Intervista a Marina Lalatta Costerbosa

A cura di Filippo Del Lucchese

Marina Lalatta Costerbosa è ordinaria di Filosofia del diritto nel Dipartimento di Filosofia e Comunicazione.È approdata alla filosofia del diritto dopo un percorso filosofico-morale (Laurea in Filosofia a Bologna) poi storico-politico (Dottorato a Torino). Ambiti di ricerca sono il diritto, nelle espressioni più paradossali (nazismo, tortura ecc.), questioni di bioetica, la violenza sui bambini.Tra le pubblicazioni: Ragione e tradizione. Il pensiero giuridico ed etico-politico di Humboldt (Giuffrè 2000); Giustizia come scambio (Boni 2000); Il diritto come ragionamento morale (Rubbettino 2007); La comunità dei diritti (Rubbettino 2008); Una bioetica degli argomenti (Giappichelli 2012); La democrazia assediata (DeriveApprodi 2014); Lo spazio della responsabilità (a cura di, il Mulino 2015); Il silenzio della tortura (DeriveApprodi 2016); Orgoglio e genocidio (DeriveApprodi 2016, con A. Burgio); ¿Legalizar la tortura? Auge y declive del Estado de Derecho (Tirant lo Blanch 2018, con M. La Torre); Il bambino come nemico. L'eccezione humboldtiana (DeriveApprodi 2019); Günther Anders (DeriveApprodi 2023).

Günther Anders. Atomica. Vergogna. Totalitarismo tecnologico. Discrepanza. Mostruoso, Roma: DeriveApprodi 2023.

Segnalibri Filosofici: Partirei da una domanda molto ampia e generale: perché rileggere oggi Günther Anders?

Marina Lalatta Costerbosa: In realtà la domanda potrebbe anche essere «perché tutto sommato Günther Anders è stato letto così poco?» Se muoviamo dai temi al centro della sua riflessione, dai problemi che riesce a vedere, dalle dinamiche che riesce a leggere attraverso la sua analisi, con la loro portata strutturale rispetto alla società contemporanea tecnologica, è sorprendente quanta poca fortuna Anders abbia avuto da un certo momento in poi, al contrario del suo successo iniziale. Nel rapporto intellettuale, non solo coniugale (per una fase della loro vita), con Hannah Arendt e negli anni del loro matrimonio, dal 1929 al 1937, era lui la figura di riferimento, quasi la figura che può metterti in ombra, che può non consentirti di emergere e di esprimere una tua riflessione autonoma. Dopo di che la vicenda è andata in una direzione che si è completamente capovolta, effettivamente anche in positivo: penso che la riflessione di Hannah Arendt torni e ritorni e ci imponga sempre nuove riflessioni che ci permettono di vedere dinamiche anche perverse. Ma Anders no, è rimasto ed è rifluito invece in una dimensione meno nota.


SF: Questo non solo per l’Italia?

MLC: Non solo per l’Italia. C’è naturalmente la letteratura andersiana e degli andersiani (che è però una cosa diversa, ci sono sempre gli specialisti ‘di qualcuno o qualcosa’). Però manca una considerazione ampia e trasversale, quando viceversa, secondo me, ci sono elementi anche teorici – e non solo di critica della società e quindi relativi alle spiegazioni che immagina di poter dare di un processo di progressiva alienazione e reificazione – , anche costruttivi della sua indagine che, a mio parere, sono meritevoli di grande attenzione. Se noi ci riferiamo spesso ad Arendt, per esempio, per comprendere il male agito nelle sue varie manifestazioni, al fatto che il male abbia a che fare con il nostro non-pensare; tralasciamo Anders, il quale dà una spiegazione simile ma in qualche modo opposta: invece che al deficit di pensiero conferisce centralità al deficit di immaginazione e a ciò che determina questa sospensione della capacità immaginativa che abbiamo. Questo secondo me non è così superato sul lato costruttivo, come ragionamento, e sotto vari profili. Quindi “perché”, tornando un po’ anche alla tua prima domanda, “perché” leggere o continuare a leggere, “perché” riprendere in mano i testi di Anders? Perché effettivamente, sotto i diversi profili delle ingiustizie che si determinano, il tema dell’immaginazione può essere un tema da non trascurare proprio sul piano costruttivo, questa è l’idea e su questo Anders resta un autore di riferimento.

SF: Scendiamo un po’ nelle questioni di cui ti sei occupata nel volume pubblicato da DeriveApprodi: mi interessa la questione del suo pessimismo, nonostante il quale Anders riesce a restare un uomo del dialogo: cerca il dialogo nella sua vita e però spesso non lo trova, o è un dialogo mancato, come con Eichmann junior ed Eatherly?

MLC: Si, lui si ostina, Anders vuole proprio entrare in dialogo, vuole comunicare, vuole instaurare una relazione dalla quale vuole qualcosa però di specifico. Con Claude Eatherly, il pilota che si macchia di una scelta che di fatto è quella di dire che è preferibile Hiroshima per sganciare la bomba, perché le condizioni metereologiche sono in questo momento migliori in quel luogo; ma poi impazzisce, diventa una persona che non riuscirà più ad avere una vita, una vita sua, tutto sommato essa verrà devastata da questo senso di colpa. Con Claude Eatherly, Anders riesce dal ‘59 in poi ad instaurare effettivamente un dialogo: inizia questo carteggio molto fitto, molto ricco e partecipato da parte di entrambi, con Anders che cercherà di aiutarlo nelle sue vicissitudini psichiatriche e giudiziarie, che poi si intrecciano nella vita di Claude Eatherly. E per Anders questo è fondamentale: il fatto che Eatherly si sia macchiato di quella colpa così nuova, perché è da un lato ‘colpa’, ma ha anche una dimensione di non- colpevolezza, perché va al di là della mera responsabilità individuale e rientra in una logica della macchina, la logica di un progresso prometeico che pervade la stessa percezione che gli esseri umani cominciano ad avere di loro stessi. È importantissimo: è tutto quello che abbiamo per provare a costruire e a diffondere una consapevolezza.
Invece, la risposta mancata di Klaus Eichmann va nella direzione contraria: risposta che ostinatamente cerca di ricevere a una prima lettera che invia subito dopo il processo ad Adolf Eichmann. Siamo nel 1963, e Anders scrive questa lettera aperta al primogenito dell’alto gerarca nazista Eichmann, Klaus, chiedendogli sostanzialmente di – è il termine che proprio utilizza Anders – tradire il padre: hai perso tuo padre due volte, lo hai perso perché è morto, ma lo hai perso anche perché hai scoperto che era Adolf Eichmann, dopo aver vissuto una vita ignaro di questo, in Argentina, chiamandoti Klement e non Eichmann. Gli chiede delle cose specifiche, non solo di prendere le distanze, ma proprio di disconoscerlo come padre, cioè rappresentare il simbolo di un gesto che potrebbe essere simbolicamente in capo a Klaus Eichmann, ma che in fondo potrebbe essere il gesto di ciascuno di noi. Il titolo della raccolta delle lettere brevi a Klaus Eichmann è Noi figli di Eichmann perché è precisamente il gesto che un’intera generazione dovrebbe fare nei confronti dei propri padri. Questa risposta, questo esito non c’è, e allora in questo senso si potrebbe dire che alla fine il messaggio, quello che Anders ci consegna, è un’analisi meravigliosamente articolata e profonda, ma su uno sfondo di pessimismo. Tra l’altro di questo parlavo proprio stamattina a lezione, perché ci sono anche altri luoghi dell’opera L’uomo è antiquato dove si percepisce questa visione disperante e quindi negativa e pessimista; che però non vuol dire che Anders neghi la possibilità di un cambiamento. Sul piano delle possibilità, quindi di ciò che sarebbe possibile, io non credo che Anders sia pessimista, l’orizzonte della possibilità lo mantiene aperto.


SF: Nonostante il quadro pessimista...

MLC: Nonostante tutto, certo, perché questo poi giustifica anche la sua insistenza: lui per una vita continua a tornare su questo, non in modo ripetitivo ma variamente in tutte le forme della sua esistenza, possiamo dire; fino all’ultimo partecipa alle marce per la pace e continua nella sua denuncia del riarmo, dei rischi dell’atomica, che poi in senso molto più lato sono i rischi di un progresso tecnologico lasciato a se stesso, svelando i meccanismi interni che possono determinare tutto questo. Io credo quindi che anche questa ricerca, come dicevi tu giustamente, di dialogo, comunicazione, stia dentro a una sfida normativa, quelle biografie sono importanti, non è un cinico che sfrutta e strumentalizza, ma sono importanti anche per la valenza simbolica che possono avere e quindi sono delle possibili àncore di salvezza, possono aumentare la speranza. Le risposte mancate ovviamente vanno nella direzione contraria.

 

SF: Insistiamo su questo carattere normativo del suo pensiero, perché tu ti avvicini a questo testo e a questo autore da filosofa del diritto, naturalmente anche da qualcosa di più, ma con quel background giusfilosofico; dunque, che cosa ci insegna la sua lettura sulla possibilità di normative, sul senso del normare, del controllare le derive della scienza a cui lui assisteva e a cui noi assistiamo oggi?

MLC: Una domanda più difficile dell’altra. Difficile perché ci possono essere effettivamente più risposte che si possono dare. Credo che sia molto importante il disvelare la pericolosità e i rischi che accompagnano non tanto il riconoscimento di una fattualità, di una realtà che può essere liberticida o disumana, che può essere riduzionistica rispetto alla pienezza dell’essere umano e delle sue potenzialità, non tanto questo – cosa che pure Anders fa, consegnandoci un’immagine della società nella quale quello che è accaduto, secondo lui, nella sua ricostruzione è una sorta di sovvertimento di tutti i valori e una sostituzione di vecchi valori, antiquati valori, con nuovi codici che assurgono a valori ma che sono i codici di funzionamento della macchina. Questa rappresentazione della fattualità fortemente deprivata è di per sé un elemento interessante, però da una prospettiva giusfilosofica lo è ulteriormente: oltre a questa analisi specifica è il dichiarare la pericolosità non tanto di una realtà così problematica, critica, deprivata, ma la sua giustificazione, la sua esaltazione, è il conferire a questa fattualità il valore; quando, in altre parole, non c’è solo una descrizione e una ricostruzione di fatti problematici, ma quando ciò che ha avuto la forza di affermarsi viene anche esaltato proprio perché ha avuto la forza di affermarsi.
C’è per esempio un passaggio nel quale Anders afferma che il problema non è tanto che a un certo punto si afferma un modello baconiano di rappresentare la scienza e il progresso scientifico, ma che questo modello viene non solo assunto acriticamente, bensì anche esaltato e reso criterio di giudizio di tutto ciò che ha valore. Dire che un progresso scientifico che possiamo rappresentare, semplificando, in termini baconiani e acritici, quindi senza limiti, diretto a ogni possibile sviluppo e ampliamento del potere dell’essere umano, diventa per Anders esiziale quando a questo si consegna anche la dimensione morale. Non solo perché si afferma di fatto, ma perché diventa anche l’unico criterio di giudizio che possiedo per dire che cosa ha valore e che cosa non lo ha: allora tutto ha valore in termini di usabilità. Generalizzando, questa rappresentazione ha valore ed è interessante di per sé per questa dinamica tra fatti e norme, tra fattualità e normatività, intese in questi termini. Si tratta di capire che quando attribuisco un valore a ciò che, di per sé, non dovrebbe rappresentarlo è perché ho compiuto un gesto ulteriore che può essere pericoloso, perché si presenta come descrittivo ma in realtà contiene un’assunzione non ulteriormente fondata e giustificata. Questa tipologia di giustificazionismo o di commistione di piani tra fattuale e normativo la vede benissimo non solo Anders, intendiamoci: Anders è tra coloro che la vedono benissimo (anche Hans Jonas la vede bene), però la plasticità della ricostruzione della società contemporanea che Anders offre è sorprendente se riletta oggi, ad esempio ai giovani, perché sembra effettivamente un po’ un visionario. Quello che sembrava un eccesso, oggi non sembra certo tale: pensiamo ai fenomeni di spersonalizzazione, alla pervasività dell’usabilità, per impiegare il termine che in modo piuttosto ricorrente si trova nel testo andersiano.

 

SF: Quando avviene questa surdeterminazione, chiamiamola così, della dimensione morale su quella meramente tecnica e fattuale? Perché quella che descrivi può sembrare a un modernista una critica di una certa modernità, e non a caso passi da Bacone. La modernità riduce per appunto la sfera morale e quelli che erano i valori dell’epoca precedente, del lungo Medioevo, per dire proprio che la scienza e la tecnica viene sottratta alla sfera della morale. È come se ci fosse invece una specie di ritorno del represso in una sorta di iper-modernità che assume inaspettatamente, nella sua pretesa neutralità, proprio un carattere morale. Quando avviene nella modernità, per Anders, questa surdeterminazione?

MLC: Quello che si può, almeno nella mia lettura dei suoi testi, ritrovare è un po’ una costante, nel quadro che lui rappresenta e definisce come la società odierna; quindi, parliamo dagli anni ‘50 in poi, quello che afferma nel primo volume di L’uomo è antiquato (1956) e che si mantiene successivamente. Quello che ritorna e ricorre nei suoi scritti, innanzitutto ne L’uomo è antiquato, è che a un certo punto si afferma qualcosa di nuovo che tenderei dunque ad assumere come periodizzante e che tuttavia, senza scadere in semplicistiche spiegazioni in termini di causa ed effetto, ha anche a che fare con l’affermarsi preliminare (parliamo dell’inizio del ‘900) di una riflessione morale che si ritrae, che quindi diventa etica, che diventa nichilismo, che diventa relativismo estremo, disincanto, quindi una visione scettica della dimensione valoriale. Anders parla di questo nichilismo etico che si afferma progressivamente e che caratterizza un po’ l’inizio del ‘900, è uno sfondo al quale non si attribuisce nessuna causa e che rende particolarmente agevole poi il determinarsi, e il manifestarsi nella storia, della disumanità più inaudita, pensa ovviamente al nazismo e alla bomba atomica. E quel nuovo lui tendenzialmente lo fa corrispondere dunque agli anni ‘40 del Novecento; è chiaramente un processo però, egli parla di una vergogna nuova, di una colpa nuova, di un uomo nuovo, che progressivamente si afferma e lì si manifesta con pericolosità. E, anche questo, senza che si suggerisca un’ineluttabilità di quel processo: quel processo si è determinato e poteva non determinarsi, ma si è determinato. Quindi anche questa non-ineluttabilità, io credo rafforzi l’idea di cui parlavamo all'inizio, cioè che nella sua riflessione Anders pensi a una possibilità di cambiamento sul lungo periodo, attraverso una lenta presa di coscienza.
C'è un luogo de L’uomo è antiquato che definisce fiaba molussica. Anders è originale, cerca di dire quello che pensa in tutte le forme, mediante distopie, fiabe, aforismi trattati e lettere... E quindi compare questo luogo in cui racconta di una fiaba molussica, racconto nel racconto. È la fiaba di questa fata malvagia, che guarisce un cieco. E come lo guarisce? Non togliendogli la cataratta, ma aggiungendo un’ulteriore cecità, quindi ingannandolo e facendogli intendere che cieco non è. Lo fa inducendogli in continuazione sogni che alimentano in lui l’illusione di vedere, di avere immagini. Quindi è un guarire che in realtà raddoppia quella cecità. Una metafora di tante cose, ma sicuramente della condizione umana, secondo Anders. Noi siamo dentro un’illusione, abbiamo questo io grandioso e trionfante che in realtà si è autoridotto a ‘cosa’, questa ‘arrogante degradazione’ nella quale l'uomo poi si trova, e perlopiù non se ne avvede. Anche questo secondo me suggerisce l'idea di essere perduti, oppure c’è la possibilità di rendersi conto, di scartare da quella doppia cecità.

 

SF: Quindi esiste una via di uscita, di resistenza?

MLC: Io penso che Anders ne sia fermamente convinto, perché è la via dell’immaginazione. Perché c'è la possibilità di disvelare quei meccanismi che hanno favorito e hanno reso gioco facile l'intervento di quella fata malvagia, la quale non è una personificazione, sono le dinamiche che si determinano. Queste logiche della macchina che sono il progresso tecnologico resosi trionfante. Queste logiche possiamo osservarle più da vicino, si è in grado cioè di individuare i sottomeccanismi che ne favoriscono la permanenza e la stabilizzazione. Il farli affiorare, il riconoscerli, quindi l’attribuire valore a un'analisi in termini costruttivi, eventualmente normativi (cosa che Anders cerca di fare in Noi figli di Eichmann), suggerisce l’idea che quelle capacità le potremmo ancora avere. La nostra è una condizione, restando nella metafora della cecità, dove però quella cecità non ha annullato la nostra condizione umana. Quindi io penso che sia comprensibile questa sua insistenza, anche molto efficace sul piano argomentativo, nel cercare di capire qual sia il punto vero, dov’è che ci si inceppi. Perché tutto questo sembrerebbe surreale: perché ci si dovrebbe ridurre in queste condizioni? Perché ci sono una serie di meccanismi che si determinano psicologicamente in termini individuali e in termini sociali, che sono sistemici e che favoriscono l’«incepparsi» di quei meccanismi, che noi invece avremmo, di riconoscimento, di resistenza rispetto all’agire di quella fata malvagia. Però rimangono silenti... vanno riattivati.


SF: Questa situazione è più questione di capacità individuale, magari di un individuo che riesce infine a vedere, oppure esiste una via sociale, comune, per resistere, una via politica? È più un percorso etico-morale o politico?

MLC: Questo mi fa venire in mente Hans Jonas. Perché poi in fondo anche Jonas ha teorie diverse della società eppure c'è chiaramente una convergenza, un sentire comune. E mentre Jonas chiama in causa esplicitamente il politico, per cui ritiene che ci debba essere un gesto politico, una soluzione in termini di responsabilità politica, perché la paura rispetto alla distruzione dell'umanità nel futuro possa trasformarsi in azione e quindi in inversione di rotta, in Anders, mi pare che ci sia una visione meno politica, nel senso dell'autorità politica, nel senso dello Stato. Eventualmente essa è politica, ma orizzontalmente, quindi come assunzione larga e sociale di consapevolezza. Io credo che Anders scommetta di più su un’opinione pubblica che progressivamente cambia, su un lavoro più parcellizzato, più diffuso, più esteso, più culturale, se vogliamo, piuttosto che sulla responsabilità del politico; come mi pare più marcatamente ci sia nel pensiero di Jonas.


SF: Durante la sua vita, Anders ha visto con favore qualche esperienza dal basso, non statale, che andasse nella giusta direzione?

MLC: Credo che i movimenti per il disarmo nucleare abbiano visto non solo il suo consenso ma anche la sua partecipazione, in una logica dal basso, una logica delle persone che si rendono conto ed esercitano le proprie capacità critiche, recuperando capacità immaginativa. Quindi i movimenti pacifisti, a questo tipo di risposta politica e diffusa plaude. Questo Anders non solo l’ha visto favorevolmente, ma a questo egli ha dato anche variamente la propria adesione.


SF: Torniamo un attimo sull’aspetto negativo. Insisti nel libro su quello che lui riconosce come un meccanismo di correità di corresponsabilità, in cui tutti in qualche modo siamo corresponsabili di quel male che alla fine ci sommerge. Se mettiamo questo aspetto di corresponsabilità in relazione allo sviluppo scientifico, non c'è una contraddizione col fatto che man mano che questa scienza si sviluppa ci sfugge sempre più di mano. Non solo a noi, ma anche agli scienziati stessi. Penso alle punte estreme di questo, oggi gli sviluppi e ai pericoli evocati per l’intelligenza artificiale che gli stessi programmatori non sanno dove stia andando. Come si fa a parlare ancora di corresponsabilità e di correità di noi tutti se il fenomeno scientifico è sempre più sfuggente?

MLC: Giustamente nomini l’intelligenza artificiale, ma si potrebbero nominare anche le ultime frontiere della genetica della modifica del genoma umano. E i ricercatori in entrambi i campi sono allarmati. Non sono trionfanti, si rendono conto che da un lato c’è qualcosa che va e andrà, ma dall’altro lato si rendono conto che è indispensabile la riflessione morale, ragionare sul tema del limite. Questo atteggiamento già non corrisponde all'analisi di Anders che tendenzialmente, quando parla di colpa, fa riferimento a un tratto trionfante, acritico, di esaltazione di quel progresso che pure è largamente rappresentato tutt'oggi. Ecco quindi l’idea andersiana, secondo la mia lettura (sai che è stato definito – sbagliando - anche un sabotatore reazionario, una figura che vorrebbe che non ci fosse il progresso scientifico). Io credo che quello che egli invita ad avere è un atteggiamento di consapevolezza: il dover individuare e rappresentare il più possibile, rispetto al nuovo, gli ordini di problemi che sotto il profilo morale si possono generare. Dopodiché esiste soltanto l’etica che poi è il diritto.
Non è quindi un bloccare la ricerca nel mondo, ma mettere a fuoco quali possano essere i limiti e i confini del lecito. Quindi in qualche modo credo che la riflessione di Anders possa andare in questa direzione: una sempre più autentica e competente assunzione di responsabilità. Su questo giustamente dicevi che Anders parla di una corresponsabilità in Noi figli di Eichmann. È vero, ma anche nel suo caso, come nel caso di Hannah Arendt, parlare di responsabilità collettiva diffusa non vuol dire parlare di colpa collettiva. Per cui io individualmente non ho colpe, ma se individualmente non si ha una colpa non vuol dire che non si faccia parte di una storia e di una vicenda nella quale vi è una responsabilità storica e collettiva. Quello che accade, e che storicamente mi appartiene, anche se non ho scelto niente e sono nata dopo, comunque mi appartiene come storia, configura una responsabilità e si può trasformare in una colpa nella misura in cui io voglio rimuovere. Allora abbiamo quella pagina piuttosto illuminante di Noi figli di Eichmann nella quale Anders esce dalla metafora della fata malvagia che induce una doppia cecità e fa riferimento piuttosto a un lessico freudiano, e parla di rimozione. Come se vivessimo in una gigantesca rimozione di tutto quello che perdiamo e di tutti i problemi che sorgono nell'andare sparati nella direzione nella quale stiamo andando.

Solo che parlare di rimozione è rischioso. Perché quantomeno c'è il rischio di suggerire una deresponsabilizzazione, è un meccanismo psicologico per cui di fronte alla difficoltà, alla paura e al male, io rimuovo e vado avanti. Dietro a quella rimozione c'è invece per Anders una scelta. Quindi lì si può configurare eventualmente una responsabilità, eventualmente una colpa, perché si sceglie di non immaginare. È una doppia possibilità di non immaginare: perché si accetta di non immaginare e perché è capitato qualcosa che non consente di immaginare, perché non si riesce più a vedere la fine, a vedere fino in fondo le conseguenze; perché c’è una tale discrepanza che la capacità immaginativa non si manifesta. Si potrebbe immaginare e però, in fondo, si sceglie di dare spazio a un meccanismo che in autotutela rimuove quelle conseguenze. E qui i confini sono abbastanza labili tra responsabilità, colpa, corresponsabilità. Credo che la cosa più importante sia proprio quella di mantenere distinto il piano collettivo da quello individuale e non immaginare una colpa collettiva perché quella poi sarebbe, come ci ha insegnato Arendt, in realtà una soluzione generalizzata: tutti colpevoli e dunque nessun colpevole. Invece un'assunzione di responsabilità, nella mia lettura, deve essere anche individuale. Cioè non solo demandata al rappresentante politico, ma trasformarsi in un gesto di fiducia, in un movimento, più esteso, una soluzione che ricorda po' come il movimento di sensibilizzazione che si cerca di costruire nei confronti della grave crisi ambientale. Credo che Anders oggi crederebbe in questo; ma forse è una visione mia, una visione un po’ infantile. Ma poi del resto Anders diceva: «Io sono un infantile» e questa, forse, questa è una risposta un po’ trasversale alle domande. Egli si chiede: «ma io perché scrivo in fondo? A chi sto parlando? A chi è rivolto quello che dico e questo mio insistere...? A quelli infantili come me, io in fondo sono infantile perché non sono pessimista, perché insisto. E allora scrivo a quegli infantili come me che credono che ci possa essere una direzione diversa. Questo sguardo infantile è la parte conclusiva, di uno scritto breve, forse un intervento, in cui mi aveva colpito lo sguardo del bambino, quindi un po' ingenuo, con quella ostinazione che corrisponde a una fiducia infantile.


SF: E questa infanzia ci porta più in direzione dell’affettività che della ragione. Usi due categorie nel libro che sono l’indignazione e poi la fantasia morale, entrambe rimandano a una sfera dell’affettivo più che una presa di coscienza razionale.

MLC: Rispetto al male, nelle sue varie forme, diciamo, all'ingiustizia, alla violenza in senso lato, la risposta prevalente di Hannah Arendt è: «Come è possibile? Perché non pensiamo», il pensiero è centrale, quindi la razionalità e la presa di consapevolezza razionale sono necessarie. Hans Jonas confida molto nella forza euristica della paura per cui alla fine il movente che può produrre empiricamente un cambiamento è la paura: io mi attivo quando ho paura. Allora quando ho paura di perdere qualcosa capisco che quel qualcosa ha valore. Anders, invece si colloca un po' in una in una posizione intermedia tra la razionalità del pensiero di Arendt e la paura, la passione, primo movente di Jonas. Anders crede nell'immaginazione, cerca di combattere quell’analfabetismo emotivo che la logica della società tecnologizzata genera. E quindi, come dicevi giustamente, l’affettività, il senso morale, quella capacità di immaginazione, è il gioco su cui scommette Anders. D’altro canto, è una scommessa che non richiede capacità di analisi, che gioca sul terreno del sentimento, dell'affettività, la quale forse denota anche una visione non negativa della natura umana: non è un’antropologia negativa (in questo senso), perché negativi sono i processi che si sono determinati e che non erano compresi nella natura del necessario.

 

SF: Quindi di nuovo un pessimismo che lascia aperta la porta. Chiudiamo su una sesta parola chiave oltre le cinque incluse nel volume: quale sarebbe stata, se tu avessi potuto sceglierla?

MLC: Quando ho mandato il primo file del libro, ho pensato «cinque, sei, poco importa». E allora ne avevo inserite sei. E invece no, dovevano veramente essere cinque! Quindi la sesta è poi rifluita ed è stata sintetizzata nelle altre. La sesta parola chiave andersiana che avevo scelto era Homo materia, che sintetizza in una immagine questa auto-rappresentazione nuova che l'uomo ha di sé nella società contemporanea, osservata con le lenti di Anders. È l’umano che nella nostra società si autoriduce a cosa, si attribuisce valore nel momento in cui serve, è utile, spendibile, efficiente e performante; altrimenti non conta. Il dubbio era anche su Padre, perché c'è questo ritornare, in varie forme, della figura genitoriale. Nella rappresentazione di uno dei suoi concetti centrali, l'essere antiquato dell'essere umano, Anders afferma che i nostri genitori erano gli ultimi uomini perché oggi c'è un uomo nuovo, appunto homo materia e quindi i nostri padri non sono più. Il tema del padre come senso della figura genitoriale ha un significato teorico. E poi ovviamente ritorna in Noi figli di Eichmann, dove questo scartare da un padre che si è macchiato di quella colpa assumerebbe un significato teorico-morale importante. Questa sarebbe stata non la sesta ma la settima parola chiave!

Filippo Del Lucchese è professore associato di Filosofia Politica all’Università di Bologna e Senior Research Associate, Università di Johannesburg. La sua ricerca verte sulla prima modernità, dal Rinascimento all’Illuminismo, la storia del pensiero politico e il marxismo. È stato Marie Curie fellow e ha studiato nelle università di Pisa e Paris IV (Sorbonne). È autore di Tumulti e Indignatio. Conflitto, diritto e moltitudine in Machiavelli e Spinoza (Ghibli, 2004, tradotto in più lingue), The Political Philosophy of Niccolò Machiavelli (Edinburgh University Press, 2015), e Monstrosity and Philosophy: Radical Otherness in Greek and Latin Culture (Edinburgh University Press, 2019). Ha pubblicato diversi articoli sulla storia della filosofia politica moderna su riviste quali History of Political Thought, European Journal of Political Theory, Dialogue, International Studies in Philosophy, Differences. Ha insegnato in Italia, Francia, Libano, Stati Uniti e Regno Unito. La sua ricerca attuale è sui tema della mostruosità nella filosofia moderna e su conflitto, memoria e violenza politica.