A cura di Jacopo Bénchaz, Alessia Masso e Francesca Salvagnini
Vinicio Busacchi è Professore di Filosofia presso il Dipartimento di Pedagogia, Psicologia e Filosofia dell'Università di Cagliari e membro del Collegio dei Dottorati in Discipline Filosofiche della stessa università. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: Ricœur vs. Freud (2011); Pour une herméneutique critique (2013); Philosophy & Human Revolution (2018).
Segnalibri Filosofici: Per cominciare, vorremmo chiederle, a proposito dei temi principali della sua ricerca, ossia l’ermeneutica filosofica e, in particolare, l’ermeneutica di Ricoeur, qual è oggi, in un periodo in cui altri modelli hanno forse maggiore successo, l’attualità dell’ermeneutica filosofica nelle sue varie declinazioni e quale può essere ancora il contributo del pensiero di Ricoeur a questa disciplina.
Vinicio Busacchi: La mia ricerca è iniziata per un interesse che non riguardava né l’ermeneutica né Ricoeur ma la psicanalisi, che veniva e viene ancora praticata al fine della cura e che pretende di avere un fondamento di scientificità che la giustifichi non solo come processo terapeutico ma anche come scienza della mente, quindi come un certo intendimento della vita psichica. In partenza, dunque, quello che mi ha interessato è stato il problema dello statuto epistemologico della psicanalisi, cioè la sua legittimazione come teoria sull’uomo, come insieme dottrinale su una prassi terapeutica e, di conseguenza, come terapia. Queste tre dimensioni mi hanno interessato e preoccupato dall’inizio e poi, in prospettiva, la ricerca si è aperta sul problema generale dello statuto delle scienze umane e sociali, quindi se, e in che misura, la problematica che si riscontrava in psicanalisi si potesse rintracciare anche in sociologia, in antropologia e via discorrendo.
Da qui è nata un’attenzione progressiva per l’ermeneutica e la mia reazione, studiando anzitutto Habermas prima che Ricoeur, è stata di grande delusione. Io avevo iniziato i miei studi con le opere di Freud, cioè mi ero appassionato alla letteratura psicanalitica di Freud e intorno a Freud, e solo poi avevo iniziato a trattare Habermas e a primo impatto l’ho criticato duramente perché la sua interpretazione della [aggiunta nostra] psicanalisi mi pareva un modello di razionalizzazione razionalizzante e quindi una banalizzazione del problema del rigore del metodo ma anche della scientificità del procedimento, cioè della grande scommessa che metteva in campo Freud: fondare in modo scientifico la psicanalisi tenendo conto della dimensione biologica, dei meccanismi della vita psichica e via discorrendo. Dopodiché sono passato per alcuni psicanalisti di tradizione ermeneutica (tra cui H. R. Schaffer e H. Spencer) che mi hanno spaventato ancora di più, perché con loro pareva che bastasse solo persuadere, che le pratiche retorico-persuasive fossero sufficienti ad aiutare il paziente a migliorare la sua condizione. Ricoeur, invece, presentava un discorso sulla psicanalisi più sofisticato ma comunque tendente, a mio avviso, a ridurla in termini di ermeneutica. Solo in seguito, il suo approfondimento mi ha aiutato a vedere che la sua teorizzazione ermeneutica mirava a promuovere non tanto l’ermeneutica come disciplina filosofica leader, ma un itinerario tra fenomenologia ed ermeneutica che poteva effettivamente essere fatto valere senza Ricoeur. In altre parole, ho compreso che dalla fenomenologia ermeneutica e critica si poteva estrarre un modello procedurale senza tenere conto degli sviluppi interni del pensiero Ricoeur e applicarlo come dimensione metateorica, cioè come procedimento per raccordare i saperi.
Nell’epoca della frammentazione dei saperi scientifici, in cui le scienze non dialogano più e non si genera più un sapere di sintesi, ho trovato in Ricoeur un esempio di una teoria che lega discorsi descrittivi-analitici costruiti su una teorizzazione causale con discorsi ermeneutici-interpretativi costruiti su una teorizzazione motivazionale capace di far lavorare i saperi tra di loro. Oggi l’ermeneutica è ancora valida proprio in questo senso e, del resto, mi pare che la filosofia in generale non sia destinata a sopravvivere se si nutre solo di se stessa, ossia se lavora sempre solo su Platone oppure sempre solo Kant e Hegel. Credo che oggi ci sia bisogno che la filosofia si impegni a lavorare con e per le scienze ma senza imitarle. Purtroppo, c’è anche molta “cattiva” ermeneutica: per esempio una certa ermeneutica “predicatoria”, ermeneutica che si innesta su tradizioni filosofiche che oggi dominano come mode del postmoderno o tradizioni dell’ermeneutica che sono più legate alla seduzione argomentativa, intellettuale, estetica, e che usano la filosofia in modi meno rigorosi e con fini persuasivi. A mio parere, invece, un buon uso dell’ermeneutica oggi è quello che permette di mettere in relazione gli esiti conoscitivi dei saperi scientifici per capire cosa comportano determinate scoperte, per esempio a livello di funzioni neurali e cognitive, ossia un uso dell’ermeneutica per la mediazione e la sintesi teoriche.
Un altro terreno fertile per l’ermeneutica oggi è quello giuridico, in cui si pone il problema dell’interpretazione delle norme, che non interessa solo l’ermeneutica tecnica, ma soprattutto l’ermeneutica filosofica Eppure, l’italiano Emilio Betti, il più grande romanista del Novecento, l’unico che abbia scritto una teoria generale dell’interpretazione, in Italia non è più praticamente letto: come mai si ignora il suo lavoro mentre i giuristi continuano a dibattere sull’interpretazione delle norme in un momento in cui, tra l’altro, si va sempre più verso l’internazionalizzazione a cui si accompagnano conflitti tra modelli normativi di culture diverse e conflitti nell’interpretazione delle norme internazionali? Quindi nell’ambito giuridico il problema ermeneutico è fertilissimo ed è in parte disconosciuto.
Un terzo campo in cui, secondo me, l’ermeneutica è più che viva è l’ermeneutica critica: per questo motivo un gruppo di studiosi, di cui faccio parte, legati alle ricerche in campo ermeneutico vicine alla scienza ma anche alle questioni pratiche, ha fondato la rivista «Critical Hermeneutics» mirando proprio a far lavorare l'ermeneutica in modo critico, cioè senza seguire l’idea che non ci sono fatti, ma solo interpretazioni. Un campo di grande attualità per questo approccio è quello degli studi teologici, dove in questo momento infuria la tempesta non solo perché c’è una divisione all’interno della Chiesa ma anche perché si stanno affacciando nuovi modelli di interpretazione dei testi sacri, come quelli della cosiddetta post-teologia, che sono difficili da accettare dal punto di vista della loro scientificità. I post-teologi abbandonano le ricerche della teologia tradizionale che concepisce il testo sacro come testo della rivelazione da interpretare per estrarne il significato suscettibile di essere adattato alle esigenze del tempo e vanno alla ricerca di modelli filosofici che aiutino a leggere in maniera appropriata le concezioni filosofiche di fondo dei testi sacri. Così Spinoza avrebbe detto tutto, deus sive natura; così Hegel sarebbe il più grande autore di teologia di tutti i tempi, perché avrebbe introdotto la teologia allo stato puro. Per questo motivo io vedo nell’ambito teologico un grande problema ma anche una grande opportunità, in primo luogo perché il Novecento è stato marcato dal lavoro dell’ermeneutica teologica (si pensi a Bultmann o a Barth) e, in secondo luogo, perché oggi si sta producendo un modo distorto di applicare l’interpretazione che va anche a danno della filosofia: dire, per esempio, che la dialettica hegeliana rientra nel movimento della trinità, cioè che in fondo nella Fenomenologia dello spirito lo spirito assoluto non sarebbe altro che il modo in cui dio pensa, è una maniera strumentale di deformare la concezione hegeliana e di rovinare la ricerca teologica. Qui deve intervenire l’ermeneutica critica, per esempio per ridimensionare l’uso di Spinoza tenendo conto del suo dibattito con Jacobi che fece ben comprendere che la nozione spinoziana di sostanza non faceva saltare affatto la nozione teologica di persona. Questi nuovi teologi dovrebbero andare a leggersi questi testi se vogliono utilizzare la filosofia in una maniera appropriata.
Per ricapitolare, oggi l’ermeneutica filosofica ha un doppio volto: da una parte c’è l’ermeneutica critica, che lavora con le scienze e per le scienze, che con il suo esercizio critico imbriglia la libertà dell’interpretare, dall’altra parte c’è una seduzione nei confronti della libera interpretazione per cui un concetto che piace diventa una chiave per leggere tutto. Questo lo si vede nella giurisprudenza, che è in disperata ricerca di un’ermeneutica normativa anche se ha un “gigante” che neanche studia più, e nella teologia che ha tanta tradizione che non legge più perché questa è l’epoca della post-teologia. Siamo in un contesto un po’ schizofrenico. Cito la giurisprudenza e la teologia come due cardini fondamentali dell’ermeneutica perché, come dichiarò lo stesso Gadamer, la pregnanza contemporanea dell’ermeneutica filosofica ha il suo radicamento proprio in queste due discipline fondamentali.
SF: Grazie, ci ha dato una risposta molto esaustiva. Lei ha detto che il metodo ermeneutico di Ricoeur può essere generalizzato e applicato ad altri ambiti. Ci sono anche dei “ricoeuriani” che sono ancora attuali per chi si occupa di ermeneutica critica?
VB: Senz’altro trovo molto fertile l’utilizzo del modello ricoeuriano rispetto al tema del riconoscimento: oggi continua a mancare una teoria generale del riconoscimento e la riflessione di Ricoeur contribuirebbe molto a costruirla. Ma perché è utile farlo? Perché il tema del riconoscimento è un tema trasversale nei saperi. Al di là di alcuni riferimenti specifici nella tradizione filosofica, come la dialettica servo-padrone hegeliana, il riconoscimento è un tema centrale nel dibattito contemporaneo della filosofia politica. Dobbiamo al canadese Taylor l’introduzione nella metà degli anni ‘90 del riconoscimento come categoria centrale della riflessione filosofico-politica attuale, e non a caso, perché proprio il Canada è il terreno delle differenze etniche e della lotta per il riconoscimento. Taylor mette a fuoco non solo come il riconoscimento sia una esigenza costitutiva dell’uomo, ma anche come proprio le lotte per il riconoscimento stiano diventando una nuova forma della democrazia: oggi la partecipazione alla vita pubblica non riproduce più il modello greco-latino, (in cui ci sono i miei diritti e i miei doveri e c’è la coabitazione) perché ci sono delle minoranze che si scontrano contro la maggioranza o altre minoranze che lottano per affermare i propri diritti. La lotta per il riconoscimento è diventata la categoria della partecipazione democratica: movimenti ambientalisti, movimenti dei diritti civili, tra un po’ avremo anche un movimento per il riconoscimento dei robot come personalità giuridiche e via discorrendo. Quindi il tema del riconoscimento è una grande questione e, secondo me, indagarlo attraverso Ricoeur può avere una sua valenza perché i suoi tre studi in Percorsi del riconoscimento sono solo uno schizzo, un’opera geniale della vecchiaia ma assolutamente non compiuta.
Un altro fronte in cui la riflessione di Ricoeur può essere feconda è il tema della responsabilità, su cui però sono più competenti gli esperti di materie etico-pratiche che non quelli di ermeneutica. La questione è come possa entrare la tematica dell’imputabilità in un’idea di essere umano che si realizza attraverso l’atto responsabile, cioè la questione della promessa intesa come il mantenimento del proprio impegno e anche della propria persona nel tempo: io prometto e mi mantengo in questa coerenza e vivo in questa esperienza di tenuta che in qualche modo suggella il mio esser persona, il mio esser riconoscibile.
Infine, ancora, secondo me, l’ermeneutica ricoeuriana può servire nel campo della conoscenza storica, che non è né Philosophy of history (anche se in parte lo è) né storiografia. Rispetto a ciò in Italia c’è ancora una contraddizione enorme. Da una parte abbiamo degli storiografi, come per esempio Carlo Ginzburg, che si occupano anche di questioni di metodo ma che non leggono i filosofi, e dall’altra ci sono filosofi che non leggono gli storici. Ricoeur invece mostra come si può fare ricerca teorica anche lavorando sulla conoscenza storica e, secondo me, questo è un mondo tutto da esplorare perché nessuno oggi fa filosofia della storia in Italia in maniera così aperta e così sistematica leggendo gli storici.
SF: Vorremmo approfondire adesso ulteriormente il rapporto tra ermeneutica e psicanalisi: oltre all’interpretazione di cui abbiamo già parlato, quali altri punti di contatto tra queste discipline sono, secondo lei, più fecondi?
VB: Preciserei innanzitutto che, sebbene sia vero che l’interesse dell’ermeneutica per la psicanalisi nasca a partire dall’attenzione di quest’ultima per l’interpretazione, è vero pure che Freud successivamente la abbandona, usando invece il concetto di costruzione. Nella psicanalisi si osserva dunque un’evoluzione dal paradigma interpretativo al paradigma narrativo. Al giorno d’oggi le teorie narrative dell’identità trovano molteplici applicazioni nell’ambito terapeutico. Si considerino ad esempio quelle ricerche che lavorano sulla finta rappresentazione di sé: è il caso di tutti coloro che rinunciano alla vita reale rifugiandosi dietro lo schermo, costruendosi un avatar, il quale costituisce una rappresentazione e dunque una narrazione di sé. Costoro fondano i propri rapporti con gli altri su tale narrativa e attuano, nel contempo, una dialettica di estraneazione dal mondo esterno: è il caso di chi sta in casa in ciabatte mentre nel mondo virtuale è un coraggioso Superman. In tale contesto di isolamento sociale o dentro dinamiche problematiche, si osserva talvolta una simbolizzazione, un’attribuzione di significati al vivente che è in casa: l’animale domestico diviene la figura affettiva assente e su di esso si riversano pertanto quei bisogni che ovviamente lo schermo non appaga. Inoltre, i social di per sé generano forme di appagamento della domanda di riconoscimento di esistenza che non sono sufficienti o che attivano dei meccanismi non proprio salutari. Ecco, su tutto questo filone si può pertanto osservare un passaggio da un paradigma interpretativo ad un paradigma narrativo: la psicanalisi sta lavorando su questo e ritengo che l’ermeneutica possa dare un notevole contributo.
In secondo luogo, posto che oggi non ritengo più appropriato parlare di dialettica tra ermeneutica e psicanalisi, in quanto vige un rapporto a tutto tondo tra ermeneutica e psicoterapia, abbiamo nuovi modelli psicoterapici dove sia l’interpretazione che la narrazione svolgono un ruolo centrale: è il caso dello psicodramma, in cui si mette in scena il vissuto in una forma tale che abbia un’efficacia terapeutica. La messa in scena ha una matrice che richiama una lunga tradizione psicanalitica – più junghiana che freudiana, si pensi a Le storie che curano di Hillman – ma anche non psicanalitica, come le terapie della relazione o della messa in scena che vedono nel narrativo un fattore centrale. Tutto corre verso il riconoscimento della dimensione narrativa e verso l’interpretazione della narrazione: le messe in scena non sono veicoli di senso ma possono strutturare degli scenari abitabili sperimentalmente che generano delle situazioni valevoli anche sul piano mutativo. Date le loro condizioni patologiche, le persone possono scegliere di recitare una parte senza sapere quali conseguenze tale scelta avrà rispetto al senso del proprio vissuto. La messa in scena, se la terapia è ben condotta, consente di tirare fuori problemi di varia natura che assumono significatività e che trasformano il senso del ruolo che si sta interpretando. Poniamo il caso di una persona affetta da una patologia per cui nella situazione terapeutica trasmette sempre il messaggio di essere la vittima: il fatto di assumere il ruolo del carnefice nella messa in scena terapeutica attiva delle implicazioni. Se all’inizio la persona metterà in scena qualcosa “che non ha senso”, nel farlo s’ingenerano una serie di conseguenze che diventano significative in una forma diversa rispetto al punto iniziale. Ritengo che questo sia un altro luogo dove lo sforzo ermeneutico possa apportare un grande contributo.
SF: Per concludere, vorremmo tornare sul tema del riconoscimento a partire però da quello dell’intersoggettività che è molto presente nella filosofia contemporanea. Rispetto ad altre prospettive, come quella husserliana o quella levinassiana, qual è il contributo originale dell’ermeneutica nel dibattito sull’intersoggettività, sia da un punto di vista teorico sia da un punto di vista etico-politico?
VB: Questa è una tematica enorme. L’attenzione dell’ermeneutica per l’intersoggettività è una caratteristica dell’ermeneutica novecentesca, anche se nella tradizione precedente sono senz’altro già presenti degli elementi interessanti. Per esempio, in non pochi casi si paragona la relazione all’altro come una relazione all’alterità che si dà nella lettura del testo e ciò è già presente in Schleiermacher. Quando dice che si può arrivare a comprendere un testo meglio di quanto faccia il suo stesso autore, Schleiermacher sottende l’idea che l’interpretazione del testo implica una dialettica con l’autore del testo, di cui si può tenere conto oppure no. Schleiermacher presenta una visione rivoluzionaria, ma la tradizione ermeneutica ha tenuto conto del problema dell’interpretazione soprattutto in questo senso: come si interpreta un testo? Il senso è contenuto nel testo o è quello che l’autore voleva dire e quindi comprendo un testo nella misura in cui approfondisco il rapporto con l’autore, con la sua collocazione nel tempo, e così via? La tradizione contemporanea si è evoluta ulteriormente. Ricoeur introduce il concetto di “mondo del testo” per cui il testo è una terzietà: quando viene pubblicata, un’opera non appartiene più all’autore, ma appartiene al mondo e il mondo si apre come prospettiva per il lettore in funzione della dialettica che s'instaura tra il soggetto e il testo. Contemporaneamente il testo veicola tutto un mondo che rivela il nostro carattere culturale. Ciascuno di noi capisce Romeo e Giulietta senza bisogno di sapere com’era il teatro del Seicento o che cosa ha spinto Shakespeare a scrivere quell’opera; la capiamo soltanto attraverso un’esperienza diretta della lezione che è contenuta nel testo. Il rapporto con l’altro non è quello con il testo in quanto tale, ma quello con la nostra umanità, che il testo veicola e che è già una dialettica dell’intersoggettività, della relazionalità.
L'ulteriore contributo che l’ermeneutica ha dato al discorso novecentesco sull’intersoggettività è collegato al tema del riconoscimento. L’eccezione che brilla è quella habermasiana e dei modelli che si possono ricondurre a quello habermasiano. La mira del modello habermasiano non è il mutuo riconoscimento, come per Ricoeur. È vero che nell’Habermas maturo si trova la nozione di intesa razionale dei parlanti e che la teoria dell’agire comunicativo di fondo implica e promuove il riconoscimento. Però è vero anche che il punto di partenza di Habermas è un approccio alla filosofia che mira all’emancipazione e che sottintende un’idea dell’intersoggettività che ha una valenza non semplicemente etica, ma politico-esistenziale, cioè l’emancipazione della persona che partecipa alla vita sociale, secondo la lezione che veniva dalla tradizione francofortese. Habermas fa vedere come un’ermeneutica dell’intersoggettività possa avere non semplicemente il carattere di un esercizio interpretativo, ma anche quello di un impegno all’emancipazione, di tipo politico e non solo etico. Questa è sicuramente una forza ancora viva dell’ermeneutica.
SF: La prospettiva di Ricoeur sull’intersoggettività, che insiste invece molto sul mutuo riconoscimento, non potrebbe avere anch’essa delle implicazioni politiche?
VB: Ricoeur abbandonò il mondo politico tra gli anni ‘80 e gli anni ’90 e si diede all’impegno civico perché fu disgustato dalle modalità comunicative e dalla falsità della politica e anche dalla sua razionalità. Fu membro di Amnesty International, si impegnò per i sans-papiers, ma abbandonò nel suo campo di interesse attivo e diretto il discorso politico. È chiaro però che la sua ricerca sul riconoscimento ha una valenza di tipo politico. Oggi serve una teoria generale del riconoscimento e, secondo me, bisogna partire non da Hegel, ma da Taylor, dal tema del multiculturalismo, perché in futuro le società saranno multiculturali. Anche se stiamo attraversando un momento di chiusura nazionalistica, tutto si muove in questa direzione. Da questo punto di vista, Ricoeur ha visto le cose in modo chiaro ragionando sull’Europa, su quelli che sono, secondo lui, i suoi due caratteri costitutivi: la storia dell’Europa, dall’antichità ad oggi, è una lunga storia di conflitti e di movimenti di popoli nelle sue terre. Questa è la ragione per cui non riusciamo a creare gli Stati Uniti d’Europa, malgrado tutti questi staterelli piccoli e frammentari. Ma il destino, oltre che l’ethos europeo, è il multiculturalismo, la scommessa politica è evolvere oltre le differenze nate dai conflitti, l’attaccamento all’identità locale, per abbracciare una visione multiculturale che si dà non solo nell’abbandono dell’io nazionalistico, ma soprattutto nell’apertura multiculturalista, che la pratica del riconoscimento dà. Ma in quale forma? Non la lotta per il riconoscimento, perché i nostri sono stati democratici, ma la pratica del dono, cioè gli scambi culturali, l’incontro delle culture e dei popoli.
SF: Si può dire, quindi, che i contributi maggiori dell’ermeneutica al dibattito sul riconoscimento vengono da Taylor e Ricoeur, ma anche da Habermas, perché non si può rinunciare all’elemento dell’emancipazione?
VB: Certo, tutti e tre sono importanti, ma il discorso è molto complesso. Innanzitutto, a rigore, Habermas non è collocabile nell’ermeneutica, anche se c’è un uso interessante dell’ermeneutica da parte sua, soprattutto nelle opere giovanili. Personalmente però lavorerei soprattutto sul multiculturalismo e sul riconoscimento nell’Habermas della maturità. L’asse della teoria dell’agire comunicativo di Habermas è certamente la lotta della vita contro il sistema, cioè la razionalizzazione e la burocratizzazione, questi sono i veri problemi rispetto alla vita, alla spinta a liberarsi e a realizzarsi, questa è l’autentica dialettica. È però anche vero che in altri contesti Habermas mette al centro la fragilità ontologica dell’umano e sostiene che noi siamo costitutivamente dipendenti l’uno dall’altro. In Habermas, quindi, c’è spazio per il riconoscimento: la scommessa fondamentale per realizzarsi non è semplicemente respingere le spinte normalizzanti e totalitarie dei sistemi in cui le regole bloccano la libertà e la vita, ma anche divenire consapevoli che il mutuo sostegno è fondamentale. In Habermas c’è una componente di vitalismo e di umanismo che lo accostano per tanti versi ad altri filosofi.
Jacopo Béchaz, valdostano, è iscritto alla laurea magistrale in Scienze filosofiche all'Università di Bologna. Si interessa principalmente di filosofia contemporanea francese, con particolare riferimento alla tradizione fenomenologica (Merleau-Ponty e Ricoeur), di estetica (soprattutto rispetto all'opera di Paul Valéry) e di filosofia dell'immagine e dell’immaginazione. È tirocinante presso la rivista Discipline Filosofiche.
Alessia Masso frequenta la laurea magistrale in Scienze Filosofiche all’Università di Bologna. In triennale si è laureata con una tesi sull’analisi fenomenologica del corpo di Merleau-Ponty (relatore: prof. Luca Guidetti). Attualmente i suoi interessi di ricerca riguardano il pensiero contemporaneo francese e si concentrano in particolare sulla fenomenologia, lo strutturalismo, la psicoanalisi (principalmente le opere di Deleuze) e la filosofia della storia. È stata tirocinante presso Discipline Filosofiche.
Francesca Salvagnini studia Scienze Filosofiche all'Università di Bologna ed è diplomata in Pianoforte presso il Conservatorio A. Steffani. I suoi interessi spaziano dall'estetica orientale e occidentale, alla filosofia contemporanea con particolare attenzione al dialogo interculturale ed interdisciplinare. È tirocinante presso la rivista Discipline Filosofiche.