’adolescenza e quando ho letto Spinoza per la prima volta mi è sembrato qualcosa di diverso da tutto il resto e questo mi ha appassionato. Merleau-Ponty è un autore che ho sempre letto, in alcuni momenti di più, in altri meno, ma che leggo e rileggo sempre, cercando di seguire la pubblicazione delle sue opere postume. Un primo motivo decisivo è che ho avuto la fortuna di avere professori che hanno offerto degli ottimi corsi su di lui. In secondo luogo, la professoressa che mi ha formato, guidando le mie tesi di master e di dottorato, è stata Marilena Chaui, da sempre interessata al pensatore in questione (ha fatto il master su Merleau-Ponty nel 1966 e credo che quello sia stato il primo lavoro sul filosofo in Brasile) ed era molto amica di Claude Lefort. Questo per dire che con lei lo spinozismo mi è venuto naturalmente insieme a Merleau-Ponty. Esplicitamente, quest’ultimo parla poco di Spinoza, e quando lo fa afferma di non condividerne il pensiero. Nell'ultima nota di Il visibile e l'invisibile dice chiaramente di non volere fare suo l’inquadramento di quelle dottrine (uomo, natura, Dio) e si potrebbe definire la sua una lettura di Spinoza che non va oltre quella che farebbe uno studente di liceo. Spinoza non era un nome che piaceva alla fenomenologia, né francese né tedesca, non lo vediamo apparire in Husserl, in Heidegger o in Sartre. Eppure, la questione del linguaggio, il problema della lettura (di imparare a pensare dagli altri), questa meravigliosa idea della carne del mondo, l’anima e il corpo come dimensioni di un indivisibile che precede entrambi... Si può dire che il mio master e il dottorato siano nati entrambi da questioni merleau-pontyane.

Poi, quando sono diventato professore universitario nel 2004, ho lasciato lo spinozismo per alcuni anni e mi sono dedicato ad altri filosofi come Pascal, Bacone e Marx. Sono stato a Milano fra il 2009 e il 2010 per 3 mesi per studiare alcuni autori dell’operaismo italiano degli anni ’60; tre nomi: il giovane Negri, Mario Tronti e Raniero Panzieri. Diciamo che gli interessi degli insegnanti finiscono per essere molto guidati da quelli degli studenti e da altri obblighi.

S.F. - Ci interesserebbe saperne di più circa la sua formazione filosofica. Potrebbe parlarci più approfonditamente del suo master?

H. S. - Nel mio master mi sono occupato di Spinoza lettore di Descartes nei Principia philosophiae cartesianae, più nello specifico del problema dell'ordine geometrico nell’opera. Ho cercato di dimostrare che il libro di Spinoza era un esercizio di formazione filosofica sui testi cartesiani. Questo mi interessava molto: pensare al posto che ha la storia della filosofia nella formazione filosofica. Ci sono due possibili atteggiamenti: rifiutare la storia della filosofia, pensare che questa non faccia altro che ripetere ciò che i filosofi hanno già detto, oppure farne qualcosa di rigoroso ma di anodino, di noioso (atteggiamento tipico della scuola francese, penso ad esempio a Gueroult), che non ci porta da nessuna parte. E invece forse è possibile leggere in un altro modo, leggere per imparare a pensare.

Per pensare al rapporto di Spinoza con Descartes è stata importante per me un'idea di Merleau-Ponty a cui mi ha condotto la Professoressa Marilena Chaui: si impara a pensare a partire dall’altro, non per ripetere quello che dice, ma perché un autore ci insegna ad esprimere ciò che vogliamo, ci mostra uno stile e ci apre a nuove possibilità, ci porta a riflettere, non tanto per quello che è riuscito a lasciare come l’insieme delle sue dottrine, ma per quello con cui ha lottato e che ha lasciato come problema, quello che Merleau-Ponty chiama “l’impensato”. Ecco perché la storia della filosofia è sacra, così come lo è la comunicazione tra gli uomini.  Ebbene, direi che lo sforzo di Spinoza nei PPC, grazie al metodo geometrico, è quello di saldare i conti con colui che era stato il suo maestro in filosofia. Quando il giovane Spinoza comincia ad interessarsi alla filosofia, Descartes è il grande nome; essere moderno è, in un certo senso, essere cartesiano e maneggiare il metodo geometrico. Ho sempre pensato che fra i due ci fosse un rapporto simile a quello che intercorre tra Marx e Hegel: Marx non è un hegeliano tout court, ma impara a ragionare con Hegel, introietta l'hegelismo in modo tale da rivendicare qua e là anche il diritto di essere hegeliano. Come dice Fernando de Rojas ne La Celestina: “Che cosa miserabile è pensare di essere un maestro che non è mai stato un discepolo”.

S.F. - E per quanto riguarda la sua tesi di dottorato?

H. S. - Nel dottorato ho studiato il Compendio di grammatica della lingua ebraica di Spinoza. Non conoscevo l’ebraico, ma quello che mi interessava era capire come lo spinozismo (ossia un determinismo, una filosofia dell’unicità sostanziale) potesse rivolgersi alla storia, o meglio alle cose attraversate dalla storicità, agli oggetti della cultura. Anche qui il metodo geometrico occupava un posto importante, poiché nelle Opere postume di Spinoza ci è detto che voleva presentare la grammatica ebraica more geometrico demonstrata. Tuttavia, sorge un altro problema: che il metodo geometrico e tutto l'apparato della filosofia classica si applichino a esseri come la sostanza, Dio, gli attributi, ecc. è normale, ma come applicarli a un oggetto storico la cui forma cambia nel tempo? Tale è la lingua ebraica. Era quindi della massima importanza prendere sul serio l'affermazione di Spinoza secondo cui bisogna fare la grammatica della lingua ebraica e non la grammatica della Scrittura.

La tradizione ha sempre assunto l'ebraico come una lingua sacra il cui stato di perfezione è quello che appare nell'Antico Testamento, una lingua dunque imbalsamata, in un certo senso morta. Fare la grammatica dell’ebraico era fare la grammatica del suo uso scritturistico. Cosa significa invece fare la grammatica della lingua? Significa prendere l'ebraico come una lingua viva, una lingua che ha una storia determinata legata a un popolo determinato e che è finalmente legata a una cultura determinata. L'uso scritturistico è solo uno tra i tanti possibili; con ciò, la prospettiva sulla lingua e sulla sua grammatica cambia completamente. Qualche esempio: Spinoza menziona la particolare pronuncia dell'ebraico degli ebrei iberici, i sefarditi; collega il sistema verbale ebraico al modo unico in cui il popolo ebraico concepisce il tempo (e afferma che gli usi ebraici non dovrebbero essere misurati a partire dagli usi latini). Non è difficile comprendere l'importanza di tutto ciò per il metodo critico impiegato nel TTP. Quindi, il primo punto della mia tesi di dottorato era che lo spinozismo è in grado di avvicinarsi a un oggetto storico.

La seconda domanda, invece, era: si può fare tutto questo geometricamente? Ho cercato di dimostrare che è così. Spinoza si allontana da un progetto di grammatica universale e razionale come quello di Arnauld e Nicole, la cosiddetta “Grammatica di Port-Royal. L'ebraico è la lingua di un popolo particolare, è un oggetto singolare. Lo spinozismo pone la conoscenza delle cose singolari come il punto più alto della conoscenza stessa; in questo caso, un singolare che ha una storia. Come si può apprendere geometricamente la storia di un singolare? Per semplificare molto: non si può catturare la storia di un singolare, ma si può conoscerne l’essenza e capire i modi in cui si svolge nella storia. Ci può essere una comprensione rigorosa di questo. Pensiamo a Il Capitale: Marx ci presenta non la storia completa del capitalismo, ma l’essenza più intima del capitale, e da ciò possiamo capire il suo sviluppo.

Inoltre, vale la pena ricordare che, dopo la laurea in filosofia, sono andato a studiare lettere contemporaneamente al master perché ero molto interessato alla linguistica. Quando consideriamo questa disciplina per come essa prende forma nell’Ottocento e nel Novecento, vediamo come sia possibile un trattamento rigoroso e "matematico" delle lingue. Basta ricordare che Lévi-Strauss, se non sbaglio in Antropologia strutturale II, dirà che le leggi fonetiche promuovono una rivoluzione nel campo delle scienze umane perché consentono a queste di assumere uno status “galileiano”. Come si ottiene questo risultato? Tramite la desoggettivazione e la postulazione della determinazione dei fatti e del loro dispiegarsi (le persone non scelgono di cambiare una lingua a loro piacimento, così come Spinoza nel TTP dice che nessuno cambia arbitrariamente una lingua); attraverso la soppressione di ogni filosofia della storia (le lingue non conoscono un progresso determinato da una fine), ecc. Ciò consente per la prima volta, conclude Lévi-Strauss, di pensare alle leggi nel campo della cultura come si parla di leggi nel campo della natura. Ebbene, ho cercato di mostrare come già nel Seicento il progetto grammaticale di Spinoza fosse molto vicino a quello. Per questo motivo, la fine della tesi affermava chiaramente che potevamo considerare Spinoza un precursore delle scienze umane così come le conosciamo dalla metà del Novecento in poi.

Più importante di questo, ovviamente, per me è stata la prospettiva che si apre per comprendere il lavoro di Spinoza sulla politica, le Scritture, le leggi e le istituzioni, ossia di tutto ciò che risulta dal lavoro umano sulla natura; poiché non può esserci rottura con la natura, il campo della cultura nello spinozismo ha come proprio il campo della natura lavorata dagli esseri umani.

S.F. -  Bene, abbiamo toccato tutti i punti che più ci interessavano. La ringraziamo moltissimo dell’intervista e del tempo che ci ha dedicato.

H. S. - Grazie a voi.

 

 


[1] Cfr. Spinoza, Etica, III, prop. XI, scolio.

[2] Cfr. Spinoza, Etica, III, prop. 57.

[3] Cfr. Spinoza, Etica, IV, Def. III-IV.

[4] Cfr. Spinoza, Trattato teologico-politico, cap. IV, § 1.

[5] Cfr. Spinoza, Trattato teologico-politico, Prefazione, § 5.

[6] Cfr. Spinoza, Etica, I, Appendice.

[7] Spinoza, Etica, IV, prop. I.

Mi chiamo Alessia Vanni e sono studentessa di filosofia presso l'università di Bologna. I miei interessi vertono su ontologia, fenomenologia, estetica, etica e filosofia politica. Sto approfondendo il rapporto fra Spinoza e Merleau-ponty per ciò che concerne temi come la filosofia del corpo e il concetto di passività

Margherita Bovo ha conseguito il diploma di maturità scientifica nel 2020 con il massimo dei voti e si è immatricolata al corso di laurea triennale in Filosofia nell’anno accademico 2020/2021. I suoi interessi vertono principalmente sull’influenza e le interpretazioni di Spinoza nel corso dell’Illuminismo, in particolare circa la questione dell’ateismo.