Intervista a Federica Giardini

A cura di Chiara Luce Breccia

Federica Giardini

è professoressa ordinaria di Filosofia Politica all’Università Roma Tre. È direttrice nella stessa università del Master di I livello “Studi e politiche di genere”, oltre a essere coordinatrice di IAPh-Italia – centro di ricerca di pensiero femminista. È autrice di I nomi della crisi. Antropologia e politica (2017), L’alleanza inquieta. Dimensioni politiche del linguaggio (2011), Relazioni. Differenza sessuale e fenomenologia (2004) e di Produzione e riproduzione. Genealogie e teorie (2015, con Gea Piccardi). Ha curato La natura dell’economia. Femminismo, economia politica, ecologia (2020, con Sara Pierallini e Federica Tomasello), Sensibili guerriere. Sulla forza femminile (2011) e Il pensiero dell’esperienza (2008).

Segnalibri Filosofici – Cosa significa studiare i femminismi all’interno dell’università? Quali sono i rapporti con il canone filosofico tradizionale? In quanto teoria critica della società, proveniente da una tradizione di movimento con posizioni conflittuali, mi sembra una materia con una posizione ambigua: da una parte, entra a far parte del medagliere delle discipline accademiche, ma d’altra parte esprime continuamente una tensione con i fondamenti del sapere stesso prodotto in università.

Federica Giardini – Riprendo una pratica femminista e mi posiziono come prima cosa: quali esperienze mi hanno formata e mi hanno dato anche dei criteri per organizzare una analisi? Mi sono formata in un periodo in cui ancora c’era una separazione forte, sebbene evanescente, tra movimento e istituzione, una tensione fra saperi femministi e discipline istituzionalizzate; un momento molto interessante soprattutto nel dibattito italiano. C’erano infatti delle storiche come Paola Di Cori che auspicavano l’inaugurazione di dipartimenti e di corsi di “Storia delle donne”.  Allo stesso tempo, c’era molta consapevolezza sul fatto che l’accademia fosse un luogo regolamentato, che agisce una gerarchia in grado di definire quali siano i campi di sapere legittimi e quali no. Fra i gruppi femministi, era molto forte l’idea che stare ai margini – coltivare e coltivarsi nel margine – fosse un modo di garantire libertà e portata politica della ricerca. Questo conflitto ha contribuito al fatto che, negli anni ’90, diversamente da altri paesi in Europa, in Italia siano stati istituiti pochissimi corsi caratterizzati con “- delle donne”, sicuramente non dipartimenti. Al contempo erano vivissime pratiche e ricerche femministe non istituzionalizzate.

Nei vent’anni successivi, e quindi fino ai primi anni del 2000, quando per un lungo periodo la potenza femminista di inventare, reinventare, produrre saperi oltre le grammatiche universitarie è diminuita, ci sono state delle generazioni di studentesse che da una parte o non venivano minimamente a conoscenza dell’esistenza di approcci e di contenuti, oppure disertavano quei pochi corsi “– delle donne”, perché considerati residuali, recriminatori, attardati su criticità che non venivano più percepite come tali.

Oggi le cose sono in parte cambiate, per capire come, bisogna tenere insieme diverse prospettive. Un primo criterio di mappatura potrebbe essere questo: sicuramente esistono molte iniziative che non interrogano i canoni della disciplina ma semplicemente collocano il “genere” come un’aggiunta tematica. Ce ne sono varie, non c’è niente di strutturato e organizzato in maniera riconoscibile, è sempre tutto molto legato a interessi e presenze di singole, faccio riferimento per esempio ai vari corsi di “Storia delle donne nel Rinascimento”, “Poetesse del ‘500”, ecc… C’è invece tutto un altro versante amministrativo che viene dall’UE e chiede quelle che potremmo definire politiche di genere: per esempio il bilancio di genere o la parità di rappresentanza nei vari organi. Ultimamente questo tipo di misure è diventato cogente perché requisito per partecipare ai bandi europei. Infine, esistono figure e posizioni, minoritarie ma esistenti, che propongono un approccio distinto: l’idea cioè che l’approccio femminista ai saperi prodotti, regolati o contro regolati, sia parte integrante di processi di soggettivazione e di trasformazione. Sicuramente dobbiamo tenere a mente che, rispetto al mio ambiente di formazione, che presentava quel conflitto fra margine e non, oggi l’università neoliberale, cioè riformata, permette di riconfigurare, per quanto parzialmente, i dispositivi istituzionali della didattica e della ricerca.

 

SF – Questo porta alla seconda domanda: siamo partite da trenta anni fa e siamo arrivate all’oggi: rimanendo qui, possiamo dire che siamo di fronte a una forte presenza di un femminismo di tipo “neoliberale”, di cui fanno parte molte cose che ha nominato, sicuramente in parte le politiche di genere europee? Rispetto a questo movimento istituzionale e di mercato, mi chiedo se i movimenti femministi e le concettualizzazioni femministe debbano rivendicare il riconoscersi come teorie critiche della società, anche a partire dal recupero, già avviato, di certe tradizioni teoriche e militanti di critica femminista all’economia politica.

FG – Assolutamente sì. Silvia Federici fa parte sicuramente di questa corrente insieme ad altre. Questo è stato anche il movente delle critiche di Nancy Fraser a Judith Butler, anche se sicuramente questa divisione fra femminismo “culturalista” e femminismo materialista, squisitamente statunitense, necessita sempre di contestualizzazione – per esempio, l’idea che Butler faccia culturalismo è uno strano modo di porre la questione, almeno per un orecchio di qui. Però senz’altro il punto rimane. La questione allora è chiedersi quanto la critica femminista dell’economia politica debba aggiornare le proprie formulazioni, intercettando tutte le soggettività e tutte le filiere di messa a valore che la stessa rottura femminista ha prodotto. È un lavoro che non possiamo dare per scontato: va fatto un lavoro concettuale politico. Sono convintissima sia necessario muoversi in questa direzione, perché ci troviamo in un momento in cui coesiste un tasso di sfruttamento elevatissimo con nuove e vecchie forme di dominio: sembra di tornare a configurazioni pre-liberali, pre-settecentesche. 

 

SF – A proposito di critica femminista all’economia politica, il concetto di riproduzione è fondamentale in questa tradizione; è interessante in questa prospettiva la tensione fra due concetti che animano la teoria e la pratica femminista, molto simili ma estremamente differenti allo stesso tempo: lavoro riproduttivo e cura. Forse, per fare una distinzione iniziale, potremmo intendere il concetto di riproduzione nella sua potenza decostruttiva, in quanto in grado di svelare tutto quel sommerso di lavoro non riconosciuto che costituisce il pilastro del modo di produzione capitalistico e neoliberale, e invece provare a pensare al concetto di cura come propulsore di immaginazione di configurazioni alternative. Cosa ne pensa della doppiezza di questi concetti che tornano ed emergono dai movimenti stessi femministi? 

FG – Sarebbe una bellissima iniziativa fare una serie di interviste o curare un volume, per dare ascolto alle diverse voci che utilizzano un termine o un altro, interpellando teoriche transfemministe e coinvolgendo anche l* attivist* ecologist* che sicuramente fanno della cura un elemento importante delle loro lotte. Ho presente il lavoro di Miriam Tola e Maddalena Fragnito, di Alberto Manconi, di Tania Rispoli, di Elisa Bosisio e altri studios* e attivist*. Sarebbe un lavoro molto importante, bene che lo faccia chi per amore o per forza ha l’orecchio allenato ai concetti. Per esempio, è curioso notare come Nancy Fraser scriva La fine della cura, ma poi in bibliografia riporti solo testi sulla riproduzione, come se i due termini potessero essere usati in maniera indistinta. In realtà il lavoro sui concetti non è amore per la minuzia, ma lavoro per una loro estensione e per il potenziamento di alleanze possibili. 

Detto questo, per parte mia arrivo al concetto di riproduzione intorno agli anni 2000. Ho letto Federici rimanendo colpita soprattutto dall’ultima parte di Calibano e la Strega dove ho visto Marx e Foucault riutilizzati in senso femminista e mi è piaciuto enormemente. Fare questa operazione è un modo per mettere insieme critica allo sfruttamento e lavoro sull’ordine simbolico. L’incontro con questa prospettiva mi ha permesso di rispondere a un’insoddisfazione rispetto al concetto di cura che invece avevo conosciuto in due diversi momenti. Innanzitutto attraverso la posizione espressa da Carol Gilligan, che nei suoi testi ci presenta l’idea di una soggettività che non è basata sull’individualismo, caratterizzata quindi dall’empatia piuttosto che dalla competizione. Gilligan individua nelle donne questa inclinazione, tanto che per molto tempo questa tendenza femminile è stata considerata un problema a livello professionale: faccio riferimento, per esempio, al divieto per le donne di accedere a carriere nella magistratura fino al 1963, perché incapaci di imparzialità emotiva in conseguenza del loro addestramento alle attività di cura. In questo senso, la cura sarebbe una coloritura psichico-affettiva, ed è questo l’elemento che mi creava un problema. Nonostante questo, Gilligan aggiunge una prospettiva interessante: tramite queste considerazioni, si poteva pensare di sovvertire l’idea stessa di soggetto, non più un individuo separato ma una disposizione relazionale. Sicuramente questa tesi presentava delle potenzialità. Successivamente si è presentato un problema maggiore, con le elaborazioni sulla cura nella prospettiva di Joan Tronto, che ne fa un problema etico, di etica pubblica, ma pur sempre di etica. Tutta questa passione per l’etica come sfera dei comportamenti interpersonali non l’ho avuta nemmeno quando stavo nel pensiero della differenza, per me il femminismo è sempre stata una questione di trasformazione del mondo, era “il personale è politico”. A quel punto mi sono fermata, il concetto di cura non era più interessante. Però, ed è questo un elemento interessante di oggi, non sembra che sia questa la genealogia in atto quando Fragnito e Tola, ad esempio, riprendono il termine di cura, attivano un’altra storia, da scoprire e fare emergere. 

 

SF – Al di là di tutto, io trovo un problema da tenere a mente nel rivendicare le pratiche di cura da parte di un certo tipo di teoria e pratica politica: non si rischia di sopperire mutualisticamente a delle mancanze statali/istituzionali?

FG – La tua affermazione coglie dei punti molto importanti. Il primo riguarda la tradizione politica specifica di questo paese e in particolare il tema della sussidiarietà che dalla tradizione cattolica è stato iscritto persino al livello costituzionale: l’impegno sociale non viene esaurito dallo stato ma lo accompagna. In tempi di ordoliberalismo, di uno Stato che mette a mercato anche attraverso la legge, questa posizione ritorna indietro come un boomerang: il rischio è quello di scaricare sulla cosiddetta cittadinanza attiva tutto ciò che manca nelle politiche pubbliche e per giunta a costo zero. Le mobilitazioni, come è accaduto talvolta durante quelle contro le privatizzazioni e per i commons, possono così diventare dei modi di organizzare una serie di attività rispetto a cui le politiche pubbliche si sono esonerate, lasciando loro peraltro la funzione di intensificare il controllo e la sicurezza sul territorio. Questo è accaduto nel quadro di un processo di più lunga durata che prevede che la struttura statuale derubrichi sempre più questioni dal piano sociale e politico e le scarichi sui comportamenti individuali. Una tendenza che produce competitività generalizzata, precarizzata e diffusa, che a sua volta genera insicurezza, senso di minaccia, disconnessione fra psiche e tessuto relazionale sociale, e a quel punto questa disconnessione viene utilizzata per una chiamata alla responsabilizzazione individuale rispetto ai problemi da affrontare. In questo senso è molto interessante la prospettiva che offre Ilenia Caleo nel parlare di istituzioni della cura [cfr. “Per istituzioni trans corporee. Note su queer commoning, lavoro improduttivo e politiche dell’interdipendenza”, in Fragnito, M., Tola, M., Ecologia della cura, v. bibliografia]. Istituzioni ripensate tra Deleuze, i femminismi e le esperienze di occupazioni di spazi; istituire la cura ha anche significato riconvocare il pubblico, in particolare ponendo la questione di che cosa sia un’economia della cura: rendere sostenibili le vite, le attività di spazi che si governano in autonomia. Si tratta di un assemblaggio, dove il pubblico ha delle responsabilità e dove ci si sottrae al dualismo complementare o reciprocamente escludente tra politiche pubbliche e autorganizzazione. Vedo qui un possibile anello di congiunzione tra le questioni affrontate sul piano della cura e della riproduzione.

 

SF – Io sono molto d’accordo, è proprio questo il punto di connessione che vedo e mi sembra molto fecondo, anche perché qui si interseca con la questione ecologica. Alcuni movimenti ecologisti, più conflittuali, stanno in questa tensione.

FG – Sì, è un orizzonte di lavoro politico molto interessante. Se per cura intendiamo tutte le attività che generano quell’“abilità generale” di cui discutono Federici e Fortunati in Il Grande Calibano, allora in quelle attività possiamo includere anche le questioni che sono sollevate dal binomio salute e lavoro, che nelle lotte del secondo Novecento erano spesso in contrapposizione: non voglio ammalarmi mentre lavoro, rivendico di non stare in una zona dove c’è un picco di tasso di malattie tumorali e conflittualmente impedisco che quella parte di attività riproduttive venga lesa o venga interrotta. C’è molto lavoro da fare, però sicuramente è un bel campo da pensare. Un ulteriore elemento da tenere presente è che il lavoro sui concetti si fa tramite le mobilitazioni politiche, le lotte sono i luoghi e i tempi in cui i concetti si spostano. Ad esempio: a che condizioni puoi definire cura il blocco dell’autostrada per non abbattere il bosco in una determinata zona? Come trasformo il termine cura affinché dica qualcosa su quello che viene praticato? Come le pratiche di lotta modificano quel che intendiamo per cura? 

 

SF – Ritorno sul punto di prima: rovesciare Marx e Foucault. Come tenere insieme queste due dimensioni, per approfondire la tensione fra femminismo materialista e femminismo “culturalista”?

FG – La critica dell’ordine simbolico ha una sua importanza, anche in quanto produzione di immaginari alternativi, ovviamente. Il rischio è che se si opera solo in quella direzione, per entropia i fronti dell’elaborazione e delle lotte si disconnettono e si finisce a fare ermeneutica. Un’altra tradizione non statunitense, anzi in parte molto italiana – faccio riferimento di nuovo a Federici ma anche ad Alisa del Re – è stata importante in questo, perché ha aperto un’altra direzione: il  simbolico diventa norma sociale connessa all’ambito dell’economia politica. È un tentativo di tenere insieme diverse dimensioni critiche, che non riguarda solo il femminismo ma ricorre anche nei dibattiti e ricerche di ispirazione marxista. Penso all’idea che il capitale non si limita a organizzare i processi produttivi ma si esprime anche tramite costrizioni, leggi e politiche, come nella questione operaista del “comando del capitale”, ad esempio. Ma penso anche ad Althusser con gli “apparati ideologici di stato” e il tema della riproduzione della società, e al primo Foucault in La società punitiva, e alla Scuola di Francoforte quando opta per il termine dominio. È un continuo ricollocare che cosa si intenda per produzione e per critica dell’economia politica. Una ricognizione degli approcci su questi temi è importante, perché ci permette di porci epistemologicamente in maniera diversa: dominio e/o sfruttamento, intersezionalità e/o classe.  

 

SF – Per concludere, dato che abbiamo usato questo termine tante volte, di cosa stiamo parlando quando parliamo di femminismo?

FG – Rispondo alla questione nei termini dei problemi che mi pongo attualmente: cosa significa fare filosofia materialista oggi? Femminismo è una parola, se non la situi storicamente e socialmente non si capisce che problema stai ponendo. Dipende da cosa si vuole sapere: la trasformazione delle coordinate storico-sociali che il termine femminismo indica, la capacità conflittuale, le soggettività? La prima cosa da delineare è dunque il riferimento alla matrice storica, sociale, epistemologica. Le risposte, dunque, sono diverse e in cambiamento. Guardiamo al caso di Federici, che in questi ultimi scritti sembra cambiare fronte di individuazione del conflitto e della violenza. Se infatti nell’84, nel Grande Calibano, si batte anche per il rifiuto della genderizzazione e identificazione binaria dei corpi, come quando parla dell’ermafrodita, oggi invece assume le donne come soggetto e oggetto di violenza e di trasformazione. Per parte mia oggi, dopo Non Una di Meno-Ni Una Menos, risponderei che il transfemminismo è la via verso il futuro, è una grande intelligenza collettiva sulle dinamiche relazionali, su come si fanno le cose, sulla dimensione pratica delle lotte, delle alleanze e delle risposte alle urgenze. È uno stile che definisce i problemi in maniera completamente diversa, fa segno a prassi possibili diverse da quello che abbiamo conosciuto. È la cosa che serve! Faccio un esempio: che cosa implicherebbe ripensare il tema dell’organizzazione in termini di cura? Cosa significa organizzare una collettività, a partire dalla cognizione che esistono differenze ma che non possono essere irrigidite, che servono alleanze, oggi più che mai?  

 

Bibliografia

Federici, Silvia, Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, Milano: Mimesis 2015.

Federici, Silvia, Fortunati, Leopoldina, Il Grande Calibano. Storia del corpo sociale ribelle nella prima fase del capitale, Milano: FrancoAngeli 1984.

Fraser, Nancy, Crisis of Care? On the social-Reproductive Contradictions of Contemporary Capitalism, 2016, trad. it. La fine della cura. Le contraddizioni sociali del capitalismo contemporaneo, Milano: Mimesis 2017.

Fragnito, Maddalena; Tola Miriam, Ecologie della cura. Prospettive transfemministe, Napoli: Orthotes 2021.

Gilligan, Carol, In a different voice, Cambridge, MA: Harvard University Press 1982.

Tronto, Joan, Moral Boundaries: A politican argument for an ethic of care, London: Routledge 1994.

Chiara Luce Breccia è dottoranda di filosofia presso l’Università di Pisa. Si interesse delle filosofie politiche femministe contemporanee, con particolare attenzione ai concetti di riproduzione sociale e cura. Si è laureata in Storia delle dottrine politiche all’Università di Bologna con il professore Filippo Del Lucchese e ha lavorato per la casa editrice Alegre.