A cura di Giulia Zerbinati
Attilio Bruzzone, docente di Filosofia e Storia nei Licei, ha conseguito l’Abilitazione Scientifica Nazionale per la seconda fascia in Filosofia teoretica e in Storia della filosofia. È curatore e autore di volumi e saggi, in particolare sul pensiero tedesco di ispirazione marxiana. Dirige la collana «Contro l’attuale» presso l’editrice Ursæ Cœli (Milano). All’attività filosofica e didattica affianca quella musicale con i progetti port-royal e diamat, con cui ha pubblicato dieci album e cinque EP apprezzati a livello internazionale.
Attilio Bruzzone ha partecipato alla giornata di studi che si è tenuta il primo marzo 2024 all’Università di Bologna “Adorno&”, intervenendo con una relazione dal titolo “Adorno e Kracauer: dialettica, utopia, riscatto del materiale”. Questa è stata un’occasione per dialogare con lui sul denso e minuzioso lavoro che negli ultimi anni ha dedicato a Siegfried Kracauer e per rivolgergli qualche domanda a partire dal suo volume Siegfried Kracauer e il suo tempo (1903-1925), pubblicato per Mimesis nel 2020.
Segnalibri Filosofici – Siegfried Kracauer, come hai sottolineato in diverse occasioni, è «un autore noto, ma anche per questo, poco conosciuto», specie in ambito strettamente filosofico, dove il suo pensiero è stato non di rado messo in ombra da quello di altri pensatori a lui contemporanei. Come ti sei avvicinato alla sua figura e cosa ti ha incuriosito o colpito del suo percorso intellettuale, tanto da spingerti a dedicarvi uno studio così esteso e dettagliato che, per lo meno in Italia, rappresenta senza dubbio un unicum?
Attilio Bruzzone – Spesso gli eventi più significativi, tra cui potrebbe rientrare anche il mio incontro con Siegfried Kracauer, sono casuali: accadono senza un piano preciso o un’intenzione particolare. Così, mentre studiavo Adorno tanti anni fa, mi imbattei in un suo saggio dedicato all’amico Kracauer (Uno strano realista in Note per Letteratura) e rimasi piacevolmente sorpreso dalla figura di questo Grenzgänger culturale. Quel che più mi colpì fu, appunto, il suo essere un uomo dell’“interstizio”, un intellettuale “nomade”, un «apolide metafisico», per dirla con Cioran. E poi, almeno dal punto di vista filosofico, Kracauer era (ed è ancora oggi) un pensatore sottovalutato e poco studiato. Insomma, anche da morto, egli continua a lottare per il riconoscimento che gli spetta. Tutto ciò rappresentava, per me, un forte stimolo e una buona occasione per evitare i sentieri di ricerca più battuti e scontati. Occuparsi di Kracauer garantiva, infine, un punto di accesso privilegiato alla comprensione a tutto tondo (filosofica e biografica) di Adorno oltre che, più in generale, di alcuni snodi fondamentali della filosofia e della storia del Novecento.
SF – Come annunciano titolo e sottotitolo Siegfried Kracauer e il suo tempo (1903-1925). Il confronto con Marx, Simmel, Lukács, Bloch, Adorno, alle origini del pensiero critico, il tuo libro si propone di studiare insieme il pensatore Kracauer e il pensiero critico che, attraverso gli altri filosofi presi in considerazione, va formandosi intorno a lui nei primi decenni del Novecento. Non solo, quindi, Kracauer contestualmente al suo tempo, come se quest’ultimo fosse soltanto uno sfondo cronologico o un panorama culturale entro cui incasellarlo, ma Kracauer e il suo tempo analizzati attraverso la loro reciproca compenetrazione, come se si costruissero a vicenda e fornissero l’uno la fondamentale chiave di lettura dell’altro.
AB – Proprio così. D’altronde la “e”, che hai giustamente enfatizzato, è, per così dire, dialettica: cioè congiunzione iterativa che vale anche come copula. Dunque Kracauer e/è il suo tempo. Per rispondere alla domanda è necessario riprendere il discorso avviato sopra. Senza dubbio, in un ipotetico manuale di storia della filosofia, Siegfried Kracauer – se mai vi trovasse posto – sarebbe etichettato come un “autore minore”. La sua presunta “minorità” deriva dalla sua ibridazione, vale a dire dalla propensione, identica a quella del suo maestro Georg Simmel, alle contaminazioni interdisciplinari. Di qui l’extraterritorialità intellettuale che lo condannò a essere un outsider permanente, relegato ai margini delle grandi correnti filosofiche novecentesche. Ma, come dicevo, fu proprio questo aspetto, con il suo duplice impulso teoretico ed etico, a spingermi a studiare lo «strano realista» Kracauer. Questi, in quanto “autore minore”, rappresentava per me un punto di osservazione decisivo per la comprensione meno convenzionale della costellazione di cui, nel libro, ho tentato di offrire una articolata elaborazione teoretica e una accurata ricostruzione storica. In altre parole, sono partito dal testo kracaueriano per ricostruire il contesto storico-culturale del primo quarto del cosiddetto «secolo breve» e, a sua volta, il contesto ricomposto mi ha poi aiutato a illuminare il testo. Ma, come anticipato, si trattava anche di una questione, per così dire, morale. Quella, per la precisione, della solidarietà con i vinti, con chi è stato misconosciuto e attende, almeno ex post, una sorta di giustizia. Se la storia, come ritiene Burckhardt, è nostalgia di ciò che è scomparso, afflizione per le cause perse, il Geisteswissenschaftler, aggiunge/ingiunge Kracauer, deve scendere nell’Ade come Orfeo per riportare in vita i morti. L’ermeneutica filosofica è, infatti, una discesa agli inferi per ridare la parola ai morti e a chi si ama, ovvero agli autori di cui ci si occupa e con cui ci si immedesima. Lo studioso è, allora, un raccoglitore – o un collezionista, per usare un’immagine cara a Walter Benjamin – mosso dalla pietà per chi non c’è più e ligio alla prescrizione che niente vada perduto. Questa lotta intellettuale contro l’ingiustizia nelle sue molteplici declinazioni è, forse, il prolegomeno al marxiano «assalto al cielo». Ogni entretien infini con un autore del passato implica, del resto, l’arduo compito di mantenere attiva la propria appartenenza a due diverse dimensioni temporali: l’attualità e il passato in cui è collocato l’autore oggetto di studio. Sicché ogni interprete empatico è sé stesso ma anche l’autore con cui si intrattiene, quindi un uomo del presente e del passato. La difficoltà risiede nel fatto che, da un lato, non è mai possibile conciliare veramente l’essere sé stessi (il presente) e l’essere un altro (il passato), mentre, dall’altro lato, è imperativo mantenere la tensione costitutiva tra queste identità/epoche alternative evitando di ipostatizzare indebitamente l’una o l’altra. Lo studioso di tal fatta, quale cittadino “schizofrenico” di due mondi tra cui non può mai risolversi – appunto perché è un inbetweener che non appartiene completamente ad alcuno dei due mondi –, è uno straniero e il suo lavoro è irrimediabilmente segnato dal perenne vagare in una contrada al tempo stesso familiare e sconosciuta. Essa è, in fin dei conti, l’unico luogo che egli possa considerare come casa: la labile patria trascendentale dell’interstizio smarrito e ritrovato. Ecco, per concludere, credo che il marchio distintivo – la cicatrice ineliminabile – di ogni studio filosofico riuscito sia proprio questa non-appartenenza “ontologica” che, sola, consente di vivere due vite e di non attualizzare forzosamente – ossia non uccidere definitivamente – l’autore preso in esame. Solo in tal modo è possibile far percepire al lettore lo scarto irriducibile tra quei due mondi, rendendo onore, nel contempo, alla dinamica dei tempi storici e ai pensatori affrontati.
SF – Credi che la comprensione del percorso intellettuale di Kracauer sarebbe impossibile senza questo tipo di confronto e che quindi sia “la cosa stessa” a esigerlo?
AB – Sì. E, beninteso, non lo dico per dare un senso, post festum, allo sforzo non indifferente di aver scritto un volume di quasi mille pagine, ma perché penso che le cose stiano effettivamente così.
SF – La scelta di questa impostazione ti ha portato – e/o potrebbe portare il lettore – a rileggere anche le altre figure chiamate in causa da una nuova prospettiva, se non addirittura a reinterpretare alcuni punti nevralgici del loro pensiero alla luce del confronto condotto?
AB – Senza dubbio tale impostazione mi ha portato a fare ciò e, francamente, non mi dispiacerebbe se spingesse anche il lettore a seguire, con i suoi modi e i suoi tempi, questa strada tanto impervia quanto proficua.
SF – Ci sono altri nomi che potrebbero far parte di questa “costellazione” e, in questo caso, qual è stato il criterio per individuarli e prenderli in esame nella tua ricostruzione?
AB – Potenzialmente, lo sai bene, ci sono sempre altri nomi, poiché c’è sempre, quantomeno nel campo culturale, una sorta di ulteriorità, una catena pressoché infinita di possibili rimandi. Alcuni nomi, ad esempio, potrebbero essere, in ordine sparso, quelli di Walter Benjamin, Leo Löwenthal, Max Horkheimer, Oswald Spengler, Max Weber, Max Scheler, Franz Rosenzweig, Martin Buber, Margarete Susman. Tutti autori, questi, contemporanei di Kracauer, nonché incontrati e affrontati nel corso del libro. Quelli che, però, compaiono nel titolo (Marx, Simmel, Lukács, Bloch, Adorno), sono coloro che, a mio parere, hanno avuto il maggiore influsso, esplicito o implicito, su Kracauer e i rapporti più intensi, diretti o indiretti, con lui.
SF – Un altro aspetto che caratterizza il tuo lavoro su Kracauer e che personalmente ho molto apprezzato, in quanto credo che contribuisca a rendere più agevole la lettura di un libro così denso e – anche materialmente! – voluminoso, è la forte presenza dell’elemento biografico. Penso, ad esempio, all’esperienza personale e dolorosa dell’essere un “emarginato” o al ruolo determinante che per lo sviluppo del suo percorso intellettuale ha giocato la relazione amicale/amorosa con l’allievo Adorno, di cui ci hai parlato anche nel tuo intervento alla giornata di studi “Adorno&” (Bologna, 1° marzo 2024).
AB – Anche qui procediamo su un terreno minato. Da un lato, bisogna evitare di ridurre interamente l’opera di un pensatore al suo vissuto (come fa proprio Adorno con Kracauer), ma, dall’altro lato, non si può neppure prescindere completamente dalla dimensione biografica (come fa invece Heidegger con Nietzsche). Detto incidentalmente, non è forse casuale che, anche sotto tale aspetto, i due grandi avversari filosofici, Adorno e Heidegger, abbiano commesso un errore identico ma di segno opposto. Comunque, nel primo caso, si rischia di incorrere in giudizi riduttivi e “meccanicistici” per via della loro pretesa di voler risolvere automaticamente l’autore nel suo contesto biografico, mentre, nel secondo caso, incombe il pericolo di abbandonarsi a formulazioni astratte, aride e, soprattutto, indebite. Il perseguito equilibrio tra l’intento teoretico-concettuale e la ricostruzione storico-biografica non è altro, mutatis mutandis, che il problema storiografico della connessione, bilanciata, fra microstoria e (macro)storia. D’altronde, è sempre il continuum infinitesimale dei piccoli eventi a tessere e a produrre i grandi avvenimenti oggetto dei libri di storia. Perciò lo storico, come l’interprete filosofico, deve muoversi perennemente tra una dimensione microscopica (particolare) e una dimensione macroscopica (universale). Nondimeno, la biografia di un autore può essere, a un tempo, illuminante e fuorviante. Si deve, quindi, maneggiarla con cura come fosse dinamite, utilizzandola con discernimento. A mio avviso, come accennavo nella prima risposta, si tratta di mediare tra l’opera e la biografia, giacché sono entrambe essenziali per l’intelligenza a tutto tondo dell’autore analizzato. Nel libro, infatti, ho tentato di intrecciare dialetticamente vita e filosofia, evitando eccessi da una parte e dall’altra. Con questo, beninteso, non mi sono certo consacrato all’ideale aristotelico della «giusta misura»! Quel che mi interessava ottenere era, ed è, la Wechselwirkung tra particolare e universale, cioè l’universale concreto. In ultima istanza, è meglio precisarlo, il mio è un lavoro prettamente filosofico che, però, non disdegna (per usare un eufemismo!) le incursioni nel vissuto biografico, allorché sono (ritenute) essenziali per la comprensione dell’opera dell’autore.
SF – Puoi dirci qualcosa sul processo attraverso cui sei riuscito a ricostruire la vicenda biografica di Kracauer, portandone alla luce anche aspetti finora inediti, e a metterla in connessione con i suoi saggi e le sue opere?
AB – Negli anni successivi al 2004, avevo raccolto del materiale interessante presso il ‘Deutsches Literaturarchiv’ di Marbach am Neckar. Si trattava di materiale allora inedito, ottenibile solo tramite improponibili quanto provvidenziali fotocopie e dispendiose visite mirate. Oggi, con l’informatizzazione dilagante e le potenzialità pressoché infinite del web, è molto più facile accedere a informazioni, documenti e testi prima interdetti. Senza contare che, nel frattempo, è stata pure pubblicata una mole immensa di lettere. Mentre in passato, insomma, ci si lamentava giustamente per la penuria di materiale e per la difficoltà di accedervi, oggi vi è il rischio contrario di perdersi nel mare magnum dell’enorme disponibilità di dati di ogni genere. In questa sterminata quanto gradita cornucopia, ritengo che le lettere, se opportunamente interrogate e decifrate, siano la migliore fonte per ricostruire le vicende biografiche degli autori interessati, oltre a essere un favoloso ricettacolo di importanti riflessioni filosofiche (spesso, tra l’altro, inedite poiché non sviluppate ulteriormente o perché elaborate diversamente). Non per nulla, volendo portare un esempio paradigmatico, la cruciale svolta materialistica di Kracauer è delineata e annunciata proprio nel carteggio con Ernst Bloch della primavera/estate del 1926. Solo la lettura di quelle intense missive consente di comprendere la portata decisiva della stroncatura (materialistica) di Kracauer della (allora) nuova traduzione della Bibbia in tedesco per opera di Rosenzweig e Buber. Per non parlare poi della corrispondenza tra Kracauer e Adorno, che illumina la loro attività filosofica e mette in evidenza, a tratti, aspetti inquietanti della loro personalità.
SF – Il tuo volume prende in considerazione scritti e documenti mai pubblicati in Italia. Si può dire che il tuo studio, prima ancora che lettura del pensiero kracaueriano, sia un vero e proprio lavoro di confronto diretto con le fonti, di ricostruzione filologica, nonché di traduzione per rendere i testi accessibili al lettore italiano? In questo senso, credi che dover avere a che fare con materiali disponibili soltanto in originale abbia agevolato o complicato il tuo lavoro?
AB – In realtà, non penso vi sia un prima e un dopo, dacché la lettura del pensiero kracaueriano procedeva simultaneamente con il confronto diretto con le fonti. Credo, infatti, che le due dimensioni, filosofica e filologica, siano parimenti importanti e debbano compenetrarsi costantemente. Nel libro ho cercato, infatti, di mantenerle in un rapporto dialettico di azione reciproca, benché la filologia fosse al servizio della filosofia: philologia ancilla philosophiae, per riconiare un celebre adagio scolastico. Del resto, senza cura filologica non vi può essere seria interpretazione filosofica, ma la rinuncia alla filosofia (frequente sebbene sovente mascherata) si paga con lo smarrirsi in un vacuo filologismo fine a sé stesso. Passando all’altra domanda, l’avere avuto a che fare quasi esclusivamente con materiali disponibili soltanto in lingua originale ha, a un tempo, agevolato e complicato il mio lavoro. Agevolato, giacché mi muovevo con entusiasmo su un terreno quasi “vergine” (almeno nella misura in cui la letteratura secondaria in lingua italiana su Kracauer non è soverchiante, per usare ancora un eufemismo), dunque meno infestato da precomprensioni e sedimentazioni ermeneutiche fuorvianti. Ciò significava, in un certo senso, respirare ‘l’aria fresca dei monti’ e lavorare con più tranquillità, se così si può dire, sugli scritti primari. Lo stesso fattore ha, però, complicato il mio lavoro, poiché ho dovuto leggere e tradurre molti testi complessi e disponibili solamente in originale, per poi orientarmi quasi senza bussola in uno spazio decisamente più grande di quanto non sembrasse prima facie. D’altronde, mi si perdoni la breve digressione, è noto – ma forse, proprio perciò, non adeguatamente compreso – quanto sia estenuante e ingrato il lavoro del traduttore: inosservato se buono, massacrato se cattivo (e, spesso, quasi per principio), ma sempre utilizzato. Comunque un caso divertente quanto esemplare delle difficoltà appena descritte è quello dello slang francofortese impiegato da Kracauer e Adorno nelle loro “lettere d’amore” della prima metà degli anni Venti. Epistole, talora, imbarazzanti, eppure di grande importanza per la comprensione dell’evoluzione filosofica di «Friedel» e «Teddie» (i nomignoli intimi di Kracauer e Adorno). Il che mi ha spinto a renderne conto, senza filtri, al lettore. Riepilogando, si è di nuovo trattato di gettarsi a capofitto nel contesto per viverlo da fuori (in quanto uomo del presente) e da dentro (quale studioso del passato), cioè dalla mia prospettiva e da quella dell’autore. Il tutto con un occhio rivolto al futuro. Ma con questo ritorniamo al concetto, già sviluppato diffusamente sopra, dell’interprete come cittadino di due mondi/tempi, o come flâneur storico-culturale.
SF – Mi piacerebbe concludere con un’apertura sul futuro: il volume di cui abbiamo parlato costituisce, infatti, soltanto la prima parte del tuo progetto su Kracauer, in quanto prende in esame la fase iniziale del suo percorso intellettuale e si riferisce a un periodo di tempo ben definito, dal 1903 al 1925 (Kracauer nasce nel 1889 e muore nel 1966). Puoi anticiparci qualcosa sul seguito del tuo lavoro su questo autore?
AB – Volentieri. Anzitutto, il secondo volume concluderà l’analisi di Siegfried Kracauer e il suo tempo con lo studio del quarantennio che va dal 1925 al 1966 (il 1925 è il punto di incontro tra la prima e la seconda parte del convulso itinerario intellettuale di Kracauer). Per molti versi, questo periodo è ancora più ricco e interessante, sia filosoficamente sia storicamente, del precedente (1903-1925), quindi si preannuncia un lavoro piuttosto stimolante ma altrettanto difficile. La ragionevole speranza è di non dover gestire un libro così mastodontico come il primo! Ecco, comunque, alcuni aspetti importanti dell’opera matura di Kracauer che saranno affrontati: il rapporto con la fenomenologia husserliana, l’analisi sociologica del cinema inteso come medium in cui si svela e con cui si comprende la società, la ricerca pionieristica quanto illuminante sui ceti medi e la loro propensione ad abbandonarsi al mito, la genealogia e la psicologia del nazismo (sulla scorta delle analisi di Freud e Wilhelm Reich), la dialettica di massa e propaganda, nonché di ideologia e terrore, nei paesi totalitari (sono qui evidenti echi canettiani e arendtiani), l’idea del cinema come riscatto della realtà materiale, e, infine, la filosofia della storia come summa dell’opera e della personalità di Siegfried Kracauer. Poi, come sempre, sono quasi sicuro verrà fuori qualcosa di inaspettato che, al momento e al di là delle mie intenzioni, non può che restare opportunamente innominato
Giulia Zerbinati è dottoranda all’Università di Bologna. I suoi interessi sono rivolti principalmente al pensiero dialettico nella filosofia classica tedesca (Hegel) e nella teoria critica (Adorno). La sua ricerca attuale si svolge nell’ambito dell’estetica ed è incentrata sul legame fra dimensione esperienziale dell’estetico e modelli teoretici di dialettica. Collabora con la rivista “Studi di estetica”.