Intervista a Silvia Federici

A cura di Giulia Muccioli e Paola Pia Santoro

Una delle esponenti più significative del femminismo di tradizione marxista, Silvia Federici é una filosofa e attivista italiana naturalizzata statunitense. I suoi studi sul lavoro riproduttivo la portano negli anni ‘70 a essere una delle massime promotrici della campagna per un salario per il lavoro domestico. Tre le sue opere più significative si citano: Il grande Calibano. Storia del corpo sociale ribelle nella prima fase del capitale (1984); Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria (2004); Revolution at Point Zero. Housework, reproduction, and feminist struggle (2012; trad. it. 2012); Reincantare il mondo. Femminismo e politica dei “commons”, 2018; Genere e capitale. Per una rilettura femminista di Marx (2020).

Ringraziamo Silvia Federici per l’opportunità e la disponibilità che ci ha dato per porle delle domande sugli importanti sviluppi teorici che recentemente ha impartito alla sua prospettiva. Di questa, intendiamo sottolineare soprattutto l’analisi della caccia alle streghe e la questione della maternità, da indagare alla luce della svolta neoliberale e neocoloniale registrata negli ultimi anni e che sembra portare a compiuta maturità il capitalismo contemporaneo. Nell’impossibilità di restituire il vitale contributo teorico che Federici ha dato alla lotta femminista nella sua totalità e complessità, si è tentato, tramite queste domande, di individuare delle possibili piste di ripensamento – e soprattutto d’azione – che la sua prospettiva ci offre in risposta alle sfide della contemporaneità e della sua narrativa, in cui emergono nuovi soggetti dello sfruttamento che non possono essere compresi dalla tradizionale e superficiale narrativa binaria e patriarcale, rea di offuscare i veri rapporti di forza e dominio che alimentano il sistema stesso.

Segnalibri Filosofici – Le pagine sulla caccia alle streghe nei libri di storia restano purtroppo ancora vincolate a una narrazione avulsa dal contesto socioeconomico in cui queste si sono verificate, con il conseguente affermarsi, nell’immaginario comune, dell’idea di un periodo buio che raggiunge il suo culmine con l’immagine suggestiva e terrificante del rogo. Allo stesso modo trovo che la narrazione storica non si soffermi sull’imposizione di un sistema patriarcale eteronormativo che prevede la distinzione binaria dei sessi per cui uno – quello debole – è subordinato all’altro – quello forte – e il rapporto che questa ha avuto con l’affermarsi del capitalismo (di un capitalismo che gli ortodossi definirebbero ante litteram) durante la colonizzazione a partire dal fatidico 1492. Come ripensare la storia del capitalismo a partire da questo possibile inizio? 

Silvia Federici – Il 1492 è una data fondamentale perché non segna solo l’inizio della colonizzazione, ma anche del capitalismo. Non possiamo non vedere come gli enormi carichi di argento estratti e esportati abbiano giocato un ruolo centrale nella sollecitazione alla nascita dell’economia monetaria. Se l’ortodossia marxista riportava la nascita del capitalismo all’Inghilterra delle enclosures, negli ultimi anni abbiano assistito a una svolta politica e intellettuale di decentramento del soggetto rivoluzionario, che non si identifica più con la figura dell’operaio salariato. Non possiamo lasciare in ombra tutto il lavoro schiavistico che continua ancora oggi con l’economia neoliberale dei grandi espropri attuati dalle politiche di “aggiustamento strutturale” promulgate dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Unione Europea. Non possiamo neanche lasciare in ombra il parallelo mantenimento di una situazione di guerra permanente e la militarizzazione continua nella creazione di nuove soggettività: non si tratta di politiche che hanno un effetto isolato nei paesi in cui vengono imposte, ma la precarizzazione della vita è legata ai processi di pauperizzazione di massa di un capitalismo sempre più predatorio che determina grossi livelli di resistenza a livello sociale. Siamo di fronte, con la ricolonizzazione, a un capitalismo in crisi che sembra non riuscire più a mantenere gli stessi livelli di sfruttamento. 

SF – Lei mostra in vari momenti della sua analisi, a partire dallo sfondo teorico costituito dalla figura di Calibano, i legami indistricabili nel passaggio dal feudalesimo al capitalismo tra la caccia alle streghe come mezzo di controllo della sessualità femminile e l’affermarsi di un sistema economico fondato sull’occultamento di tutto questo lavoro di riproduzione, presentato come gratuito o doveroso per una determinazione biologica; oggi, con l'affermarsi della globalizzazione e in una fase già matura del capitalismo, vediamo il ripetersi dello stesso meccanismo di cui sono vittime paesi come l’India, il Nepal o la Papua Nuova Guinea perpetuato dai programmi di “aggiustamento strutturale” promulgati da organismi mondiali : quali sono le piste di azione che ci permettono di pensare oggi a delle alternative? 

SF – È importante dire che a seguito di questi processi di globalizzazione abbiamo visto tra le altre cose un ritorno di cacce alle streghe, un ritorno di accuse a donne di stregoneria seguite poi da varie forme di persecuzione, di esecuzioni orrende oppure di esilio. Per esempio, fino a qualche settimana fa e forse ancora adesso nel nord del Ghana esistevano dei campi che io chiamerei di concentramento in cui venivano esiliate donne che erano espulse dalle loro comunità. Si tratta di un fenomeno in cui le stime sono ancora molto conservatrici (parliamo di venti/trentamila donne negli ultimi quindici anni) e il cui raggio d’azione è vastissimo andando da vari paesi africani all’India, all’Indonesia e soprattutto a Papua Nuova Guinea, ma che si sta estendendo enormemente. 

Al di là dei recinti negli ultimi anni si sono verificati moltissimi casi di uccisioni per stregonerie a donne, e in misura minore a uomini, nell’America latina. L'ultima notizia del 18 settembre è di una leader guaranì bruciata viva in casa col compagno in quanto oltre a essere guide spirituali conducevano una lotta per difendere le terre comunali dall’esproprio, e queste terre dovevano essere devolute alla coltivazione della soia. Ecco, questo tipo di fenomeno, la problematica della terra, oggi è centrale nelle nuove cacce alle streghe che hanno nuove modalità perché generalmente non vengono dall’alto come per il periodo dal XVI al XVIII secolo, ma si generano spontaneamente dal basso: gli esecutori sono spesso giovani, disoccupati, anche se da tutte le analisi che ho fatto risulta che ci sono grosse complicità istituzionali. Esemplare è la complicità tra capi locali in Africa con compagnie interessate alla commercializzazione delle terre, tanto è vero che si è registrato un aumento di accuse proprio in quelle zone in cui sono in atto questi processi di commercializzazione. 

Si tratta di contesti che hanno subito un forte processo di impoverimento dovuto all’aggiustamento strutturale e alla crisi del debito, secondo un programma di ricolonizzazione che ha creato grossi impoverimenti di massa e anche nuove sperequazioni per cui simultaneamente si è anche visto, con l’apertura delle porte al mercato internazionale, l’arricchimento dei pochi che lavorano nell’import-export. In un mio articolo sulle nuove cacce alle streghe in Africa ho registrato che una delle motivazioni di fondo è legata alla creazione, con i nuovi processi economici, di tutto un clima di sospetto e di ansia perché, dato che molte delle decisioni che oggi hanno un impatto sull’esistenza di chi vive in un villaggio o in una cittadina africana vengono prese da organismi internazionali, non si vede più chi è il padrone, non si si vede più chi è lo sfruttatore, non si vede più qual è la causa della propria miseria. C’è tutto un clima che fomenta i conflitti a cui dobbiamo aggiungere poi la grande miccia dei forti interventi di sètte religiose pentecostali cristiane fondamentaliste che portano una religione che ripropone ancora di nuovo l’esistenza di un’agenzia satanica nel mondo, che svia le preoccupazioni accusando persone nella comunità di essere in combutta col demonio. 

Si è creato ormai un clima di psicosi per cui addirittura in vari paesi africani esiste il personaggio del witch-hunter, il cacciatore di streghe, dietro al quale in realtà non si mascherano che fini di gruppo. C’è addirittura la figura dell’esorcista: moltissimi bambini sono stati accusati di stregoneria e i genitori spesso li abbandonano in strada – ovviamente anche perché non possono provvedere per loro, prendendo quindi la stregoneria come una scusa per liberarsene. Che cosa fare? Ovviamente il che fare è un discorso molto ampio perché è una lotta che ha molti fronti. Posso dire che oggi a differenza di 15 anni fa, quando io ho cominciato a scrivere con altre compagne, c’è una consapevolezza molto più grossa, si sta veramente cominciando a guardare, a cominciare dai paesi stessi in cui queste persecuzioni avvengono. Basti pensare che in queste ultime settimane in Africa ci sono state dimostrazioni di giovani donne e bambini con grossi cartelli per dire “Non siamo streghe”. In Nigeria varie organizzazioni quest’anno quasi in congiunta con queste dimostrazioni hanno dichiarato che questo sarà l’anno di una protesta, di una mobilitazione internazionale contro la caccia alle streghe; questo mi rincuora molto. Finora c’erano stati casi sporadici: di nuovo gruppi femministi, gruppi di donne soprattutto in India che andavano di villaggio in villaggio ad aiutare donne che erano state cacciate dai villaggi o a fare riunioni con le popolazioni contro l’idea della stregoneria. 

Il discorso più grande ovviamente è che la lotta sul terreno deve essere senza dubbio una lotta femminista, una lotta più grande rispetto a tutti quei processi che creano condizioni della caccia alle streghe e prima di tutto volta alla denuncia di queste organizzazioni pentecostali, di queste organizzazioni cristiane belligeranti che sono arrivate nei vari paesi del Terzo Mondo simultaneamente al FMI e alla Banca mondiale, rendendosi loro complici. Come nel passato la conquista con la spada si è accompagnata alla conquista con la croce, e quindi poi a tutti gli autodafé che si sono fatti nelle colonie, oggi si ritorna a questo modello. Sembra che il capitalismo non abbia alternative: si ritorna sempre su questi passi iconici e si verifica appunto che con la globalizzazione arrivano i nuovi missionari a sviare le ire della popolazione impoverita, sospettosa perché non ne comprende le ragioni, ragioni che ormai sono state trasportate oltre oceano, e sviano questa preoccupazione verso membri della comunità, a partire delle donne. Quindi la lotta deve poi indirizzarsi al cambio di queste grosse strutture a partire da un’inversione del rapporto debitore-creditore che è stato narrato con la famosa crisi del debito. Come possiamo parlare di debito africano? L'Europa, l’America sono in debito verso i paesi africani. L’Europa deve, l’America deve all’Africa a cui ha rubato milioni di persone uccidendole, schiavizzandole. È in corso una guerra contro alle persone a cui si sta portando via tutto, a partire dagli strumenti fondamentali per la riproduzione della propria vita e per la garanzia di un futuro per le proprie comunità, in cui naturalmente sono colpiti in primis i più deboli: la donna, la donna anziana, la donna che vive sola, la donna che non ha nessuno. Abbiamo bisogno di un grosso processo di rieducazione, di informazione, di denuncia per lottare contro tutte queste strutture politiche che impoveriscono. Quindi la lotta ha molti livelli, una lotta specifica in loco contro queste invasioni religiose e poi contro tutte queste politiche internazionali.

SF – Lei ha parlato di un avvenuto spostamento in termini di soggetto allo sfruttamento con l’evoluzione dei rapporti tra la sfera di produzione e riproduzione nel corso della ristrutturazione neoliberale dell’economia capitalista globale: con lo sfumare della figura della casalinga attraverso un problematico ingresso delle donne nel mondo del lavoro, vediamo oggi in cima alla lista (o in fondo alla macchina produttiva) la categoria delle donne razzializzate/etnicizzate relegate alla sfera del lavoro di care, usando i termini del femminismo della riproduzione sociale di Nancy Fraser. Come possiamo oggi rimodellare l’apparato teorico che ha dato vita alla campagna Wages for Housework di cui è stata protagonista negli anni ‘70 al fianco di figure come Mariarosa Dalla Costa e Selma James per portare alla luce le nuove vittime che rendono possibile la riproduzione dei rapporti di produzione, smascherando dall’altro lato anche il mito del raggiungimento dell’emancipazione alimentato dall’instaurazione di un rapporto salariale?

SF – Credo che la nostra intuizione e le nostre proposte negli anni ‘70 siano valide oggi come lo erano allora. Strutturalmente, il nostro discorso voleva sottolineare come questo lavoro è fondamentale per la riproduzione non solo delle nostre vite (perché poi le nostre vite le riproduce in condizioni che non scegliamo) ma per tutta l’organizzazione del lavoro capitalista: non c’è lavoro che non dipenda da questa produzione in quanto produce i lavoratori; pertanto, il lavoro di riproduzione va pensato come condizione di esistenza di ogni forma di attività lavorativa. Questo lavoro svalorizzato – le donne non hanno diritto alla pensione, a un salario, dipendono dagli uomini – continua a essere completamente svalorizzato. 

Oggi in Europa e negli Stati Uniti donne di alta o media classe fanno a meno di questo lavoro, scaricandolo in gran parte sulle spalle di donne espulse da quei processi di aggiustamento strutturale, di ricolonizzazione di cui si parlava prima. Nessuna e nessuno lascia il proprio paese, la propria famiglia, i propri figli per scontrarsi con la polizia, per affrontare dei lavori umilianti che non pagano o che pagano malamente se non si hanno veramente livelli enormi di impoverimento, di ansia per il futuro e un desiderio di rifiutare questa aspettativa. Io dico che le donne migranti seguono i loro soldi: nel processo predatorio degli ultimi anni i migranti vedono la loro ricchezza trasferirsi sempre di più in Europa, negli Stati Uniti, in parte in Israele. Il discorso della svalorizzazione di questo lavoro rimane sempre al centro perché il lavoro delle migranti è o non pagato o veramente mal pagato. 

Adesso c’è una lotta che ha riscosso un certo successo in alcuni paesi: in Spagna, per esempio, l’anno scorso le lavoratrici migranti domestiche hanno ottenuto il passaggio della 184, che è una legge proposta dall’ILO (International Labour Organisation) che le equipara a qualsiasi altro lavoratore sancendone il diritto a una pensione, a un orario definito, a una paga quando il rapporto termina, a vacanze. Hanno conquistato questo e in altri paesi si lotta per ottenere il passaggio della 184: farla applicare poi è tutto un altro discorso. Pensiamo all’Italia, dove si lotta per il permesso di soggiorno, dove lo Stato usa il permesso di soggiorno per ricattare i migranti. Il discorso della teorizzazione, quindi: che fare? Primo, è importante vedere che è un discorso che riguarda non solo le donne migranti ma tutte le donne perché in realtà statisticamente sono le donne, e non solo migranti, che ancora fanno i tre quarti del lavoro domestico all’interno di una famiglia, soprattutto in quei casi in cui ci sono anziani, persone non autosufficienti, quando non ci sono i soldi per la badante, quando ci sono malati cronici, bambini piccoli, nonostante un leggero aumento nell’impegno degli uomini, specialmente i più giovani. 

L’idea che adesso le donne che non sono migranti o lavoratrici domestiche specifiche non facciano più lavoro domestico è una follia. È importante sottolinearlo, perché mentre è vero che tanto lavoro domestico si è portato fuori dalla casa o scaricato sulle spalle di altre donne, oppure organizzato col mercato (secondo l’idea falsa che sia una grande madre), in realtà molto lavoro domestico è ritornato sulle spalle delle donne. È aumentato enormemente il numero delle mansioni che una casalinga deve fare anche se non c’è più l’immagine della casalinga tradizionale: pensiamo a tutta quella serie di pratiche mediche svolte in passato nelle cliniche in cui una donna viene «addestrata» dopo un periodo di degenza, aggiungendo che molte compagnie che producono strumenti medici (es. quelli per fare la dialisi) oggi si sono orientate per produrre strumenti che siano a uso domestico. 

È importante non lasciarsi abbindolare dall’idea che in realtà il lavoro è uscito dalla casa: queste sono fandonie che ci hanno inculcato per farci dimenticare che in realtà le forme di sfruttamento e il lavoro estratto da noi che poi serve all’accumulazione continua non sono spariti, non è sparito il nostro lavoro solo perché altre donne – che noi paghiamo – lo compiono. È importante creare un grosso fronte unico per la lotta femminista che deve avere al suo centro la solidarietà con le lavoratrici e tutte le organizzazioni delle lavoratrici domestiche: lottare dicendo che abbiamo diritto al ritorno di quello che produciamo perché noi vi diamo la forza lavoro e voi non ci date niente in cambio, anzi dobbiamo accollarci un secondo lavoro, malpagato, dobbiamo assumere un’altra persona, pagare servizi che non sempre corrispondono alle nostre necessità. C’è tutta una lotta da fare, sia per assicurarsi con forme di controllo comunitario che i servizi dello Stato siano veramente soddisfacenti dei nostri bisogni, sia per far vedere tutto questo lavoro che continua a essere svolto in casa senza un salario. 

Noi abbiamo fatto la campagna per il salario al lavoro domestico, la lotta per i soldi è ancora importante come condizione per avere accesso, ma non sono solo i soldi: sono la casa, gli spazi urbani, i servizi. Dobbiamo impegnarci su questo per creare delle vite decenti per noi stesse e per le persone con cui viviamo. Poi c’è il discorso più ampio che ho fatto in questi anni, per esempio in Rincantare il mondo, sul fatto di creare forme di riproduzione collettiva in quanto importanti sia per la riproduzione della vita, per aumentare le risorse, e soprattutto perché riproducendo la vita collettivamente, riproduciamo anche la nostra capacità di lotta. Io dico che questo discorso che abbiamo cominciato negli anni ‘70 sulla centralizzazione della riproduzione della vita oggi sia fondamentale perché ci permette di sperimentare nuove relazioni sociali, di pensare nuove forme di collettività e di inaugurare un processo di sperimentazione che comincia a cambiare la nostra vita e i rapporti con il potere, con lo Stato e con il capitale, a partire da oggi. Senza rimandare, rimandare il cambio sociale a un futuro che poi mai arriva. È solo con la rivoluzione oggi, e questa incomincia con il metterci insieme, con le riformazioni, con l’acquisto di un nuovo senso di forza, col superare le nostre ansie perché non ci sentiamo più sole di fronte ai nostri problemi.

 

SF – Spesso, in ambito ecologico, viene portata avanti una concezione antinatalista: fare figli è problematico per l’ambiente e volerli è quasi una forma di egoismo. Questa è effettivamente l’ennesima responsabilizzazione alle donne (principalmente quelle delle zone colonizzate). Come può un approccio femminista tenere presente della problematica delle risorse considerando però la dinamica strutturale e coloniale della questione? 

SF – È una domanda molto importante perché è esattamente vero che in una società in cui controlliamo le condizioni primarie della riproduzione della vita anche la decisione di procreare è una decisione che deve avere delle dimensioni collettive e che deve fare i conti con le risorse. Io credo si debba partire dalla grande esplosione demografica che ha luogo in Europa quando si perde il contatto con la terra, cioè quando la gente viene separata dalla terra e viene costretta a lavori come la manifattura, quando in realtà è un interesse del padrone capitalista che ci siano più lavoratori possibili e quando comunque non c’è più la remora della terra dove avere più figli voleva dire avere più salari. Questo è lo stesso discorso oggi della cosiddetta sovrappopolazione in Africa e in altri paesi. Perché si accusa una donna di fare troppi figli in Africa e di portare la povertà? È falso. È importante stabilire e chiarire che il rapporto è esattamente l’opposto, cioè che si fanno più figli di quelli che forse si vorrebbe fare perché ogni figlio, cresciuto nelle forme più povere, porta a casa qualche cosa. È la povertà che induce ad avere più figli in paesi dove non esiste la pensione, dove non esiste nessun provvedimento rispetto a un incidente sul lavoro o a una malattia.

Non sono i troppi figli a creare la povertà, è la povertà che crea la necessità di far figli che possano provvedere alla riproduzione della famiglia. Però questo processo di vittimizzazione e colpevolizzazione delle donne serve invece a mascherare gli interessi specifici di una società capitalista oggi in espansione violenta, soprattutto in paesi già colonizzati, oggi ricolonizzati sia attraverso misure finanziarie come l’aggiustamento strutturale, sia attraverso il mantenimento di uno stato di guerra continua. Allora c’è da dire che poi il problema dell’esplosione demografica si è posto per il capitalismo internazionale a partire dagli Stati Uniti, dalla WHO (World Health Organisation), proprio in risposta alle lotte anticoloniali. Fino a che hanno potuto sfruttare milioni e milioni di africani trasportandoli nelle piantagioni e facendoli morire in queste navi orrende, allora mai si è parlato di troppi africani: è stato solo quando è sorta una lotta anticoloniale e quando al seguito di questa lotta coloniale è cresciuta una generazione di giovani donne e uomini che si sono posti come prospettiva politica di recuperare tutte quelle risorse e quelle terre che gli erano state rubati che si è posto il “problema” della grande esplosione demografica. E allora sterilizziamo le donne, riduciamone il numero, il grande pericolo per l’umanità, per l’equilibrio ecologico. Bisogna vedere quanto di falso e quanta manipolazione ci sia stata a livello internazionale su questo discorso della popolazione che ancora una volta penalizza le donne. Questo non significa che una società diversa non debba ragionare e decidere veramente collettivamente sulle possibilità di quanto l’ambiente possa sostenere. Oggi, tuttavia, piegare il discorso ecologico a queste considerazioni significa praticamente accettare una politica dove solo le donne abbienti possono procreare. Mi sembra che tutto il discorso della maternità surrogata, e qui mi duole molto che ci siano tante femministe che la appoggiano, sia veramente un retaggio della schiavizzazione che colpisce donne povere africane impoverite. Non povere perché con la categoria “povero” si naturalizza, si occulta e pertanto si giustifica quel processo di vittimizzazione che fa esistere nella realtà solo chi è stato impoverito. 

SF – Nel suo ultimo testo, Oltre la periferia della pelle, lei sottolinea bene la pericolosità della criminalizzazione della maternità surrogata, una criminalizzazione che noi tutte conosciamo tramite l’aborto. Allo stesso tempo mi preme, ma è sicuramente superfluo, ribadire la differenza ontologica e politica dell’aborto da una gestazione di nove mesi. Alla luce di ciò, come possiamo proteggere le persone con utero da una pratica così alienante e meccanicizzante e, allo stesso tempo, non cadere nelle stesse politiche repressive contro le quali ci schieriamo?

 

SF – La maternità surrogata vuol dire un mercato di bambini, vuol dire che la donna povera fa un bambino per l’“ideologia” del dono d’amore, l’altruismo: tutte vergognose menzogne perché in realtà non c’è nessuna donna abbiente che passi nove mesi per regalare un figlio alla donna che non può partire. Quindi si dichiara il diritto delle donne ricche ad avere figli, ad averli come vogliono nelle condizioni che vogliono, senza passare nove mesi in un’attività considerata ovviamente animale e inutile, degradante e comunque un’attività che non porta alcun profitto, per non perdere il tempo che si può dedicare alla carriera. C'è tutta una serie di passaggi, di trasformazioni che passano attraverso la maternità surrogata che sono veramente orrende: la donna come contenitore, la questione sul chi sia la vera madre, il diritto di proprietà che si inserisce nel generale discorso di degradazione della maternità e della procreazione visto come un processo animale che alcune donne preferiscono evitare. La donna abbiente non deve perdere i nove mesi di gravidanza. Diciamolo chiaramente: c'è un nuovo mercato di carne umana. Angela Davis ha scritto delle belle pagine su questo, dicendo che siamo ancora ai livelli di quando in Virginia imponevano con lo stupro la maternità per poi vendere i bambini all’asta. È una nuova forma di schiavizzazione. 

Io sono completamente contraria al discorso della maternità surrogata. È una delle conseguenze delle mercantilizzazione della vita. Questo è un campo di battaglia per il femminismo, un campo di battaglia complesso perché se rivendichiamo il controllo sopra il nostro corpo, se diciamo allo Stato di togliere le mani dal nostro corpo allora dobbiamo dirlo in un modo molto articolato: dobbiamo dire no alle sterilizzazioni, dobbiamo dire no alle maternità surrogate e, tornando al discorso precedente, dobbiamo dire no ai safari per sterilizzare donne nel terzo mondo, dobbiamo lottare contro tutte menzogne che degradano la donna e che servono poi direttamente o indirettamente anche a fomentare questa misoginia crescente con un aumento spaventoso della violenza fisica contro le donne. Oggi in Italia si ammazza una donna al giorno. Ricominciano le cacce alle streghe in Africa e in India. Si scarica la colpa alle donne, a certe donne, di portare la povertà nel mondo generando figli in forma eccessiva: un movimento femminista deve affrontare questi discorsi. 

 

SF – In Caccia alle streghe e Calibano e la strega lei mette in luce la scissione tra uomo e animale a partire dal meccanicismo cartesiano che trasforma il corpo umano in una macchina da lavoro e, allo stesso tempo, svaluta il corpo animale perché rappresentativo di un’istintualità incontrollata. Il corpo è quindi un involucro di forza-lavoro. A oggi, possiamo dire che ci sia una forma gerarchica tra i corpi: salariati, donne e animali, in cui, soprattutto l’ultimo gradino, è sia involucro di forza-lavoro (le mucche da latte), che prodotto (la carne). La prospettiva femminista odierna dovrebbe considerare tale concezione dei corpi e partire proprio da questo gradino più basso, gli animali?

SF – I corpi, bisogna rivalutare i corpi. Restaurare tutto un processo di rispetto per il nostro corpo e il corpo degli animali. Come un processo di rispetto per tutte le manifestazioni del mondo della natura. Questa solidarietà degli animali che sono i nostri grandi compagni in questo mondo e oggi vengono ridotti a oggettini domestici: il gatto sul sofà, il cagnolino che si porta a spasso. Oppure questi luoghi orrendi che sono i macelli. C'è un nazismo nei confronti degli animali che poi continua, che non è separato dal nazismo nei confronti dei nostri corpi. Ma se la gente sapesse come vivono molti animali di cui consumano le carni e come vengono macellati, sono cose di un orrore e di una crudeltà estrema. Un conto è ammazzare un animale, un conto è la sofferenza che si infligge. Credo che non basterebbe un giorno per parlare dei mattatoi americani dove gli animali vengono allevati in quantità per cui un allevamento può contenere 5000-6000 polli. Ammassati l’uno sull’altro, imbottiti di antibiotici mentre vivono nei loro escrementi. E noi mangiamo carni lavate dai loro escrementi e prodotte in condizioni apocalittiche. 

Già Marx aveva detto che col capitalismo gli animali vengono ingrassati artificialmente al limite della loro capacità ossea. Finché la corporatura ossea può sopportare il peso aggiuntivo di questi animali allora questi vengono forzatamente fatti ingrassare. Con indifferenza assoluta nei confronti della loro sofferenza. In realtà oggi siamo ben aldilà del limite osseo. Oggi ci sono animali che non riescono ad alzarsi da terra, fin quando non sono macellati. Vengono mandati al macello con pungoli elettrici perché non possono camminare. E spesso arrivano al macello con gambe già spezzate. Non c'è prodotto chimico che non venga sperimentato sugli animali. Gatti con occhi forzatamente aperti in cui si iniettano le sostanze più dolorose, torture prolungate per la ricerca medica. Tutto questo poi crea ovviamente una cultura e una sensibilità che sfocia nelle relazioni con le persone. Perché non è pensabile – Fanon l'aveva visto bene nelle ultime pagine de I dannati della terra con l’immagine del torturatore che tortura ogni giorno – che chi è insensibile alle grida di chi è torturato vada a casa e si trasformi tutto a un tratto nel marito e padre amoroso. La tortura continua con forme diverse. Le torture inflitte agli animali creano un universo di pratiche che sfociano nella medicina, nella polizia... Come donne, noi siamo le grandi animali, come ho scritto in Caccia alle streghe. Questa familiarità continua nell’imputare alle donne di essere simbolo di lussuria, rappresentata dai voli sulle capre o sui cavalli. Siamo per tutto questo quelle più interessate e capaci di fare una critica a queste barbarie che si applicano ogni giorno nei confronti degli animali.

 

Bibliografia 

FEDERICI, Silvia, Calibano e la strega: le donne, il corpo e l’accumulazione originaria. Traduzione di L. Vicinelli. Introduzione di A. Curcio e F. Giardini. Milano: Mimesis, 2020.

FEDERICI, Silvia, Caccia alle streghe, guerra alle donne. Traduzione di S. Veli. Roma: Nero, 2020.

FEDERICI, Silvia, Caccia alle streghe e Capitale. Introduzione di A. Curcio. Roma: DeriveApprodi, 2022.

FEDERICI, Silvia, Oltre la periferia della pelle. Ripensare, ricostruire e rivendicare il corpo nel capitalismo contemporaneo. Traduzione di Patricia Badji. Roma: D Editore, 2023.

Giulia Muccioli studia Filosofia all’Università di Bologna. I suoi interessi vertono principalmente sulla filosofia politica e gli sviluppi del pensiero femminista all’interno degli studi marxisti. Il suo lavoro di ricerca attuale si concentra su una rilettura femminista e post-coloniale del post-strutturalismo francese, a partire dalle opere di Deleuze e Guattari.

Paola Pia Santoro studia Filosofia all' Università di Bologna. Si interessa principalmente di filosofia politica, in particolare di Baruch Spinoza e del movimento femminista. È inoltre rappresentante degli studenti del Centro di ricerca Sive Natura per l' anno accademico 2023/2024.