A cura di Anna Guerini e Luigi Emilio Pischedda
Michele Spanò, è maître de conférences all’École des Hautes études en Sciences Sociales (EHESS) di Parigi, dove insegna “L’institution juridique des collectifs”. Si occupa di teoria e storia del diritto privato e più in generale dei rapporti tra diritto civile e dimensione collettiva o comune. Il suo ultimo libro è Fare il molteplice. Il diritto privato alla prova del comune (Torino, 2022). Cura l’edizione italiana delle opere di Yan Thomas presso l’editore Quodlibet.
Il 16 maggio 2024, presso il Dipartimento di Filosofia, si è tenuta la presentazione del saggio di Yan Thomas, La morte del padre. Sul crimine di parricidio nella Roma antica (Quodlibet, 2023). A questo evento ha preso parte Michele Spanò, che ha contribuito a questa prima traduzione italiana con una nota critica. Spanò ha inoltre curato, presso lo stesso editore, altre traduzioni dei lavori di Yan Thomas. Abbiamo quindi pensato di cogliere questa preziosa occasione per fargli alcune domande sia sul suo percorso di ricerca sia, più in generale, sulla figura di Yan Thomas.
Segnalibri Filosofici - La tua formazione è originariamente filosofica. Dopo aver lavorato sui concetti di governamentalità e sovranità, la tua ricerca si è via via focalizzata su questioni che attengono il diritto, a partire dai suoi soggetti. L'avvicinamento al diritto è stato dettato dalla frequentazione di alcuni temi specifici e dall'incontro con autori o autrici che hanno praticato l'ibridazione tra filosofia politica e diritto. In che modo lo studio delle categorie giuridiche ha aperto nuove prospettive di ricerca sulle questioni da cui hai preso le mosse?
Michele Spanò - La mia formazione è filosofica in origine, perché mi sono laureato in filosofia politica all'Università di Roma “La Sapienza”. Ho fatto una prima tesi su Jean-Luc Nancy e la filosofia politica, e poi successivamente ho cominciato a studiare Foucault. In quegli anni non erano stati ancora pubblicati – o cominciavano ad essere pubblicati – i corsi su governamentalità, sicurezza, territorio, popolazione e sulla nascita della biopolitica1. Quindi, in realtà, il lavoro di tesi è stato un lavoro soprattutto di ricostruzione. Quello di dottorato è stato una forma di elaborazione, di variazione sul tema, in cui diventava tematico il ruolo del diritto. Infatti, la ricerca dottorale non l’ho pubblicata come tale: era dedicata alla governamentalità neoliberale e il diritto. Quindi, il mio interesse rispetto al diritto è stato in buona misura sollecitato dall’incontro con le tematiche sviluppate da Foucault. Ho seguito Foucault nella possibilità di individuare una controstoria della sovranità, attraverso il concetto di governamentalità e tutti i “casi-studio”, le scene storico-pratiche (il supplizio di Damien, le contro-condotte, eccetera) che ha affrontato. Mi interessava valutare se si potesse trovare un riscontro anche nella storia delle istituzioni o nella storia del diritto: questo è stato il passaggio fondamentale, perché con Foucault capivo che la storia della sovranità è in fondo mitologia, è una mitologia del politico, e che probabilmente il reale assetto del potere occidentale non è coinciso con quell’ipotesi di razionalizzazione teorica auspicata dalla modernità. Quindi, per sostanziare l’aspetto giuridico che in Foucault non era pienamente tematizzato, mi sono dedicato alla lettura degli storici del diritto fiorentini. Mi ricordo che fu proprio la lettura di [Paolo] Grossi – che dopo ho molto relativizzato – e del libro di [Maurizio] Fioravanti sullo Stato moderno in Europa che mi hanno condotto all'inizio verso il diritto2. Poi c'è stata una frequentazione parigina ed infine il dottorato, dove il tema del diritto è diventato centrale, perché ho iniziato a lavorare con Paolo Napoli, che era l’allievo di Yan Thomas, e che aveva già lavorato, da filosofo del diritto, su Foucault.
SF - Dopo queste prime frequentazioni con il diritto hai avuto modo di consolidare questo aspetto, e come?
MS - Ho avuto modo di consolidare questo rapporto, rendendolo meno accessorio e meno episodico, perché, mentre finivo il mio dottorato romano, sono stato reclutato nel programma dottorale europeo che si chiamava Storia delle culture giuridiche europee. Era un'epoca in cui l'Unione Europea dava dei soldi per non solo per fellowship individuali come Marie Curie, ma anche per grandi progetti pedagogici. Yan Thomas stava costruendo un enorme progetto dottorale in partenariato con diverse istituzioni, che coinvolgeva l'École des Hautes Études en Sciences Sociales, il Max-Planck-Institut für Rechtsgeschichte und Rechtstheorie – all'epoca era diretto da Michael Stolleis, il grande storico del diritto pubblico –, la London School of Economics – dove c'era Alain Pottage che ha lavorato tanto sull’antropologia e la filosofia del diritto –, e infine il SUM, l’Istituto Italiano di Scienze Umane che Aldo Schiavone – amico di Thomas – aveva creato a Firenze. Yan Thomas voleva dei ricercatori per lo più non formati tecnicamente al diritto, che si occupassero, però, di oggetti giuridici. Come dire, non era più la storia del pensiero, non si potevano più truccare le carte, bisognava sporcarsi le mani, rimboccarsi le maniche. Fu lì che iniziai il progetto sulla class action, sull’azione collettiva in giustizia. L’ambiente di ricerca creato da Yan Thomas condizionò positivamente questo progetto di natura giuridica, addirittura di diritto positivo, visto che mi occupavo di un istituto che all’epoca, tra l’altro, in Italia non esisteva. Nello specifico, mi occupavo di procedura civile, che ovviamente a me interessava nei termini di teoria del soggetto: il mio problema era capire come il diritto produce l'uno, e come, tramite il diritto, si dia un modo giuridico per pensare una collettività in cui, però, i singoli non spariscano.
Questo dottorato ha avuto una vita brevissima, di soli tre cicli. Ha saputo, però, incorporare figure molto diverse: penso a Emanuele Coccia, un carissimo amico, che ha partecipato al ciclo precedente al mio, oppure a Emanuele Conte, storico del diritto a Roma III, che è diventato per me un altro intercessore molto importante per la storiografia e la storia del diritto, che mi ha anche un po' vaccinato dai miei entusiasmi grossiani. Penso, poi, che i padovani siano sempre stati per me degli interlocutori speciali in virtù del comune interesse per la questione della sovranità e del governo, per un certo modo di trattare i concetti, il diritto e il materialismo. Concluso il dottorato, sono andato a New York per un anno accademico, per poi rientrare in Italia attraverso una borsa dell'Istituto Italiano per gli Studi Storici di Napoli. Successivamente, vinco una borsa postdoc in Canada sulla tematica della Class Action che avevo iniziato a indagare. Nello stesso momento vinco un assegno di ricerca con Ugo Mattei a Torino, diventando ricercatore in diritto privato.
Questo ha cambiato ovviamente tutto: da lì il diritto è diventato qualcosa con cui non potevo più fare l’amateur. In questo caso, devo dire, sono segnato da un oroscopo molto felice, perché sono riuscito a proseguire per cinque anni all'Università di Torino. Da lì ho dovuto studiare il diritto privato, che è diventata la mia passione. A Parigi, ovviamente, non insegno diritto privato, però, di fatto, il mio lavoro è una storia della teoria del diritto privato e questa disciplina mi ha sedotto, perché mi ha permesso di trovare ciò che andavo cercando: il governo, la soggettivazione, insomma, che è l’“arredo” della nostra forma di vita. Non c'è esperienza che non sia mediata in Occidente dal diritto civile. Nel frattempo, Yan Thomas era morto, ovviamente i rapporti con Parigi continuavano, perché mentre ero a Torino continuavo a insegnare anche lì, fino a che sono stato eletto nel 2017, presso l’EHESS ad una cattedra intitolata L’istituzione giuridica dei collettivi.
SF - Che ruolo ha giocato rispetto a questa genealogia, la figura di Yan Thomas, in qualità di storico del diritto romano? E in che modo, nello specifico, hanno contribuito effettivamente le sue categorie giuridiche, quali quelle di “finzioni” e “istituzioni” all‘evoluzione delle tue ricerche?
MS - È stato un incontro capitale, ovviamente. Per me c’è una potenza nella sua opera che è abbastanza ineguagliata. Voglio però fare una premessa: è molto difficile parlare di Yan Thomas. In particolare, è difficile parlare del suo metodo, del suo stile, perché era una cosa che lui aborriva. In fondo, se c'è un pensatore apparentemente antifilosofico, antimetafisico, è proprio lui, nello stile, nel passo; eppure, a me è sempre sembrato portatore di una macchina di pensiero. Questa è una tensione su cui ho scritto recentemente3. È veramente un paradosso leggere uno che continuamente dice “per carità le idee, ma che sono queste rispetto gli oggetti?”, oppure, “per carità le teorie ma che sono queste rispetto le operazioni?”. C’è questo stare su un livello che per lui coincideva di fatto con una pratica pensante, una pratica discorsiva, che è quella dei giuristi romani, che lui mimava nella sua prosa. Yan Thomas era una figura particolare. Per questi motivi, non c'è dubbio che avrebbe sottoscritto lo slogan di Lucio Colletti, quando diceva che la metodologia è la scienza dei nullatenenti4. Quindi, l'incontro con Thomas è stato cruciale, ed io vorrei dire, se posso, che cerco di lavorare con quell'idea di cui lui mi fece da imprinter. Nel mio caso, a me interessa molto la formazione degli istituti giuridici del diritto privato nell'Ottocento europeo, specialmente franco-tedesco, e mi interessa capire come questi si siano potuti fabbricare grazie a materiali risalenti a duemila anni prima, divenendo poi il nostro presente: noi viviamo in grattacieli arredati in stile Biedermeier.
Questa situazione presente per me merita un'interrogazione che mi interessa portare avanti con gli arnesi di Yan Thomas, cioè leggendo come gli istituti vengono materialmente prodotti. Chiaramente, in questo soddisfo anche il mio marxismo, – o, più sobriamente, il mio materialismo storico –, perché non c'è nulla come il diritto e il modo di studiarlo di Yan Thomas che ti metta di fronte al problema dell'astrazione determinata o del rapporto tra storia e forme, tra astrazione e materialità. Per me questo resta molto appassionante. Poi c'è il côté antinaturalista, a cui Yan Thomas faceva eco rispetto a delle sofferenze, delle idiosincrasie. Da questo punto di vista, la separazione da Grossi e dai suoi studi sull’istituzione delle proprietà collettive medievali era evidente: il diritto, per Grossi, emergeva dal basso della società, da sotto in su, aprendosi al potenziale rischio di una mistica reazionaria. Mi riferisco, in questo caso, all’idea grossiana che il diritto dica la comunità, il sangue, la terra.
SF - Immagino che Grossi tentasse di reagire al formalismo, e quindi trovasse, nella sua tematizzazione delle proprietà collettive, diverse fondamenta per il diritto. Però, d’altra parte, attraverso la sua lettura, sembra che il panorama del paesaggio medievale fosse costellato da tanti e diversi Thomas Müntzer. Credo che il problema di tale approccio possa così sintetizzarsi: un conto è provare a sondare un argomento con differenti strumenti o anche con suggestioni da altre discipline, un conto è poi creare questo campanile che proietta l'ombra all'infinito.
MS - Sì, sicuramente questo è un rischio. In Thomas, infatti, era forte l'idea del diritto come possibilità di trasformazione, di creazione: non c'è nulla lasciato alla morale, alla religione, alla natura, come ostacoli all'operare del diritto. È chiaro che Thomas non formula un giudizio di valore: pensate a Marcela Iacub, una sua allieva, che ha portato l’approccio al diritto di Yan Thomas verso una posizione ultra queer e libertaria. Tutto ciò è possibile perché lui parlava del diritto come una pratica acefala, di cui uno dei punti fondamentali è la sua denaturalizzazione. Come scrive in un saggio molto breve a introduzione di un dossier degli Annales su storia e diritto5, a lui non interessa la socialità del diritto, ma il carattere giuridico della società. Questa affermazione è molto forte: ovviamente è un programma di ricerca che, ancora una volta, è agli antipodi di quello di Grossi.
SF - Leggendo il tuo Azioni Collettive. Soggettivazione, governamentalità, neoliberismo [Editoriale Scientifica, 2013], soprattutto la prima parte, mi risuonava molto la questione della governamentalità e l'interesse per il diritto. Recentemente, sia io che Anna abbiamo avuto tra le mani la nuova edizione de Il progetto giuridico di Pietro Costa (DeriveApprodi, 2024). Mi sembra che, anche alla luce della tua prima risposta, Il progetto giuridico possa andare nella direzione di un’analisi più precisa del diritto, a partire da alcune ipotesi di ricerca che condivide con Foucault. Attraverso l’analisi di proprietà e contratto, mi sembra che il volume di Costa colga proprio quel vuoto che tu denunciavi nel primo capitolo di Azioni Collettive, relativo alla scarsa attenzione, da parte di Foucault, alla genealogia degli strumenti e degli istituti del diritto.
MS - Credo che in Azioni Collettive io abbia usato il termine iurisdictio per mediare sia col filosofo, che parlerebbe della questione sotto il termine governo, sia con lo storico del diritto, che parlerebbe di giurisdizione. Il progetto giuridico, invece, l’ho usato più recentemente per impostare uno dei seminari che tengo a Parigi, presso l’EHESS, dove insegno attualmente, in cui sviluppo una storia giuridica dell’accumulazione originaria. Ho, inoltre, già pubblicato due saggi, uno su Radical Philosophy e uno su Aut-Aut, in cui propongo una sorta di messa in prospettiva del ruolo della penalità, del diritto penale e della criminalizzazione come vettore principale, se non esclusivo, dell'avvento del rapporto sociale di capitale6. In entrambi i casi l’opera di Costa, che credo sia eccezionale e anche abbastanza inesauribile, è un pezzo essenziale, in particolare rispetto ai concetti di proprietà e contratto. Il progetto giuridico ha infatti più che una funzione di supplenza rispetto al “silenzio” di Foucault rispetto al ruolo del diritto privato nella costituzione della modernità, perché, alleando Foucault con Marx, indica che è proprio lì, tra contratti e proprietà, oltre che nelle carceri, che bisogna cercare l’istituirsi del rapporto sociale di capitale.
SF - Vorrei farti una domanda, tenendo come sfondo quanto dicevi rispetto alla denaturalizzazione del diritto, e ricollegandomi alla recente approvazione, del febbraio scorso, da parte del Parlamento europeo della così detta legge sul ripristino della natura7. Domanda che mi è sorta anche leggendo l'ultimo articolo di Paolo Napoli8, in cui auspica l’adozione di un nuovo modello – come può essere quello che ruota intorno al concetto di ripristino – invece di continuare a ragionare in un’ottica orientata alla sola salvaguardia, alla sola tutela. Mi sembra che questa prospettiva vada in direzione di quanto mettevi molto bene in luce nella post-fazione al saggio sull'idea di natura di Yan Thomas9. Non mettendo in discussione la mossa in avanti rappresentata dal concetto di ripristino, mi chiedo, tuttavia, se l’aspetto economico non continui a rimanere il convitato di pietra. Cioè, mi sembra una strategia efficace quella di proporre una tematizzazione a partire dal ripristino invece di rimanere sul lato della semplice tutela, credo però anche che si tratti di un ripristino di una natura condizionata sia dallo sfruttamento economico sia da quei rapporti sociali che vi sono alla base. Quindi, mi chiedo quale sia l’identità di questo ripristino, e se esso replichi sempre gli stessi schemi produttivi o se invece sia capace di disarticolarli.
MS - Penso a questo, penso anche alla riforma costituzionale italiana, all'articolo 9, dove è inserito il termine “ecosistema”: sono possibili brecce rispetto a questo discorso, è chiaro però che non sono interventi normativi che intendono toccare i rapporti produttivi. Il mio discorso contro i diritti della natura, contro questa enfasi verso la personificazione, ritengo sia un discorso più di igiene concettuale che qualcosa di propositivo. C'è un tentativo di proposta che riguarda di nuovo la procedura, cioè la possibilità di considerare il piano dell'azione come quello potenzialmente più gravido di novità. Il problema è sempre lo smontaggio del nesso tra la capacità di agire e la posizione soggettiva del vantaggio, cioè di chi rappresenta chi, del gatekeeper. Può darsi, anzi sono sicuro, che ci sia stato un movente polemico rispetto ad una sorta di neo-ruralismo. Quest’ultimo atteggiamento è potenzialmente reazionario e sta contagiando le scienze sociali, specie se praticate da chi si dice di sinistra. Non sarà una norma a sovvertire il rapporto sociale di capitale o l'estrattivismo, ma men che meno si otterrà questo obiettivo contrapponendogli una natura sostantivata, ontologizzata, intrisa di pseudo immaginari retrivi. Questo è un enorme problema, secondo me anche un enorme problema di politica della scienza. Lo si vede in Francia, sulla scia di Bruno Latour, che io, contrariamente alla vulgata, utilizzo in termini positivi e non nostalgici, perché fa vedere che con la grammatica dell'individualità certe cose sfuggono alla presa. Gunther Teubner l’ha utilizzato per mostrare la difficoltà del principio di causalità e di imputazione nei casi di quello che si chiama “danno ambientale puro”. Anche in questo caso, stiamo sempre nel dédommagement, nel risarcimento del danno, nella riparazione.
SF - La molteplicità della realtà e la difficoltà di darle voce può forse collegarsi a un aspetto di cui ci parlavi all’inizio, quando ricordavi l'influenza di Nancy nel tuo percorso di studi, penso in particolare al sintagma “singolare plurale”11. Nella tua ultima monografia12 individui il molteplice come il vero soggetto. Che rapporto ha il molteplice rispetto a quei tentativi che hanno cercato di trovare la definizione di soggetto collettivo in termini come «moltitudine» e «comune», e con la tradizione operaista che ha lavorato in questa direzione?
MS - Questa è una domanda molto, molto impegnativa, ed è molto interessante. Quindi grazie, anche perché mi aiuta a riordinare alcuni pensieri. Devo dire che, secondo me, c’è in questo esito ultimo di fare il molteplice la ripresa di Deleuze, la sintesi della mia ossessione, vale a dire: una grande vocazione per il molteplice, cioè un elemento di critica filosofica del soggetto, della sovranità, e quindi sicuramente qui ci sono insieme Nancy, Spinoza e Marx. C'è, poi, il fare: è come se il gesto filosofico di destituzione del soggetto, di critica del soggetto e della sovranità – nell'incontro col diritto – richiedesse un “cosa sta?” (non “cosa resta?” ma cosa “sta” se lo stare non è garantito da uno Stato, da una sostanza, da un soggetto). Per me questo ha voluto dire sottolineare la questione dell'istituzione come problema, ovvero: “come si fa uno senza fare uno”, cioè come si fa il molteplice. Come si fa a far stare una pluralità di singolari? Non a pensarla, a farla stare, cioè a farla durare, a farle fare delle cose, a farla riprodurre, a farla produrre. Questo per me è stato il modo di tenere insieme più amori. Nella domanda, tu mi interroghi su che rapporto c’è con la tradizione operaista. Forte, ovviamente, forte. Però mi accorgo che, più passa il tempo, più il “mio” mi pare un operaismo minore (né trontiano né negriano). Mi viene in mente che, tutto sommato, questo tipo di domanda sia più vicina a una domanda alla Tafuri o alla Asor Rosa (che per me poi, a dirla tutta, è diventata una domanda alla Franco Moretti), forse, riguardante il problema della forma: che forma ha un insieme di singolarità? Il rapporto con Toni ha contato molto per me, in particolare circa la questione del comune quale modo di produzione, di istituzioni del comune. Su questo abbiamo anche lavorato insieme in tanti contesti vivaci. La domanda che oggi mi interessa di più è questo rapporto tra forma e storia, tra forma e prassi, e come formalizzare la cooperazione. Questo è, in sostanza, il mio tema. E il diritto privato – a dispetto della sua tradizione –, a una lettura sufficientemente “yanthomassiana”, si rivela una sorta di reservoir, di stock, di arnese per pensare a questo, e devo dire che, con i compagni di Torino, questo si è tradotto anche in delle pratiche normative. Si tratta, certo, di un grigio noioso lavoro da idraulici; però, si vede che alcune cose si possono fare, si possono costruire, si possono costituire. Colgo l'occasione di questa domanda per evocare un'altra importante fonte di ispirazione per me, di dialogo, che ha a che fare con questa cosa, che è la microstoria. L'andata a Parigi fu anche l'incontro con gli allievi – le allieve – di Giovanni Levi, che erano giunti lì tramite Jacques Revel, e soprattutto con una persona, Simona Cerutti, una storica che ha scritto molto sulla giustizia dell’Ancien Régime. Di conseguenza ho messo mano sugli studi di [Edward Palmer] Thompson e di tutti quegli autori in cui la questione è quella dell'azione, cioè di come le azioni creano diritti, come le azioni o i processi creano soggetti – il making – e, dall’alto di questa idea, come pensare la pluralità. Non è un caso che anche loro si erano invaghiti di Althusius, cioè di tradizioni che cercavano di pensare una pluralità non sovrana studiando, che so, le confraternite di Mondovì. Il tema era sempre fondamentalmente questo, cioè: come sta un corpo che non è un corpo, un uno, che è un uno magico o che non è un uno. Questo tema della durata, della consistenza, della ripetibilità è per me, oggi, forse, quello più importante. Quindi, quel lavoro sull’accumulazione originaria è anche un lavoro su che cos'è una comunità che rifiuta il rapporto sociale di capitale. Noi abbiamo sempre in mente come contraltare di questo la dissipazione, la festa, l'estasi. Ecco, ma che cos’è che fa quella comunità? È pensabile, se uno non crede che la cooperazione sia un “volemose bene” ma, appunto, dissipazione. Certo, dissipazione in termini di rifiuto dell’estorsione di valore e di comando sulla forza lavoro, deve pure voler dire cooperazione, cooperazione come fonte di ricchezza. La questione non risiede più nell’appropriazione, ma nell’uso.
SF - Questo è un tema classicamente marxiano, tra l'altro, interno al Capitale, dentro i Grundrisse. Quindi la tradizione operaista, in realtà, rimane presente.
MS - C’è eccome. È difficile perché appunto delle volte ci si scontra con una forte resistenza al diritto, che è ancora molto presente nei movimenti e anche in certi ambienti accademici molto vicini, che però resistono perché continuano ad avere una forma di inconscio foucaultiano volgare, per cui dove c’è diritto, c’è potere, c’è una cosa che va evitata. È difficile far capire che nella forma c’è la possibilità, c’è l'efficacia, c’è la prassi. Ecco questo è Yan Thomas, su cui è forte anche una tacita influenza althusseriana. Un materialismo della forma.
SF - Sempre con riferimento al problema del “comune”, hai dedicato numerosi contributi ai beni comuni, contribuendo a una stagione di ripensamento di questo tema. Ci sembra che questo stesso tema, dall’essere centrale nella riflessione filosofico-politica e giuridica e nelle rivendicazioni dei movimenti, e dopo aver animato una prospettiva istituente ben esemplificata dalla Commissione Rodotà, si sia esaurito. È effettivamente così? Quali motivi e quali processi hanno contribuito in questo senso?
MS - Più che di esaurimento, parlerei di polverizzazione o di contagio. Se mi pare innegabile che una certa “spinta propulsiva” sia oggettivamente venuta meno, questo non vuol dire che l’insieme di problemi che facevano grappolo intorno a quell’etichetta così deliberatamente vaga non sia ancora in cima a molte agende di ricerca e di lotta. Penso in primis ai compagni giuristi di Torino e poi a un’altra giurista che mi ha insegnato molto e che è diventata un’amica cara: Maria Rosaria Marella. Se è vero, cioè, che i beni comuni non sono più il “significante-padrone” della scena dei movimenti, è anche perché hanno avuto una funzione di fase e, nei loro limiti, sono diventati oggetto di critica proprio da parte di chi li aveva introdotti nel dibattito. Non mi pare cioè una traiettoria da cui ricavare indicazioni negative (o diciamo meglio: non “troppo” negative; lo stato dell’epoca non inclina a essere granché ottimisti, ben aldilà dei beni comuni). Piuttosto, mi pare, essi hanno subito una metamorfosi e hanno irrigato pratiche e riflessioni molto diverse, che vanno da un diverso modo di insegnare il diritto privato (il che io credo non sia veramente qualcosa di poco conto), a una discussione sui istituzioni e contro-potere che difficilmente avrebbe preso la piega che ha avuto senza che la questione del diritto e del comune non si fosse posta come centrale (fatti salvi gli svolgimenti anche divergenti che essa ha potuto incontrare); da una miriade di iniziative politiche diverse (penso alla recentissima delibera di iniziativa popolare torinese “Vuoti a rendere”: https://www.vuotiarendere.org/) a una specie di dialetto cosmopolita che permette ancora incontri fruttuosi e pratiche energetiche più o meno in mezzo mondo. Credo insomma che bisognerebbe avere a che fare con i beni comuni un po’ come con la scala di Wittgenstein, che si può buttare una volta saliti sul muro: ha permesso di fare e vedere cose che altrimenti non sarebbero state nell’orizzonte di visibilità e di praticabilità di ricercatori e militanti.
Da un punto di vista più generale, a me pare che la questione della cooperazione – cioè di una produzione della ricchezza e un’estorsione del valore – che si opera su ciò che alla lettera ci è comune, e quella di istituzioni non sovrane – cioè non monopoliste, non nazionali – sia più che mai all’ordine del giorno. Contro la guerra e per il reddito potrebbe essere lo slogan di questo Nachleben dei beni comuni.
NOTE
1 M. Foucault, Bisogna difendere la società. Corso al Collège de France (1975-1976), Milano, Feltrinelli, 1998; Id., Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), Milano, Feltrinelli, 2005; Id., Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Milano, Feltrinelli, 2015.
2 M. Fioravanti, Lo Stato moderno in Europa. Istituzioni e diritto, Bari, Laterza 2002; P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, Bari, Laterza, 1995.
3 M. Spanò, Il caso e la tradizione. Yan Thomas “teorico” del diritto, in In ricordo di Yan Thomas. Atti del convegno di Urbino, Pesaro, Intra, 2024, in corso di pubblicazione.
4 L. Colletti [1971], Marx, Hegel e la Scuola di Francoforte, in Cassano, F. (a cura di), Marxismo e filosofia in Italia 1958-1971, Bari, De Donato, 1973, 285-301.
5 Y. Thomas, Présentation, in «Annales. Histoire, Sciences Sociales», 6, 2002, pp. 1425-1428.
6 M. Spanò, Towards a juridical archaeology of primitive accumulation. A reading of Foucault’s Penal Theories and Institutions, in «Radical Philosophy», 2, 11, 2021, pp. 19-26; Id., Dalla tragedia al romanzo. Sull'uso borghese della penalità, in «Aut Aut», 393, 2022, pp. 44-58.
7 Risoluzione legislativa del Parlamento europeo del 27 febbraio 2024 sulla proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio sul ripristino della natura (doc. A9-0220/2023).
8 P. Napoli, Variazioni sull’adagio: «La natura può fare a meno dell’uomo», in "Filosofia politica" 3/2023, pp. 447-464, doi: 10.1416/108562
9 Il riferimento è a M. Spanò, «Perché non rendi poi quel che prometti allor?» Tecniche e ideologie della giuridificazione della natura, in Y. Thomas– J. Chiffoleau, L’istituzione della natura, Quodlibet, Macerata 2020.
10 G. Teubner, Ibridi ed attanti attori collettivi ed enti non umani nella società del diritto. Milano Udine, Mimesis, 2015.
11 J-L. Nancy, Être singulier pluriel, Paris, Éditions Galilée, 1996.
12 M. Spanò, Fare il molteplice. Il diritto privato alla prova del comune, Torino, Rosemberg & Sellier, 2022
Anna Guerini è assegnista di ricerca all’Università di Bologna, presso la quale ha svolto anche il dottorato, dopo aver conseguito la laurea in filosofia all’Università di Padova. Il suo lavoro di ricerca, guidato dalla prospettiva storico-concettuale, si focalizza principalmente sul legame genetico tra patriarcato, democrazia moderna e rapporto di capitale, con particolare riferimento all’Ottocento.
Luigi Emilio Pischedda è assegnista di ricerca all’Università di Bologna e all’EHESS (LIER-FYT) all’interno del Programma Vinci 2023. Ha conseguito il dottorato presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e l’Université Paris 1 Panthéon-Sorbonne. I suoi interessi di ricerca si situano nell'intersezione tra filosofia del diritto e filosofia politica moderna, privilegiando un'ottica attenta agli aspetti metodologici della storia concettuale e della metaforica politica