Intervista a David Rabouin

A cura di Matteo Camerini

David Rabouin

é un professore di filosofia all’Université Paris Diderot e dal 2020 é dirige le ricerche dell’unità SPHERE al CNRS (CNRS - Université Paris Diderot). Dopo gli studi accademici all’École Normale Supérieure consegue un dottorato in filosofia (Université Paris IV-Sorbonne, 2002) con la tesi « Mathesis universalis. L'idée de ‘mathématique universelle’ à l'âge classique ». Il suo ambito di ricerca é storia e filosofia della matematica, in merito al quale ha pubblicato Le désir (1997) e Vivre ici (2010). Dal 2017 dirige un progetto di edizione e commento di manoscritti inediti di Leibniz in collaborazione con il Leibniz Archiv di Hanovre.

Siamo felici di avere l’occasione di porre alcune domande a David Rabouin, ricercatore CNRS, membro del centro di ricerca SPHERE a Parigi e autore di importanti contributi sul pensiero di Spinoza.


Grazie a voi per l’invito.


Per cominciare, vorrei prendere le mosse dal tuo libro Vivre ici. Spinoza, éthique locale (Presses Universitaires de France, 2010), dove parli di uno spinozismo riemanniano, che guarda al prolungamento del sistema spinozista ma con la consapevolezza che dopo tre secoli e mezzo dalla pubblicazione dell’Etica qualcosa è cambiato, in particolar modo in campo matematico. Ti chiederei, dunque, di spiegarci meglio la tua suggestiva espressione spinozismo riemanniano e come pensi all’ordine geometrico spinozista oggi.


Ci sono due questioni principali che mi hanno portato a scrivere quel testo e a coniare quell’espressione. La prima è che, nell’Etica, il modello della necessità utilizzato da Spinoza è il fatto che la somma dei tre angoli di un triangolo sia uguale alla somma di due angoli retti. Oggi, tuttavia, sappiamo che questo poteva essere vero nella geometria euclidea, ma non in altre geometrie, come ad esempio quella di Riemann. La domanda da cui sono partito, dunque, è stata: cosa ne è della necessità spinozista, se cambia quell’ordine geometrico? Questo è il punto che mi ha più interessato quando ho cominciato a lavorare su Spinoza, e che ha portato alla genesi di questo testo. La seconda questione, poi, riguarda piuttosto le conseguenze dell’ordine geometrico spinozista. Come dobbiamo rapportarci oggi con quell’ordine? Dobbiamo prenderlo sul serio? Dobbiamo considerarlo come una metafora? Ma questi due temi, in realtà, sono molto più connessi di quanto non sembri, ed effettivamente, ai tempi, ho affrontato le due domande in modo molto legato tra loro.


In Vivre ici, come tentavi di rispondere a queste domande?

La risposta che davo alla prima questione è che fosse possibile trovare un punto di vista, che è quello della geometria contemporanea, per il quale, fissando dei vincoli globali, è possibile far derivare tutte le diverse geometrie in modo locale. È possibile, dunque, ritrovare tanto le geometrie euclidee quanto quelle non euclidee, assumendo un livello superiore, globale, in cui esse coesistono. E questo livello è quello di Riemann. L’idea geniale di Riemann (1), infatti, è che le differenti geometrie nascano come differenti maniere di descrivere degli oggetti che sono dati localmente. Questa è un’assunzione molto forte, perché significa ripensare la forma stessa della necessità, la quale non è più data globalmente, ma piuttosto viene ad emergere da un processo locale che dà luogo a differenti strutture. Questo è un primo elemento, capire come poter applicare questa scoperta nei confronti di Spinoza.


Pensi che l’Etica di Spinoza può essere interpretata sotto questa luce? Che possa essere, per così dire, localizzata?


È precisamente questa la questione. La domanda con cui ero partito per scrivere quel testo era, appunto, se fosse possibile utilizzare l’intuizione di Riemann per ripensare l’Etica di Spinoza. Il mio, dunque, non è affatto un commentario di Spinoza, bensì un tentativo di prolungare il processo dell’Etica. Voglio precisarlo perché alcuni lettori di quel libro finirono per criticare la mia analisi per la scarsa fedeltà al testo spinoziano. Ma, dal mio punto di vista, questo non era assolutamente rilevante, né di mio interesse. Quello che mi interessava non era affatto di comprendere quello che Spinoza affermava, ma di capire come fare oggi a risolvere a quello stesso tipo di domande e come poter difendere un certo tipo di posizioni. A mio parere oggi non si può in nessun modo difendere l’idea che la somma dei tre angoli di un triangolo sia uguale a due retti per una necessità assoluta. Ci sono colleghi che ancora tentano di difendere questa idea...


Quello che dici è molto interessante, perché in effetti negli studi spinoziani attuali ci sono alcune interpretazioni che si pongono in una prospettiva in cui l’unica scelta possibile sembra essere quella tra il salvare l’intero sistema o rinunciarvi completamente. Credo che il tuo approccio sia importante non solo dal punto di vista dell’intersezione tra il pensiero di Spinoza e le geometrie e le matematiche contemporanee, ma credo sia fondamentale anche per gli studi su Spinoza in generale, perché ci mostra come il senso possa essere quello di prolungare l’Etica, di sezionarla e di considerarla nella sua attualità. Il che vuol dire necessariamente evitare di porre la scelta drastica tra “tutta l’Etica o niente”.

In effetti non mi sono mai interessato a fare un lavoro esegetico su Spinoza. Non ho mai voluto scrivere un commentario. E per il lavoro che avevo intenzione di svolgere non mi era necessario confrontarmi con i commentatori. L’aspetto che mi interessava più di tutti era la seconda questione di cui ho parlato in precedenza, ossia cosa fare con l’ordine geometrico? Si può immaginare un modello differente di ordine geometrico pensandolo localmente con Riemann?


Mi collegherei, allora, ad un altro tuo scritto molto interessante, ossia “Problème de l’expression et logique de l’ordre” (2), nel quale affermi che nello spinozismo ci sono due approcci separati: chi vede solamente la mediazione, il finito e la terza parte dell’Etica, rifiutando completamente l’ordine e la necessità della prima parte, e chi, invece, cerca di considerare tutta l’Etica come un sistema unitario. Pensi che dopo vent’anni sia cambiato qualcosa? Come consideri gli studi spinozisti contemporanei?


La cosa che mi ha più colpito di alcuni commentatori contemporanei è che molti di loro non si preoccupano minimamente dell’ordine geometrico, non lo prendono sul serio. Pensano che la filosofia possa farne a meno. Ci sono commentatori che prendono molto sul serio la questione dell’ordine geometrico in Spinoza, come nel caso di Guéroult o di Matheron. Secondo altri, invece, l’ordine geometrico in Spinoza non è affatto necessario per comprendere l’Etica. È il caso di Deleuze e della sua idea che ci sia una “terza etica” scritta negli scolii. E ancora più nel caso di Negri, che dice che l’ordine geometrico è un “prix payé au siècle”. Ma, ripeto, non mi sono mai interessato ad entrare nel dibattito tra commentatori. Il mio intento è sempre stato quello di tentare di risolvere le due questioni che ho già menzionato, ossia 1) Come salvare la necessità 2) come prendere sul serio il metodo geometrico.Insisto su ciò perché c’è gente che ha letto nel mio libro una volontà di sbarazzarsi della metafisica e di cominciare con il terzo libro dell’Etica e ricostruire localmente un’etica. In effetti questo è qualcosa che fa piuttosto un autore come Negri, che io critico molto chiaramente nel mio libro. Per me la vera domanda dovrebbe essere perché quell’ordine in Spinoza venga o meno preso seriamente e, soprattutto, come confrontarci oggi con quell’idea di necessità.


Dunque, che ruolo dare all’ordine geometrico? E, soprattutto, come considerare l’ordine geometrico in relazione all’altro progetto, ossia quello di prolungare l’Etica di Spinoza?

Ciò che fonda in Spinoza la questione dell’ordine geometrico è quello che a volte è chiamato erroneamente il “parallelismo” del pensiero e dell’estensione, ma che in realtà sarebbe meglio chiamare l’ordine di espressione del pensiero e dell’estensione. Questa idea di Spinoza implica che la geometria occupi un posto assolutamente preponderante all’interno del sistema. Poiché, se l’ordine e la connessione delle idee si esprime nell’ordine e la connessione degli enti spaziali, allora la geometria diventa un equivalente della logica. Questo è un tema su cui mi sono molto soffermato all’inizio del mio libro, dal momento che ci sono molti elementi nelle matematiche contemporanee che sembrano affermare una simile implicazione tra logica e geometria. Cosa che, personalmente, trovo particolarmente interessante perché ci fornisce un secondo spunto molto importante per ripensare Spinoza. Da un lato, allora, c’è la teoria di Riemann, che afferma che si possano ripensare le cose a partire da un punto di vista locale. Dall’altro, c’è quella appena menzionata del rapporto tra logica, geometria, pensiero e spazio, che si sviluppa nel pensiero matematico contemporaneo. Ma la cosa più interessante è che nelle matematiche contemporanee questi due linee sono andate a convergere. Ciò non è ancora evidente ma, in qualche modo, vedere localmente le cose è anche la maniera di vedere in che modo si sviluppa la logica. E questo è precisamente quello che volevo mostrare in Vivre ici.


Dunque, la prima parte dell’Etica può essere in un certo senso salvata?


Certamente. Il mio intento non è mai stato quello di sbarazzarmi del primo libro dell’Etica, al contrario! In questo modo, infatti, è possibile recuperare in modo completo tutta l’architettura dell’Etica e anche la teoria dell’immaginazione. La mia intenzione era precisamente di comprendere cosa potessimo salvare della metafisica di Spinoza, ma capire, al tempo stesso, cosa fare con quelle proposizioni che oggi è veramente difficile continuare a mantenere. Come, ad esempio, l’affermazione che Dio esiste con la stessa necessità per cui la somma degli angoli di un triangolo è uguale a due retti. È veramente difficile continuare a conservare questo genere di proposizioni al giorno d’oggi.


Con una battuta, si potrebbe dire che per la scienza contemporanea il concetto di Dio è più salvabile di un triangolo…


(Ride) Beh, in effetti sì, perché il Dio di Spinoza non è altro che il nome della necessità immanente della natura. Dunque, il primo passo è capire in che senso intendiamo oggi la necessità nella matematica e nella geometria. E credo che siamo in un certo modo obbligati a rispondere a questa domanda. Come minimo, dobbiamo cercare di comprendere cosa intendiamo noi con il termine necessità, prima di tentare di capire quale fosse quello di Spinoza.

Credi che per Spinoza ci fosse, dunque, un ordine globale della natura sul modello della geometria euclidea?


Personalmente, ho l’impressione di sì. Anche se, in effetti, molti commentatori pensano il contrario. Nel caso di Deleuze, ad esempio, per il quale in Spinoza non c’è un ordine della natura fisso, immobile, rigido. Questo è un punto secondo me poco chiaro. Ho l’impressione che il sistema di Spinoza ponga un ordine della natura in modo unico e globale, ed è così che interpreto la proposizione 26 della prima parte dell’Etica, dove Spinoza parla di una serie di cose finite che si causano vicendevolmente. Per Spinoza sembra evidente che la diversità delle cause abbia una sola causa, un solo ordine. Ci sono molti commentatori che non sono d’accordo con questo, ma io penso che non essendo d’accordo con questo punto si finisca necessariamente con il cambiare Spinoza.


Quindi, in un certo senso, sembri invertire la critica che veniva fatta al tuo libro, ossia di essere stato poco “fedele al testo” di Spinoza, rivolgendola verso quegli stessi commentatori...


In un certo senso sì, secondo me non si può fare a meno di fare i conti con l’ordine geometrico della prima parte dell’Etica.


Ed è da questo che quindi bisognerebbe ripartire per “selezionare” ciò che invece in Spinoza è possibile mantenere e difendere ancora oggi alla luce della matematica contemporanea?


Esattamente. Penso che non si debba aver paura di ammettere dei limiti in un autore del XVII secolo.


Da un lato, dunque, rinnovare l’ordine geometrico; dall’altro, mantenere le conseguenze che per Spinoza quell’ordine geometrico poteva avere. E, invece, quali sono gli elementi che secondo te possono essere mantenuti dell’Etica spinoziana? Ci sono degli elementi di Spinoza che possono essere rilevanti e d’interesse anche per le matematiche e le scienze contemporanee? Al di fuori degli studi prettamente filosofici e su Spinoza.

Secondo me c’è qualcosa di molto importante in Spinoza per pensare le matematiche contemporanee, ma sempre da un punto di vista filosofico. In effetti, è qualcosa che trovo in tutti gli autori classici, che troppo spesso viene trascurato, ossia il rapporto tra matematica e immaginazione. Presso gli autori classici, e soprattutto in Spinoza, si ritrova la convinzione che l’immaginazione non sia pericolosa per la conoscenza, bensì un aiuto fondamentale, se essa viene regolata. E questo tipo di immaginazione è ciò che propriamente contribuisce a fondare le matematiche stesse. Questa idea si ritrova in Spinoza (con gli auxilia imaginationis), ma anche in Descartes e in Leibniz, così come in Pascal.


È un’idea molto interessante perché permette di sbarazzarsi di molti pregiudizi circa le matematiche, come ad esempio il ruolo della rappresentazione spaziale nella matematica...


Esattamente. Ma permette anche di comprendere questo particolare rapporto tra logica e spazio che è molto presente nelle matematiche contemporanee. Dunque, in Spinoza non c’è molto da conservare di matematico, ma moltissimo riguardo la filosofia della matematica: la possibilità di riscoprire degli “strumenti” che sono stati dimenticati per delle ragioni molto complesse.


E questa “dimenticanza” di cui parli pensi si ritrovi anche in commentatori come Guéroult nei quali a volte sembra emergere l’idea che in Spinoza il secondo e il terzo genere di conoscenza servano a oltrepassare e a superare la “falsità” dell’immaginazione? Perché nel tuo libro, come in altri studi, emerge l’idea che l’immaginazione non si possa mai superare o eliminare, ma che essa possa solamente essere regolata dagli altri generi di conoscenza.


Sì, questo è un altro aspetto interessante per capire il modo in cui Spinoza si rapporta alle matematiche, che ho trattato anche nel mio articolo “Spinoza. Quelle norme mathématique?”, nel quale tento di operare un ripensamento del modo in cui comunemente viene pensato il rapporto degli autori classici con le matematiche. Oggi abbiamo l’idea che gli autori classici si approcciassero alle matematiche come se fossero presentati dei blocchi di verità (“stock de vérités”) che bisogna accettare. Ma non era affatto così! Quando si guarda in profondità agli autori classici, in particolare a Descartes, Spinoza e Leibniz, si vede chiaramente come la loro idea fosse che la verità matematica fosse generata nel suo oggetto stesso. Per Descartes è il modello dell’analisi, per Spinoza quello delle definizioni genetiche e in Leibniz quello delle definizioni reali e della costruzione. E questo è qualcosa che ci fa vedere chiaramente come per questi autori la matematica non fosse affatto l’accettazione di un blocco di verità. E questo è legato a quello che tu dici. Un rapporto molto più libero con le matematiche. In Descartes gli oggetti matematici sono una sorta di finzione che può essere regolata. Ma c’è un altro punto da dover sottolineare: tutti questi autori furono molto critici rispetto alle matematiche esistenti. È una posizione molto particolare, perché da un lato prendevano le matematiche come modello, ma dall’altro dicevano “attenzione, questo modello non è affatto realmente esemplificato dalle matematiche, perché la vera matematica deve mostrare le vere ragioni dei risultati a cui giunge”. E questo è un aspetto che non abbiamo ancora ben compreso della filosofia di Spinoza, questo secondo aspetto dell’ordine geometrico. La disposizione secondo le proposizioni, le dimostrazioni da un lato, e dall’altro il fatto che questo modello è un chiaramente un modello esemplificativo per Spinoza, perché lui stesso ha scritto altri libri (come il Trattato Teologico-Politico) che non sono scritti affatto secondo lo stesso metodo.

Allora perché pensi che nell’Etica Spinoza abbia scelto di adottare questo metodo geometrico?


Credo la ragione per cui quest’ordine è privilegiato nell’Etica è perché l’oggetto stesso di cui Spinoza vuole parlare è inteso come un oggetto che è esso stesso disposto geometricamente. Ad esempio, quando Spinoza afferma di voler trattare dei corpi come superfici, linee e punti. E la particolarità è che la geometria di cui Spinoza ha bisogno non esiste affatto. Essa ha bisogno di poter generare i suoi oggetti. Questo è un altro aspetto su cui vorrei insistere quando parliamo di Spinoza in rapporto alla logica dell’immaginazione: il percorso costruttivo che Spinoza segue, a partire dalla terza parte dell’Etica, è una vera e propria forma di geometria degli affetti che non esiste affatto in Euclide. È una nuova geometria che Spinoza costruisce appositamente per i propri oggetti. Questo permette di chiarire meglio e di vedere in modo più libero questo aspetto della geometria spinoziana che non è ancora Riemann ma non è neppure più Euclide. È una geometria di forze (forze vettoriali) di cui parlo nella seconda parte di Vivre ici.


Un punto molto importante di quello che hai detto sinora, che vorrei sottolineare prima di proseguire, è questa sorta di anti-dogmaticità che si trova negli autori classici (e in particolar modo in Spinoza) in rapporto alle matematiche. Questi sistemi logico-matematici del XVII secolo vengono solitamente interpretati come sistemi dogmatici, quando, al contrario, per questi autori il tentativo sembra essere precisamente quello di distaccarsi da un dogma precostituito. La necessità per la geometria di dover dimostrare ciò che dice non è tanto una sistematicità razionale che si impone, quanto piuttosto un tentativo di porre la razionalità come unico canone per valutare la verità del discorso razionale su un oggetto. Il contrario del dogma, in altre parole. E, di conseguenza, la creazione di un nuovo spazio di libertà, anche se limitato dai confini dell’ordine geometrico.

Questo è un aspetto fondamentale, che ho trattato in un altro articolo, intitolato “Universal Local”. In effetti, il XVIII secolo ha costruito un’immagine degli autori classici secondo la quale essi erano degli autori dogmatici. È un’immagine che si ritrova certamente in Kant, ma anche nell’illuminismo inglese e francese. Questi pensatori sembrano persuasi che gli autori classici fossero autori dogmatici, non critici, che accettavano una verità data. È quello che si potrebbe chiamare uno Esprit du système, e quando vogliono dare un esempio di questo esprit du système, si riferiscono quasi sempre a Spinoza o Leibniz, come fa ad esempio Condorcet. Descartes viene un po’ salvato da queste interpretazioni grazie ad alcune parti delle Meditazioni, o del Discorso sul Metodo. Ma Spinoza e Leibniz sono sempre interpretati in questo modo nel corso del XVIII secolo. Ma questo è un fraintendimento totale del pensiero degli autori dell’età classica, i quali sono molto meno dogmatici di quanto si pensi o di quanto non vennero descritti durante l’Illuminismo.


Pensi che ci siano delle ragioni teoriche precise alla base di queste interpretazioni?


Una delle ragioni è che è stata completamente misconosciuta la portata della teoria dell’immaginazione in questi autori. Le matematiche non sono affatto necessariamente uno strumento del dogmatismo. E chi ha mostrato molto bene ciò è stato Louis Althusser. Althusser racconta – e lo scrivo anche nel mio articolo “Universal Local” – che da giovane era rimasto molto affascinato da un autore come Pascal, ossia un autore fortemente anti-dogmatico, e che non comprendeva come poter provare interesse per autori sistematici come Spinoza ed Hegel. Ma poi Althusser afferma di aver compreso come la sistematicità di queste teorie fosse precisamente un anti-dogmatismo. Ci sono dei passaggi molto interessanti di Althusser nei quali egli afferma che i sistemi di Spinoza ed Hegel sono dei veri e propri strumenti di liberazione, pensati precisamente come delle armi di emancipazione.


Probabilmente perché all’interno di quei sistemi continuano ad esistere dei grandi spazi di libertà, anche se diversi. Come dice anche Cantor, la matematica è libera proprio perché ha delle leggi. Senza quello spazio d’ordine e di verificabilità non c’è altro che la dogmaticità della religione e dei profeti. Il sistema filosofico o matematico, dunque, come un qualcosa di assolutamente anti-dogmatico.

Assolutamente sì.


Un’altra domanda che vorrei farti riguarda la questione della serie causale, che hai menzionato prima, quella che emerge in Spinoza nella proposizione 26 della prima parte dell’Etica. Quando parliamo delle serie causali dei finiti in Spinoza, infatti, parliamo di una serie che è infinita. Questa, che è la questione dell’infinito attuale, pensata da Crescas e altri filosofi medievali, può essere interpretata come un altro modo per uscire dal dogmatismo aristotelico? In questo senso la matematica ha contribuito a liberare il pensiero dell’infinito da una sorta di dogma del finito?


È una domanda complessa. In primo luogo, non penso che Aristotele fosse un autore dogmatico, o perlomeno non più dogmatico di Spinoza, Leibniz e Descartes. In Aristotele si trova precisamente un’altra forma di quello spirito di sistema di cui abbiamo parlato poco fa. Che poi Spinoza volesse sbarazzarsi del sistema aristotelico è chiaro. L’aspirazione che trovo similmente in Spinoza e Leibniz è il tentativo di ripensare il finito e la serie causale dei finiti come dei momenti espressivi dell’infinità. È un approccio completamente diverso da quello aristotelico che libera radicalmente la potenzialità del finito. Dunque, penso che sì, in Spinoza questa idea della serie causale infinita dei finiti è un’idea fondamentale che andrebbe meglio indagata. Da questo punto di vista, non si può pensare la “totalità” del reale – che non è affatto una totalità – se non come un qualcosa di assolutamente infinito. Non si può terminare, né determinare la realtà in paragone con un’altra realtà. Per Spinoza questo è fondamentale perché, in caso contrario, si tratterebbe di raddoppiare la realtà, di duplicarla, di creare una sorta di fantôme (un fantoccio, un fantasma) con cui il reale dovrebbe confrontarsi.


E, dunque, una sorta di dipendenza da un secondo ordine...
Certo, ma è precisamente questo l’obiettivo di Spinoza, ripensare le condizioni di possibilità di uno schema immanente del reale e rifiutare, con ciò, ogni mistero o qualità occulta. Questo è un altro punto molto forte della critica di Spinoza, ossia la critica dell’asilo dell’ignoranza: eliminare la linea di demarcazione tra ciò che è misterioso e ciò che non lo è. È come se Spinoza dicesse “Perché questa cosa è misteriosa e quest’altra no?” Poiché, una volta posto qualcosa come incomprensibile, il vero problema è capire come possa fare a rimanere qualcosa di comprensibile e, soprattutto, come fare a distinguere queste due dimensioni. Concepire qualcosa come un oggetto di fede, per Spinoza, significa mettere in crisi immediatamente la possibilità conoscitiva di tutto il resto del reale.

Come il motore immobile aristotelico?


Esattamente! Ma non importa precisamente cosa sia questo oggetto “misterioso” posto all’interno dell’ontologia. Una volta posto un punto anche minimo di trascendenza, di incomprensibilità e di mistero, per Spinoza tutto il resto diventa impossibile da salvare. Questa idea è stata difesa da molti commentatori, uno su tutti Guéroult, che afferma come la posizione di Spinoza sia quella di un razionalismo assoluto, l’affermazione della totale comprensibilità del reale. Non c’è niente nel sistema di Spinoza che sia trascendente, misterioso o incomprensibile. Un razionalismo integrale che è il contrario del dogmatismo.


Eliminare, dunque, ogni qualità occulta e decostruire teoreticamente la struttura di ogni trascendenza, si può riassumere così il “razionalismo integrale” spinoziano?


Sì, credo che alla fine dei conti questi punti siano il centro del suo tentativo di una razionalità immanente.


Avrei un’altra domanda da farti. A tuo parere in Descartes il soggetto rimaneva una qualità occulta di questo tipo?


Probabilmente sì. Negli anni ’30 del ‘600 Descartes si era confrontato con testi della teologia per giustificare il suo sistema e per porre l’onnipotenza di Dio. Lo dice lui stesso, le sue tesi teologiche sono le stesse della necessità di un Dio onnipotente. Quello che lui cerca è un meccanismo causale che funzioni allo stesso modo tanto per Dio quanto per noi. E, in seguito, nel suo dispositivo il soggetto è precisamente ciò che viene a prendere il posto di organizzatore di questo sistema di mistero. Il soggetto prende il posto lasciato vuoto dall’eliminazione della differenza causale tra Dio e il mondo. Il soggetto è la qualità occulta in Descartes che sostiene il suo sistema. Lui stesso dice nelle sue lettere degli anni ’30 a Mersenne che è impossibile per il soggetto comprendere Dio, perché comprenderlo sarebbe limitarlo...


Dio per Descartes può essere solo inteso, come gli esempi – contenuti nelle Obiezioni – del mare e del chiliagono...

 

Esattamente. Ed è questa incomprensibilità a rimanere un elemento di “mistero” in Descartes. Ogni infinito è incomprensibile, misterioso. Ci sono cose che per Descartes sono rivendicate come misteri. Sull’infinito non si può effettivamente affermare nulla. E questo è qualcosa di assolutamente inaccettabile per Spinoza.


Questa questione mi ha ricordato un altro punto di cui parli in “Penser comme un pied”, ossia del nodo di Lacan, una struttura geometrica (simile al nastro di Moebius) nella quale è impossibile distinguere chiaramente l’interno e l’esterno, l’interiorità dall’esteriorità. Citi anche una bellissima frase di Valery che mi è rimasta molto impressa: “La pelle è ciò che di più profondo vi è nell’uomo”. Pensi che ci sia un collegamento con quello che stavamo dicendo? Eliminare l’interiorità come luogo di mistero e incomprensibilità rispetto al mondo esterno?


Assolutamente. Questo è un altro aspetto della filosofia di Spinoza che è decisamente rivoluzionario per l’epoca: l’idea che percepire qualcosa significa che due cose siano in relazione, il mio corpo e la cosa, e le due sono mescolate [mélangées], e non c’è alcun modo di separare le due perché queste sono immediatamente prese insieme. Non c’è alcuna maniera di distinguere un’interiorità da un’esteriorità. Non c’è modo di separare il nostro corpo dalle sue modificazioni o affezioni. E questo è qualcosa di fondamentale per Spinoza. La percezione è sempre la coscienza di un’interazione tra il mio corpo, che non conosco mai in modo integrale a prescindere da queste interazioni, e un altro corpo.


E dunque se non possiamo mai separare o concepire il nostro corpo senza una relazione, allora possiamo dire che non esiste mai un nostro corpo come qualcosa di interiore e fisso, che successivamente entra in relazione con qualcosa. Il nostro corpo esiste in quanto traccia di una relazione. È molto interessante rispetto alla relazione soggetto-oggetto. Perché non c’è un soggetto identico/identitario che poi entra in relazione con un oggetto esterno.


Sì, credo che questo punto sia fondamentale per la questione dell’identità ma anche per la questione del rapporto soggetto-oggetto in generale. In Kant, ad esempio, per il quale la relazione soggetto- oggetto è cruciale, essa viene interamente fondata sulla nozione di esteriorità. L’idea che ci siano delle condizioni a priori dell’esperienza e che esse siano divise immediatamente in due forme: la forma degli oggetti esterni, che è lo spazio, e la forma dell’intuizione interna, che è il tempo. Questa idea è qualcosa che rompe completamente con la tradizione di cui faceva parte Spinoza, perché per Kant lo spazio diventa qualcosa che appartiene esclusivamente alla dimensione dell’esteriorità. E questo è un punto di cui parlo anche in Vivre ici, per mostrare come in Spinoza il pensiero fosse attraversato allo stesso modo dallo spazio. Non si può separare l’interiorità dallo spazio esterno. La spazialità in Spinoza è parte anche del soggetto.

Torniamo, così, alla necessità di cui parlavamo all’inizio, ossia di pensare la logica insieme alla geometria. Per concludere, vorrei farti un’ultima domanda. Qui a Parigi fai parte di un centro di ricerca internazionale, chiamato SPHERE (Sciences, Philosophie, Histoire) che è molto avanti nella ricerca a livello europeo da un punto di vista transnazionale e interdisciplinare. Il centro ha un approccio molto diverso dai centri di ricerca italiani. Come pensi che si possa inserire la ricerca filosofica all’interno di centri di ricerca multidisciplinari come questi? Perché a mio parere per la ricerca italiana avrebbe bisogno di conoscere e confrontarsi con queste prospettive europee e all’avanguardia.


Mi piacerebbe molto poterti rispondere dicendo che a SPHERE abbiamo una metodologia interdisciplinare che ci consente di creare un dialogo di questo tipo, ma non sarebbe vero. Non è questo, o non solo, che ha portato ai risultati scientifici che abbiamo raggiunto. La verità è che l’incontro avviene a SPHERE in maniera molto naturale a partire da intersezioni di interessi che si vengono a creare spontaneamente. L’incontro tra discipline diverse non avviene in modo sistematico o strutturale, ma si genera quando due o più membri si trovano a lavorare contemporaneamente su argomenti simili. In effetti ciò che fa SPHERE realmente è creare le strutture e i presupposti materiali di questo incontro. Mettendo a contatto negli stessi spazi e negli stessi luoghi ricercatori con background differenti che lavorano su temi simili. La ricerca congiunta non è qualcosa di istituzionale ma di assolutamente spontaneo e naturale, che fa parte della ricerca scientifica in quanto tale. La cosa veramente incredibile a SPHERE è che è possibile vivere questo confronto quotidianamente, in qualsiasi momento, senza il bisogno di organizzare convegni internazionali. Fornendo l’occasione per lavorare con persone che hanno origini scientifiche molto differenti, questa struttura ci permette di raggiungere dei risultati incredibili nella ricerca, in tutti questi ambiti.


Grazie mille a David Rabouin per aver risposto alle nostre domande.


Grazie a voi.

 

 

Riferimenti Bibliografici

(1) Contenuta nella sua tesi, sostenuta con Gauss nel 1854, Sur les hypothèses sous-jacentes à la géométrie (n.d.R.).

(2) Contenuto in Vinciguerra, L. (ed.), Quel avenir pour Spinoza?, Kimè Editions, Paris 1996.

Matteo Camerini vive tra Bologna e Parigi, dove svolge un dottorato di ricerca in filosofia sul concetto di infinito attuale nell’Etica di Spinoza e nella teoria degli insiemi di Georg Cantor presso l'università Paris Cité. Collabora con i centri di ricerca internazionali Sive Natura (UniBo) e Sphère (Paris Cité – Sorbonne). Nel 2022 esordisce alla regia con lo spettacolo teatrale Gilgamesh (NRF festival). Ha partecipato ai libri collettivi Canto all’Ofra (2021) e Al Bivio (2023) con il fumettista Giuseppe Palumbo, il fotografo Mario Cresci e altri. Suoi racconti e poesie sono apparsi su riviste cartacee e online. Nel 2023 ha vinto il premio di poesia “Achille Marazza”, organizzato dalla rivista Atelier. Ha svolto periodi di volontariato nelle baraccopoli di Nairobi e Lusaka.