Intervista ad Andrea Sangiacomo

A cura di Giorgia Lugani e Giacomo Tore

Andrea Sangiacomo

è professore associato in filosofia (UHD2) all'università nederlandese di Groningen, oltre che Professor by special appointment (bijzonder hoogleraar) per la cattedra De actualiteit van Spinoza' all'Erasmus University di Rotterdam e direttore del Journal of Spinoza Studies. I suoi interessi spaziano dalla storia della filosofia alla storia della scienza nella prima modernità, con un occhio di riguardo per il dibattito cartesiano e per la filosofia di Spinoza. Inoltre è uno studioso attento del pensiero di Emanuele Severino, dell'ermeneutica e, fuori dai confini occidentali, del pensiero e della pratica buddhista antica (Pāli). Si ricordano tra le sue pubblicazioni, oltre l'edizione completa delle opere di Spinoza con testo a fronte (Bompiani, 2010), anche La Ragione della Parola. Religione, Ermeneutica e Linguaggio in Baruch Spinoza (Il prato, 2013); Essentia Actuosa. Riletture dell'Etica di Spinoza (Mimesis, 2016); Spinoza on Reason, Passions and the Supreme Good (OUP, 2019).

Segnalibri Filosofici – Come si è avvicinato a Spinoza? 

 

Andrea Sangiacomo – È successo per caso, come al solito. Il mio primo avvicinamento è stato quand’ero al secondo anno di università. Mi interessavo soprattutto di filosofia teoretica e stavo approfondendo in particolare il pensiero di Emanuele Severino, quando la mia insegnate del liceo, con cui ero in contatto e lo sono tutt’ora, mi suggerì di leggere Spinoza. Dopo qualche iniziale diffidenza iniziai a leggere il Trattato sull’emendazione dell’intelletto, e siccome all’epoca non circolavano edizioni italiane, e il testo era relativamente breve, decisi di tradurlo io stesso, come esercizio. Nel frattempo ho cominciato la magistrale, e ho provato a proporre questa mia traduzione alla Bompiani per la collana dei Testi a fronte, dato che Giovanni Reale insegnava all’università San Raffaele, dove mi ero iscritto per seguire le lezioni di Severino. La risposta di Reale fu più che positiva: mi propose di tradurre insieme tutte le opere di Spinoza. Progetto impegnativo a cui lo sventurato interlocutore rispose di sì. Patteggiammo sulle tempistiche e dopo 13 mesi, contro i 6 mesi prospettati all’inizio, il lavoro fu compiuto.

C’è voluto del tempo per comprendere cosa Spinoza dicesse, ed è per questo che il mio Spinoza è un po’ strano. Non sono partito dall’Etica o dal Trattato teologico-politico come tutti, le cui traduzioni erano già pubblicate da quest’editore e non richiedevano un intervento immediato, bensì dall’Epistolario dai Principi della filosofia di Cartesio, dal Trattato politico, e, appunto, dal Trattato sull’emendazione dell’intelletto. Devo dire un lavoro intrapreso con un enorme senso di inadeguatezza: ero al primo anno di magistrale e pur essendomi lanciato in quest’impresa sentivo di non saperne abbastanza; perciò, cominciai a leggere compulsivamente tutto quello che avevo a portata di mano, e non solo. Ricordo ancora le condizioni in cui tornai dai miei primi viaggi a Parigi: non potendo accedere ad alcun tipo di risorsa digitale mi riportavo dietro valigie stipate di volumi per acquisire più informazioni possibile, ed evitare di dire troppe castronerie sul tema. Poi ovviamente le castronerie le continuo a dire anche adesso, seppur con meno sindrome dell’impostore e più cognizione di causa, diciamo. Anche se mi sono fatto delle belle scorpacciate di traduzioni – Spinoza non è certo quell’autore che si può tradurre da zero –, mi sono poco a poco abituato al suo stile, e quello che ho approcciato all’inizio è stato lo Spinoza scrittore più che lo Spinoza filosofo, sviluppando un vero e proprio senso di familiarità con l’autore. Il mio latino era all’epoca scolastico e, pur facendo un testo a fronte, non eravamo provvisti di una base pulita: quindi ho dovuto battere a mano le epistole in latino per avere il testo.

 

S. F. – Ha poi trovato dei nessi con i suoi interessi di partenza, anche solo da un punto di vista teoretico? 

 

A. S. – Diciamo di sì, alla fine Spinoza ha giocato un ruolo fondamentale, perché ha scalzato le priorità che immaginavo per il mio percorso. Sebbene ritenga tutt’ora che Severino sia uno dei pensatori italiani della seconda metà del Novecento più importanti, da un punto di vista lavorativo non è molto vendibile, come dicono gli inglesi. Quindi spostarmi a lavorare per il dottorato su Spinoza mi ha aiutato. Dal punto di vista teoretico invece, Spinoza mi ha dato un problema su cui riflettere, cioè come conciliare l’eternalismo di una metafisica dell’essere, poi alla fine relativamente indeterminato, con il problema dell’individualità: cosa significa essere un individuo in un’ontologia dove tutto è eterno? Che senso ha distinguere un individuo dal resto, se tutto è sullo stesso piano e tutto è essere allo stesso modo? Quindi questi sono i temi con cui mi sono confrontato e Spinoza è diventato l’autore su cui mi sono impegnato di più. Ad un certo punto Severino l’ho messo da parte e mi sono focalizzato su Spinoza: ho provato a metterli insieme ad un certo punto ma sono esperimenti; magari nuove generazioni faranno di meglio.

 

S. F. – Quali ritiene che siano degli schemi tipicamente spinoziani per essere comparati a modelli precedenti o posteriori?

 

A. S. – Questa è una domanda interessante: probabilmente se avessi una risposta completamente convincente avrei vinto un Nobel. Quello che ho trovato utile è stato partire da problemi o da domande: più che partire da un’idea o una tesi solitamente associata ad un autore, cominciare da un certo tipo di problema che in qualche modo tutti gli esseri pensanti devono porsi, in maniera ineludibile. Poi questo viene declinato con categorie concettuali diverse, e lì una buona conoscenza della storia della filosofia e della storia delle idee è essenziale, perché pone delle sorte di vincoli su cosa si può fare e cosa non ha più senso, perché dissolve la rete semantica. Porsi delle domande come: qual è il rapporto fra conoscenza e azione? qual è la natura della conoscenza? che cosa significa esistere? Ecco, queste sono tutte domande che tanto Severino e Heidegger quanto Spinoza e Platone in qualche modo si sono posti, perché capivano il valore della domanda; su questa base è possibile un confronto. A volte nella ricerca storica si tende ad enfatizzare il fatto che, sviluppando orizzonti concettuali diversi, i filosofi finiscano per non riuscire a comunicare l’uno con l’altro. Tuttavia, secondo me, non è quello che accade di solito: di solito i filosofi capiscono quello che dicono gli altri, magari semplicemente non sono d’accordo.

La cosa interessante è che non tutti i filosofi fanno sistema: nel caso di un Severino e di uno Spinoza le cose sono più facili. Tuttavia mi pare sia lecito dire che anche in loro ci siano tensioni, e forse è proprio lavorando sulle tensioni degli autori che possiamo individuare incompatibilità concettuali che si creano in diversi contesti. È molto plausibile che diversi pensatori arrivino da diverse vie a stessi problemi, ma è vero anche che spesso rivelano tensioni e crepe nei loro concetti, cercando di nasconderle o di tenerle insieme. Farle vedere o mostrarle: questa potrebbe essere una via d’accesso molto interessante per una riflessione teoretica comparativista.

Io penso che ogni filosofo si muova su due livelli. Uno è quello dell’intuizione: per quanto si possa imparare tanto leggendo gli autori del passato e questo incontro possa essere foriero di nuove idee, alla fine ci sono delle intuizioni. Anche se è vero che persino queste cambiano col tempo, certe cose sembrano intuitivamente corrette e ci portano a sviluppare certi percorsi piuttosto che altri. D’ altra parte c’è sempre uno scarto tra l’intuizione e ciò che può essere giustificato razionalmente o argomentato: tendo sempre a vedere i filosofi come avvocati delle idee, impegnati a vincere il caso sia perseguendo l’intuizione sia la verità argomentativa. Arriva tuttavia un momento in cui questi aspetti si dissociano: vi è un’eccedenza in un senso o nell’altro, e abbiamo intuizioni ingiustificate o argomenti troppo forti, come spesso accade in Severino. Infatti arrivare a forzare l’argomentazione per pervenire ad una chiusura concettuale può portare a tradire la stessa intuizione di partenza. Tuttavia, scoprire queste tensioni e vene carsiche del pensiero è per me sempre molto affascinante. È interessante vedere anche il genere letterario in cui si è scelto di esporre la propria filosofia. Platone sceglie il genere drammatico dei dialoghi, in cui è facile rendere visibile, argomentando da diversi punti di vista e usando diversi personaggi, questa multi-valenza delle intuizioni, diciamo così. Il sistema di Spinoza è un sistema geometrico, una scommessa completamente diversa che auspica di essere didattica; però ci sono anche tanti altri generi. Questo è un po’ quello che si perde oggi, dove specialmente al Nord, nei paesi anglosassoni o limitrofi, c’è una certa standardizzazione su come si scrive. Siamo diventati degli scolastici: partiamo da una disputata quaestiopro e contra, e tutto deve stare in quella forma. È utile per molti aspetti, e senz’altro rende il discorso molto più chiaro; tuttavia la chiarezza può soffocare qualcos’altro. Non siamo più coinvolti e coinvolgenti come lo erano gli stessi autori che amiamo studiare.

 

S. F. – Dalla sua traduzione dell’Opera di Spinoza ha cambiato molto idea sulla visione generale del pensiero spinoziano?

 

A. S. – Più o meno. Anche il confronto ingenuo con l’ambiente internazionale, provare a balbettare le proprie idee a delle conferenze, vedere le facce degli interlocutori e avere un feed back; ecco, questo aiuta molto ad aggiustare il tiro. In fondo la filosofia è un lavoro collettivo, quindi in quel senso l’accademia è nata per questo, offrire un confronto come univeritas: offrire il lato buono e bello della comunità di ricerca.

Il confronto lo trovo utile proprio nei casi in cui non sono particolarmente d’accordo. In qualche modo questo incontro-scontro rafforza anche le idee che ognuno ha. Anche mia madre mi chiede spesso cosa studio, e pur tentando di fare il mio discorso articolato, lei puntualmente aspetta pazientemente fino alla fine e mi dice: «a che serve?». E lì, per quanto uno si voglia arrampicare sugli specchi, l’unica risposta soddisfacente è: «serve perché è bello». Quella mia madre la capisce. In qualche modo si riporta l’esperienza dello studio a un’esperienza personale più facilmente condivisibile anche con i non addetti ai lavori. Un altro criterio utile per capire se la direzione è quella giusta è vedere se quella filosofia possa avere ripercussioni pratiche. Se le ha, basarsi su quell’applicazione, senza chiedersi se l’autore volesse effettivamente arrivare a teorizzarla davvero oppure no. Il limite che io vedo spesso nel discorso filosofico dell’accademia è che rimane un gioco semantico: una manipolazione di concetti basata su regole grammaticali e socio-culturali. Il rischio è di arrivare ad un gioco parzialmente solipsistico. Posso verificare se quest’interpretazione è foriera di conferme tramite un criterio che esula da quel gioco autoreferenziale. In alcuni casi, se per esempio si parla delle categorie metafisiche di Suarez, è difficile ritrovare un risvolto etico o politico; con Spinoza invece c’è sempre un risvolto etico a partire da premesse metafisiche. 

Secondo me, l’autorità in filosofia è come quella che c’è nella musica. Quando si impara a fare qualcosa bisogna seguire dei modelli, perché si ha bisogno di un punto di riferimento per cominciare: tutti i grandi musicisti hanno poi superato le regole, dopo averle prima imparate perfettamente. Se non le si impara non si possono infrangere mai. Allo stesso modo è il rapporto fra linguaggio e poesia: Pessoa cercava di scrivere senza grammatica, però, in quanto grande poeta, ha fatto quell’esperimento dopo aver imparato la grammatica per bene. 

 

S. F. – Per concludere, ci dica qualcosa sui suoi interessi del momento. C’è stata una variazione o una continuità rispetto ai suoi esordi?

 

A. S. – Io ho fatto una parabola particolare: sono partito da Spinoza, mi sono allargato ad altri esponenti della modernità, soprattutto attorno al tema della causalità e a quello della rivoluzione scientifica, per poi arrivare, per motivi totalmente contingenti, all’India. Negli ultimi tempi ho fatto un percorso sul pensiero e sulla pratica buddhista (Pāli), ma sto pensando di tornare al punto di partenza – Spinoza e Severino – dopo aver fatto questo lungo detour, anche se tutt’ora non vedo chiaro il punto d’arrivo. So solo che ad un certo punto ho sentito il bisogna dedicarmi a qualcosa di totalmente diverso. Tuttavia è interessante: ogni cosa che si aggiunge non solo allarga le proprie prospettive ma fa interagire in maniera nuova gli elementi che si aggiungono sul tavolo. Ovviamente c’è una forte tendenza eurocentrica nel nostro modo, tutto occidentale, di far filosofia; perciò, ampliare i propri orizzonti così aiuta. Qualche volta perché si trovano stessi problemi, pur dopo tanti chilometri alle spalle; a volte perché danno effettivamente nuove prospettive e nuovi problemi che ci sono sconosciuti.

Vi posso fare uno scoop: il mio prossimo libro su Spinoza, se mai avrò tempo di scriverlo, sarà sul misticismo, però visto da una prospettiva non occidentale. La mia intuizione è che in realtà nel pensiero indiano non ci siano le categorie per incasellare tale filosofia secondo gli attributi della mistica tradizionale occidentale; quindi si dovrebbe arrivare alla conclusione che in realtà Spinoza misticheggia e gli indiani pensano! Nel senso che Spinoza non la articola esplicitamente come una forma di misticismo, sebbene con altre categorie la filosofia spinoziana si sviluppi come una forma sui generisdi mistica. Detta in soldoni: il misticismo solitamente si basa sull’idea di un principio buono unificante, e chiaramente Spinoza non vuole fare questo; tuttavia l’idea che vi sia una sorta di auto-riconoscimento di Dio nel modo, è un pensiero di una certa corrente di mistica indiana che ha come scopo la riscoperta del principio vuoto nelle cose. Spinozianamente, una continuità fra l’Assoluto e l’immanente. Ed è un tema non molto originale al di là dell’Eufrate: Spinoza diventa improvvisamente uno di tanti.

Mi chiamo Giorgia Lugani. Sono una studentessa della Laurea Magistrale in Scienze Filosofiche. Mi sono laureata in Storia della Filosofia Antica (relatrice Carlotta Capuccino) con una tesi sul problema della Corporeità e del Sensibile in Platone. I miei interessi attuali riguardano sopratutto il discorso ontologico e antropologico nel pensiero greco e la ricezione dei classici in età moderna e contemporanea.

Mi chiamo Giacomo Tore e frequento il terzo anno del corso di laurea triennale in filosofia qui all’università di Bologna. Al momento mi laureo sotto la guida della professoressa Elisabetta Scapparone sul problema del linguaggio in Spinoza, con attenzione per la posizione filosofica dell'autore sul linguaggio e il modo in cui essa interagisca con le tecniche espositive della sua stessa filosofia.