Intervista a Juan Domingo Sánchez Estop

A cura di M. Bovo e P. P. Santoro

Juan Domingo Sánchez Estop

Filosofo, si occupa principalmente di Hobbes, Marx, Althusser e Spinoza, del quale ha tradotto, oltre che il Trattato Politico, anche l'Epistolario (1988).

Segnalibri Filosofici - Come è nato in lei l’interesse per il Trattato Politico (TP) e, in generale, qual è il percorso che l’ha portata ad avvicinarsi a Spinoza?


Juan-Domingo Sanchez Estop - Mi sono avvicinato a Spinoza nella seconda metà degli anni ’70 in un contesto di lotte, prima contro la dittatura di Franco, poi contro le istituzioni sopravvissute al vecchio dittatore, un tempo di fortissima tensione sociale. Ero diventato “comunista” in questa congiuntura e volevo sapere che cos’erano il comunismo e il marxismo. Dopo qualche incontro con il marxismo umanista di Garaudy, emozionalmente forte ma intellettualmente debolissimo, scoprii, in un seminario di Gabriel Albiac sul Capitale, l’opera di Louis Althusser, la forma di marxismo che mi sembrò più seria e rigorosa, meno ideologica. Ritengo che la distanza di Althusser nei confronti dei marxismi ideologici del suo tempo, soprattutto dello stalinismo, sia stata in gran parte il risultato dell’incontro tra Althusser e Spinoza. Da allora, la mia lettura di Spinoza è stata sempre unita alle opere di Althusser e di Marx.
Sono arrivato assai tardi a interessarmi al TP. Non è un testo in grado di suscitare immediatamente una passione politica, come fu il caso del Trattato teologico-politico, o un forte affetto intellettuale come succede nell’Etica. C’è qualcosa di scientifico, di freddo, di tecnico, di quantitativo (come correttamente sottolinea Charles Ramond nell’introduzione alla nuova traduzione francese) nel TP che non c’è negli altri due testi. Cionondimeno, come rilevato da Antonio Negri, il TP è il testo che scopre ed esalta la moltitudine e che combina l’ontologia dell’Etica con la teoria della pratica politica e la pratica teorica di Machiavelli. Si tratta di un testo di maturità, profondamente non utopico, il risultato di una sconfitta politica, quella del programma democratico utopico del TTP. Dopo la sconfitta e la momentanea indignazione nei confronti della moltitudine reazionaria che assassinò i fratelli De Witt e mise fine alla Repubblica Olandese, Spinoza rimase fedele alla sua massima “non ridere, non piangere, non detestare, ma capire”. Capire cosa? La dinamica della moltitudine e dell’Impero che la moltitudine costituisce in diverse forme. Non si tratta più di un programma esplicitamente democratico, ma di un vero e proprio programma di democratizzazione di tutti i regimi, della monarchia, delle diverse forme dell’aristocrazia, ma sicuramente anche dell’Imperium democraticum in seno al quale la coesistenza tra moltitudine e Imperium (sovranità rappresentativa) non è più facile che negli altri regimi. Potrebbe dirsi che l’utopia democratica fosse spiazzata da un uso sistematico della topica, poiché l’insieme dei grandi concetti della filosofia politica e dei regimi di governo viene sottoposto al criterio della verità effettuale della cosa, cioè ad una sistematica traduzione delle questioni di essenza in termini di condizioni effettive d’esistenza. La topica spinoziana è qua il rifiuto di sottomettere le realtà politiche alla norma di una essenza e di raffigurare, in uno schema di causalità complessa, il rapporto di causalità tra il tutto dell’Imperium e la moltitudine nelle sue diverse componenti, così come l’efficacia propria di queste componenti sulla dinamica del tutto. Non si tratta dunque di scoprire quale sia il potere legittimo, ma di investigare le forme di produzione dell’obbedienza che verranno ricoperte dal manto ideologico della legittimità; ma questo non basta: una volta che si costituisce la forma ideologica della legittimità, questa ha necessariamente effetti materiali. Senza una ideologia della legittimità, sarebbe ad esempio impossibile capire l’indignazione, che è sempre indignazione di fronte a un potere che si è fatto illegittimo.

 

SF - Quali sono state le principali sfide nel tradurre Spinoza in spagnolo? Le è capitato di imbattersi in termini ambigui?

JS - Il TP era già stato tradotto in spagnolo da Atilano Domínguez (1986). Non concordavo però con molte delle sue scelte di traduzione che, secondo me, banalizzavano il testo di Spinoza avvicinandolo alla filosofia politica convenzionale e ai grandi problemi che la strutturano. Nella topica spinoziana si gioca almeno su due livelli: uno è quello della verità effettuale, dei corpi, delle potenze e delle forze, un altro è quello dell’immaginazione. Il secondo è spiegato causalmente dal primo, ma ha comunque un’esistenza propria e produce i suoi effetti. Pur essendo illusione, non è semplice illusione ma risultato di dispositivi e apparati materiali di produzione d’illusione. I grandi concetti della filosofia politica sono nozioni immaginarie, come quelle della teologia alla quale sono vicini. Molto prima dei grandi filosofi reazionari del Ottocento e del Novecento come Donoso Cortés e Carl Schmitt, Spinoza lo aveva spiegato nel TTP.
Si pone davanti al traduttore di Spinoza un problema di duplice traduzione: si deve tradurre l’opera di Spinoza in una lingua moderna, certo, ma questa traduzione linguistica è la ‘traduzione di una traduzione’ teorica. Una traduzione nel senso etimologico di traduco, portare o spostare in un altro luogo che è uno degli spazi esibiti dalla struttura topica del discorso filosofico spinoziano: tradurre dunque una traduzione dell’immaginario nel razionale nei termini di una lingua di destino, come tutte immaginariamente costruita. Uno dei termini che per noi, come per tanti altri traduttori di Spinoza, rappresentava una grande difficoltà era quello di Imperium, che ha una grande polisemia, con sensi che si polarizzano attorno all’idea di commando (la radice latina di Imperium è il verbo imperare) e l’idea di un luogo o di un soggetto del potere. La scelta classica di molti traduttori è stata di tradurre Imperium con Stato, ma questo presenta gravi svantaggi visto che il primo senso di Imperium, il comando è una relazione, mentre il secondo si riferisce piuttosto a una sostanza. C’è chi, davanti a questa difficoltà, ha rifiutato, come Pautrat (2013) nella sua traduzione francese, di tradurre il termine mantenendo il latino Imperium come termine tecnico del pensiero spinozista. Ma anche questa scelta è discutibile, poiché il termine Imperium non è di invenzione spinoziana ma, nella tradizione moderna, appartiene alla terminologia latina di Hobbes. Contrariamente a quanto succede in Spinoza, Hobbes tenta però di produrre una comprensione univoca del termine, identificandolo al soggetto o alla sostanza del potere. Se Spinoza non unifica i diversi campi semantici del termine Imperium, non è per mancata precisione ma per una sua propria strategia discorsiva che sceglie la dispersione semantica e i sensi immanenti sopra ogni forma di trascendenza del potere alle relazioni che lo costituiscono. C’è anche chi ha rilevato questa ambiguità terminologica e ha scelto di tradurre Imperium in modi diversi secondo i contesti, come Stato o come sovrano, ecc. Io ho optato per la seconda soluzione, traducendo Imperium per sovranità quando nella prima occorrenza Spinoza riprende nella sua definizione i segni della sovranità di Bodin, poi traducendo Imperium per Stato e persino come comando in altri contesti. Con questo, però, il problema veniva spostato. Si doveva evitare un uso troppo riconoscibile del termine Stato come sintesi dei due elementi di rapporto e di sostanza, quando invece Spinoza li distingue nel seno della sua topica politica. Purtroppo, l’evoluzione delle lingue, come ricorda Spinoza, segue l’immaginazione e non la verità effettuale della cosa ed è prevalso storicamente il termine Stato per designare queste realtà, insistendo però sul potere come sostanza. Non senza qualche dubbio, ho scelto di tradurre Imperium per Stato, tenendo sempre presente, come spiego in una nota, che con questo non scelgo l’univocità, ma compio la stessa operazione che compie Spinoza con il termine Dio nell’Etica. Un’operazione di ri-significazione. Nel lessico politico spinozista ci sono altri termini importanti, prima di tutto multitudo, ma questo presenta pochi problemi di traduzione nelle lingue neolatine. In castigliano c’è la parola multitud per indicare sia la pluralità che la folla. Un altro termine che presentava una certa difficoltà era civitas. Anche per civitas ho fatto una scelta relazionale, traducendo questo termine con lo spagnolo sociedad, ricordando che civitas, definito come il corpo dell’Imperium, è l’insieme dei nessi e vincoli di reciprocità che riuniscono i cives tra di loro. Nella terminologia politica romana, come ci mostra Benvéniste, il cittadino è anteriore alla città e la città, come l’amicizia, è un vincolo di reciprocità tra i cittadini. Tutt’altro che la polis greca dove i polites (i cittadini) erano definiti dalla polis (città). Ho comunque escluso la traduzione di civitas con società civile: non penso che in Spinoza ci sia una concezione separata della società civile e dello Stato, che ci sia una trascendenza dello Stato rispetto alla società civile, grazie alla quale la comunità politica viene unificata. In Spinoza, la comunità politica è sempre già unificata dai vincoli della civitas, che implicano sempre un certo rapporto tra Imperium e multitudo. Inoltre, ho approfittato dell’esistenza in spagnolo del termine mente per tradurre il mens latino di Spinoza in un modo che non implica un rapporto di identità con l’anima. La mente è soprattutto pensiero fatto di pensieri e non un principio motore del corpo fondato su una libera volontà. Ho così tradotto veluti una mens con “como una sola mente” in un senso molto vicino alla traduzione proposta da Deleuze che traduce mens con pensée. Ho cercato, in fin dei conti, di rendere tutte le mie scelte di traduzione filosoficamente e politicamente “colpevoli”. Per finire, una delle migliori prove dell’uso spinoziano dell’ambiguità è la definizione della democrazia come omnino absolutum imperium. Infatti, il termine absolutum non si usa per la monarchia che è invece il meno assoluto di tutti i regimi, perché il potere è rappresentato da un solo uomo; si può usare per una aristocrazia il cui consiglio sia abbastanza ampio per dare luogo a dinamiche di moltitudine, ma questa assolutezza sarà relativa perché ci sarà sempre nell’aristocrazia una parte esclusa. Solo la democrazia sarà dunque totalmente assoluta, come solo un Dio che è la Natura intera può essere assolutamente infinito e non solo nel suo genere.

 

SF - Con quali altre lingue e traduzioni si è confrontato? Come ha vissuto la “responsabilità” di tradurre Spinoza proprio nella lingua madre di quest’ultimo?

JS - Mi sono confrontato soprattutto con le traduzioni nelle lingue neolatine, ma anche con la traduzione di Curley in inglese. In italiano ho preso in considerazione l’edizione e traduzione di Paolo Cristofolini (2010), in francese quelle di Appuhn (1900), di Bernard Pautrat (2013), di Roland Caillois (1978) e di Charles Ramond (2005). In spagnolo, quella già indicata di Atilano Domínguez (1986). Tutte queste traduzioni hanno una stessa caratteristica: non sono innocenti e nelle loro scelte mostrano preferenze molto chiare, ma molto spesso non riconoscono la loro colpevolezza. Ad esempio, quella di Cristofolini ignora la differenza fra populus e multitudo e traduce i due termini in modo costante per popolo. Questo ha l’inconveniente grave di ignorare il fatto che la multitudo diventa popolo solo nella polarità multitudo-imperium che, più che un rapporto fisso come in Hobbes, è una tensione nella quale nessuno dei due elementi è mai soppresso. Secondo me questa scelta di traduzione, apparentemente minore, guida il lettore verso una lettura piatta e normalizzata, quasi hobbesiana del testo di Spinoza, ignorando il lavoro teorico sul concetto di multitudo fatto dopo Antonio Negri da autori come Balibar, Morfino o Del Lucchese. Mi sento vicino alle scelte di lettura e traduzione di Caillois e Ramond che evitano sistematicamente la cristallizzazione del lessico politico spinoziano secondo le linee delle filosofia politica classica. La dispersione concettuale, la definizione come risultato non della corrispondenza o meno di una realtà singolare con una essenza astratta, ma dell’incontro di linee diverse di causalità all’interno di una congiuntura, sono elementi determinanti del testo di Spinoza che andrebbero resi in qualsiasi traduzione verso una lingua moderna. Quanto alla responsabilità di tradurre il testo di Spinoza in una lingua che probabilmente era la lingua madre dell’autore bisogna vederla fuori di ogni sentimentalismo nazionale. Dietro al testo di Spinoza si vede in molte occasioni, persino nell’Etica, palpitare lo spagnolo o il portoghese. Ricordiamo che nella comunità di origine di Spinoza il portoghese era la lingua ‘veicolare’, mentre il castigliano, lo spagnolo, era la lingua ‘referenziale’. Non sappiamo cosa Spinoza parlasse a casa sua, ma la sua biblioteca contiene i classici del Secolo d’Oro spagnolo e molti intellettuali ebrei di Amsterdam usavano lo spagnolo come lingua di cultura, piuttosto che il portoghese, lingua dei rapporti quotidiani. C’è indubbiamente una relazione importante fra Spinoza e la cultura spagnola del suo secolo, anche con la cultura politica. La presenza nel Trattato Politico di paragrafi interi di un testo essenziale per la dissidenza politica spagnola come sono le Relaciones di Antonio Pérez ne è un buon esempio. Questo testo autobiografico del vecchio segretario di Filippo II, poi perseguitato dal re in seguito a degli intrighi di palazzo e rifugiato in Aragona sotto la protezione delle autorità aragonesi, diventò nella Spagna del Secolo d’Oro e in tutta l’Europa un vero e proprio manifesto contro la monarchia di Spagna, poi contro ogni tipo di monarchia assoluta. Il nervo di questo testo sono i capitoli dedicati a descrivere la monarchia, prima elettiva, poi limitata dalle cortes (parlamento) e le altre istituzioni di Aragona come un contro-modello del potere assolutista. I capitoli del TP sulla monarchia sono in grande misura debitori delle riflessioni di Antonio Pérez, alle volte citato esplicitamente, ma anche oggetto di citazioni nascoste. Ho voluto limitare la traduzione al minimo dove si trattava di Antonio Pérez e far riemergere il testo dell’originale spagnolo, con un lavoro molto discreto di adattamento allo spagnolo contemporaneo. Nel testo di Spinoza risuonano le voci di altri autori spagnoli come Saavedra Fajardo, ma mai con la stessa intensità di quella di Antonio Pérez. Il proprio titolo del Trattato Politico deve molto alla congiuntura politico-ideologica spagnola, poiché il termine politico non ha la trasparenza che noi volentieri gli attribuiamo ma deve essere capito nel suo uso epocale. Politico è praticamente sinonimo di Machiavelliano. Infatti “los políticos”, per riferirsi ai machiavelliani, era il termine usato da Claudio Clemente nel suo El maquiavelismo degollado por la cristiana sabiduría de España (Alcalá de Henares, 1637) i cui temi fondamentali furono ripresi da Abraham Pereyra, un teologo difensore dell’ortodossia nella comunità ebraica di Amsterdam nella sua opera Espejo de la vanidad del mundo (Discurso IV, cap. I), pubblicato ad Amsterdam in 1671. I políticos, in entrambi i testi, sono presentati come una setta con i propri rituali segreti e senza una posizione teorica in materia politica. Ci sono anche importanti trattati spagnoli che tentano di contrastare il male machiavelliano opponendogli una politica cristiana come la Idea de un Príncipe político-cristiano di Saavedra Fajardo o anche la Política de Dios, Gobierno de Cristo, di Francisco de Quevedo. Il titolo scelto da Spinoza dovette risuonare come una forte provocazione almeno in un ambiente culturale e ideologico che era ancora molto vincolato alla Spagna. Ci sono certamente testi olandesi coevi dove il termine político appare nel titolo, come la Bilancia Politica di Adriaen Koerbaegh che ha anche influenzato Spinoza, ma questi testi si presentano esplicitamente come machiavelliani e non fanno parte di una polemica spagnola come riteniamo lo faccia il TP. Naturalmente, ci sono altre voci non spagnole nel testo di Spinoza come quelle di Machiavelli, citato nel testo ma presente quasi ovunque come ha mostrato il lavoro filologico di Vittorio Morfino. Inoltre, anche Tacito è presentissimo, probabilmente grazie all’educazione latina impartita a Spinoza da Franciscus Van den Enden. Bisogna ricordare che Tacito era in quel momento l’autore del realismo politico che si poteva citare invece del pericoloso Machiavelli, grazie al suo statuto di classico latino. Il tacitismo politico, nella Spagna del Secolo d’Oro, era un autentico Ersatz di machiavellismo e fu usato a tale fine da autori come Saavedra Fajardo o Quevedo. Altri classici latini molto presenti sono Suetonio e Seneca.

 

SF - Che tipo di legame si individua tra la concezione di democrazia presentata nel TTP e quella proposta nel TP?

JS - La democrazia nel TTP era un orizzonte utopico, ma contemporaneamente anche il fondamento di ogni vita politica e sociale. Non a caso la definizione della democrazia nel TTP corrisponde letteralmente a quella dell’Imperium nel TP. La democrazia e l’Imperium sono l’espressione della potentia multitudinis. Nel TP, però, la democrazia non è più il fondamento di ogni vita politica, ma un regime politico dentro una serie limitata di regimi: monarchia, aristocrazia 1 (unitaria), aristocrazia 2 (federale) e democrazia. Il progetto spinozista nel TTP, oltre a conseguire la libertas philosophandi, è sicuramente di abolire le diverse espressioni della vita politica delle società in favore di una espressione diretta del loro fondamento democratico. Così i diversi regimi sono forme pervertite di una comune essenza democratica. La degenerazione monarchica della democrazia teocratica degli Ebrei ne è un buon esempio. Invece nel TP non c’è questo orizzonte della degenerazione, ma una tensione costitutiva tra multitudo (non necessariamente democratica, come Spinoza ha potuto verificare durante gli episodi di violenza brutali dell’insurrezione assolutista) e un imperium non necessariamente assolutista. Secondo il modo di rappresentazione della potentia multitudinis nell’imperium, cioè a seconda delle diverse forme immaginarie della sovranità come rappresentazione, troviamo nella storia umana diversi regimi: il regime dove uno solo rappresenta la potentia multitudinis, quello dove la rappresentazione ricade su alcuni, per giungere a quello omnino absolutum (interamente assoluto) dove la rappresentazione di se stessa ricade sulla moltitudine. Dalla monarchia alla democrazia si va avanti secondo una linea dalla più grande a quella - teoricamente - nulla della separazione tra governanti e governati, tra minima e massima presenza della moltitudine nel governo. Questo non significa che possa esistere un governo nel quale sia interamente assente la moltitudine. Soprattutto nella monarchia questo non è possibile perché un individuo solo non è in grado di garantire la continuità e la stabilità dell’Imperium. La monarchia assoluta è dunque puramente utopica e nelle monarchie realmente esistenti è indispensabile che il Re venga consigliato da un numero importante di consiglieri, persino da un gran consiglio. Le aristocrazie fondate su assemblee chiuse che ostentano il monopolio dell’Imperium si avvicinerebbero all’Imperium absolutum se non esistesse una popolazione residua che non ha parte nella cittadinanza attiva. Comunque, così come questi regimi, quando sono governati da una assemblea numerosa, danno un certo grado di partecipazione a una parte importante della moltitudine, le aristocrazie sono più vicine all’imperium democraticum. Però non bisogna dimenticare che la democrazia, benché non sia basata sulla cooptazione come l’aristocrazia ma su un diritto immediato di partecipazione politica definito e delimitato dalla legge, è una forma di rappresentazione, non una anarchia che possa interamente prescindere di un certo grado di separazione immaginaria dell’imperium. Spinoza si trova qua molto vicino alla sua metafisica: è vero che Dio è una sostanza assolutamente infinita che include in sé stesso tutti i suoi infiniti effetti, ma non è meno vero che immaginiamo Dio come qualcosa di separato o almeno distinto dalla Natura. Ora, quando si parla di rappresentanza si parla sempre di immaginazione, di rappresentarsi una cosa come presente anche quando è assente. Questo capita anche nella democrazia: l’Imperium ha inevitabilmente una dimensione rappresentativa e immaginaria, lo vediamo come un potere che ci sovrasta in un modo o in un altro. Se la divisione tra imperium e moltitudine era quasi “naturale” nella monarchia o nella aristocrazia, la democrazia che si definisce come un imperium ma anche come quello che include immediatamente la moltitudine presenta un problema di difficile soluzione. La tensione imperium- moltitudine, che si tentava di compensare mediante il numero dei consiglieri del monarca o dei patrizi integranti il consiglio nell’aristocrazia, sembrerebbe interamente superata nella democrazia. Non lo è purtroppo, perché la democrazia è anche un imperium e da questo emanano anche spiacevoli conseguenze.

 

SF - Alla luce delle ultime considerazioni di Spinoza nel TP, perché risultano necessarie delle forme di esclusione dalla democrazia (donne e servi) per il mantenimento dell’equilibrio?

JS - Le esclusioni di donne e servi sono classiche nella teoria politica. Nell’Antichità la politica si definiva per opposizione all’oikonomia, cioè all’attività privata di amministrazione dei mezzi di produzione e di riproduzione appartenenti al libero cittadino. Schiavi, donne e bambini appartenevano a questo ambito della vita sociale; solo gli uomini liberi (maschi) partecipavano alla vita politica nell’ecclesia greca o ai comitia romani. Nell’epoca moderna ritroviamo, forse, gli stessi oggetti d’esclusione ma secondo altri criteri. Il criterio dominante è l’essere sui iuris e non alieni iuris, essere indipendente e non dipendente. Questo escludeva sempre donne e servi, ma anche i bambini, i pazzi, i delinquenti, ecc. Spinoza riproduce nel suo testo queste esclusioni dalla politica basate su ragioni prepolitiche. Lo fa soltanto a proposito della democrazia, perché negli altri regimi bisognava compensare la trascendenza relativa della rappresentazione sovrana con l’integrazione del maggior numero possibile di individui nelle istanze di deliberazione. Si trattava di integrare al massimo il polo della moltitudine in quello dell’Imperium. Per la democrazia, questa operazione non ha più senso, invece quella contraria sarà indispensabile: bisogna integrare l’imperium in una moltitudine che per definizione dovrebbe possederlo. Per ciò, una forma di esclusione è indispensabile e quella di donne e servi era facilmente disponibile nella tradizione delle dottrine politiche, ma anche nel registro etnografico.
Spinoza non esclude subito le donne ma si chiede se la situazione presente di esclusione sia stata la stessa in tutti i tempi e luoghi. Se così non fosse stato si dovrebbe concludere che l’esclusione delle donne non ha una base naturale, ma una base politica e sociale che potrebbe mutare. Non avendo esempi di regimi di matriarcato o di eguaglianza politica e sociale fra uomini e donne, Spinoza conclude per la naturalità probabile dell’incompetenza delle donne per i lavori di governo. Oggi questo ci stupisce, ma bisogna avere presente che Spinoza non conosce o conosce poco e male i documenti etnografici che già nel XVII ci facevano conoscere società ‘anomale’, senza proprietà privata né Stato dove le donne partecipavano in condizioni di eguaglianza alle decisioni politiche e avevano anche un enorme potere sociale, come nel caso degli Irochesi e altri popoli dell’America del Nord. L’unico documento conosciuto da Spinoza era il mito delle Amazzoni, il quale rimaneva un mito. Ciò vuol dire che le donne erano escluse dalla decisione politica, ma non che fossero intellettualmente o moralmente inferiori agli uomini, solo che non erano atte a partecipare all’Imperium, ma chissà se un imperium deve esistere per sempre. Forse dagli Irochesi non c’era... e in una democrazia senza imperium si sarebbero risolte molte delle difficoltà che incontra Spinoza. E quanto si dice delle donne è perfettamente valido mutatis mutandis per i servi, poiché non esistono neanche servi per natura.

 

SF - Alla luce della sua interpretazione di Spinoza di matrice althusseriana, in che modo lo spinozismo può alimentare il marxismo?

JS - Non so se lo spinozismo può ‘alimentare’ il marxismo. Ritengo al contrario che lo spinozismo distrugga il marxismo come ideologia e lasci aperto il terreno per continuare la ricerca iniziata da Marx. Marx affermava di non essere marxista e dobbiamo prenderlo sul serio. L’opera di Marx è senz’altro ambigua e apre la strada a una religione provvidenzialista che si pretende materialista, ma anche, forse per l’influenza spinozista negli anni di gioventù o al suo solido atteggiamento scientifico o a tutti e due, Marx non è solo né principalmente il marxismo. L’opera di Althusser usa Spinoza per fare questo necessario discrimine in Marx, per liberare Marx dal marxismo. Spinoza per Althusser rappresenta quattro elementi fondamentali di ogni materialismo: il rifiuto di ogni teleologia, il rifiuto dell’ideologia del soggetto libero, l’affermazione della realtà della scienza che si traduce nel motto spinoziano verum index sui et falsi, e nel più radicale immanentismo. Tutto questo dispositivo è messo in moto contro il provvidenzialismo, l’ideologia giuridica della libertà, la confusione di scienza e ideologia e le teorie della garanzia della verità (il metodo), ma anche contro l’economismo e il determinismo. Spinoza serve ad Althusser a ritrovare le condizioni della pratica nella congiuntura e la possibilità stessa di una politica di trasformazione, negata nei fatti dalla coppia ideologica libertà-necessità. Ma, per usare Spinoza come svolta (détour) per ritrovare Marx oltre il marxismo, bisogna interpretare Spinoza, leggerlo in un modo originale e non conforme alla tradizione accademica, marxista o borghese.


SF - Adottando questa prospettiva, in che termini possiamo interpretare il piano politico odierno?

JS - Il piano politico odierno è determinato dalla fine di ogni progetto rivoluzionario. Ciò vuol dire che venne persa la speranza in un evento salvatore, non che sia chiusa per sempre la possibilità di una trasformazione radicale della società e concretamente di creare una società non capitalista. L’idea di rivoluzione che forse fu cara a Spinoza nell’epoca del TTP, prima di vedere una rivoluzione reazionaria come quella che mise a morte i fratelli de Witt con una crudeltà inumana, fu abbandonata nel TP. La rivoluzione, malgrado le apparenze, non è l’opera di una moltitudine libera, poiché non finisce mai con la creazione di un nuovo ordine politico più libero, ma spesso invece con sistemi bruttali e tirannici. La rivoluzione prende un senso copernicano di ritorno dell’imperium su sé stesso in forme spesso aggravate e più mistificate. Quello che Spinoza propone non è la rivoluzione, ma la democratizzazione di tutti i regimi, ivi compresso il regime democratico. Certo, c’è in Spinoza il riconoscimento del ruolo costituente dell’indignatio. L’indignatio si produce quando il governante perde la legittimità, cioè la capacità di farsi obbedire dalla moltitudine, perché i suoi atti non sono consoni con l’immagine pubblica di un governante. Comunque, anche in questo caso, la rivoluzione non è mai l’atto libero e volontario dei rivoluzionari, ma la caduta di un regime incapace di mantenere la sua base di massa. Spinoza ci invita dunque a qualcosa che non è più la rivoluzione, ma un riformismo rivoluzionario che, per via di democratizzazione, avvicina tangenzialmente moltitudine e impero senza che mai venga meno questa polarità che definisce il politico. Forse sarebbe concepibile un ‘oltre’ il politico, una società senza imperium maggioritariamente composta da cittadini razionali o almeno ragionevoli che non hanno bisogno di essere governati per collaborare, sicuramente una società senza classi, senza servi e dove le donne, che hanno la stessa razionalità degli uomini, avrebbero una condizione di eguaglianza. Questo sarebbe raro e difficile, come ci diceva l’ultima frase dell’Etica, ma comunque non impossibile.

 

SF - Nella sua introduzione al TP ha sottolineato che non si tratta di un manifesto politico ma di un’analisi delle dinamiche passionali che costituiscono l’ordine sociale. L’affermazione ha destato in noi curiosità, potrebbe approfondirla ulteriormente?

JS - Ho affermato che il TP non è un manifesto politico, come era invece il TTP. Cosa sarebbe? Direi che si tratta di una politica geometrica o statisticamente dimostrata. Un manifesto politico si rivolge a un soggetto possibile in costituzione, è una forma d’interpellazione che ‘dà del tu’ al lettore e lo rende consapevole del suo Sollen, in termini kantiani il suo ‘dover essere’. Invece, nel TP ritroviamo lo stile dimostrativo dell’Etica che non abbandona mai il Sein, l’essere effettivo. Si tratta di un trattato naturalistico sui regimi politici, i loro equilibri interni e loro variazioni. Una storia naturale dimostrata geneticamente secondo due assi: la storia delle passioni individuali e collettive e la storia strettamente connessa alla prima degli equilibri interni di ciascuno dei regimi, descritti in termini quantitativi. La quantità, in politica, è importante, prima quella dei titolari dell’Imperium, dall’uno della monarchia ai vari, pochi o molti dell’aristocrazia fino ad arrivare ai tutti che non sono mai tutti - perché va garantita la permanenza della rappresentazione - dell’Imperium democraticum. Bisogna qui ricordare che, per Spinoza, l’assoluto in politica è sempre relativo e che ci sono gradi nell’assoluto, dal minimo di assolutezza della monarchia che si vorrebbe “assoluta” al massimo rappresentato dalla democrazia, ma anche da una aristocrazia espansiva. I calcoli delle proporzioni della popolazione che devono partecipare nei consigli monarchici o nelle assemblee aristocratiche, poi in ogni istituzione, diventano alle volte tediosi, ma sono cionondimeno necessari, perché solo la quantità è in grado di garantire l’equilibrio e solo l’equilibrio complesso delle parti di un individuo, sia fisico (come nello scolio della proposizione 13 della II parte dell’Etica) che politico, determina la sua unità e la sua capacità di durare, quando non c’è nessuna essenza anteriore agli equilibri, nessun telos a garantire una tale unità. In Spinoza, troviamo riuniti degli elementi che sono diventati oggi il patrimonio dei due poli immaginari che organizzano le nostre concezioni politiche: l’individualismo liberista e il collettivismo socialista. Questi poli non sono antagonisti in Spinoza: la libertà individuale solo può essere reale se integrata in un sistema di cooperazione materiale che implica in modo immediato una organizzazione politica. Paradossalmente, non può esistere un imperium assoluto che non conti con la realizzazione effettiva delle diverse potenze individuali. L’assolutezza dell’imperium, come quella del Dio dell’Etica, è tale solo quando si esprime nelle forme più svariate, guidato come da un’unica mens. Un solo pensiero che è comune non abolisce mai la diversità delle immaginazioni particolari. In un momento come quello che stiamo attraversando oggi, dove il neoliberismo è contrastato da forme di comunitarismo identitario e autoritario, il collettivismo liberale di Spinoza può essere, per chi ama la democrazia, un punto di riferimento essenziale.

Margherita Bovo ha conseguito il diploma di maturità scientifica nel 2020 con il massimo dei voti e si è immatricolata al corso di laurea triennale in Filosofia nell’anno accademico 2020/2021. I suoi interessi vertono principalmente sull’influenza e le interpretazioni di Spinoza nel corso dell’Illuminismo, in particolare circa la questione dell’ateismo.

Paola Pia Santoro studia Filosofia all' Università di Bologna. Si interessa principalmente di filosofia politica, in particolare di Baruch Spinoza e del movimento femminista. È inoltre rappresentante degli studenti del Centro di ricerca Sive Natura per l' anno accademico 2023/2024.