Intervista a Cristiano Corsini

A cura di Matteo Santarelli

Cristiano Corsini (1975) è professore ordinario di Pedagogia sperimentale all'Università Roma Tre. Si occupa di valutazione in campo educativo e di indagini nazionali e internazionali sull'efficacia e sull'equità di scuole e sistemi d'istruzione. Progetta e realizza interventi formativi sulla valutazione educativa rivolti a docenti della scuola primaria, della scuola secondaria e dell'università. Ha pubblicato "La valutazione educativa (2023)", "Evaluating educational quality" (2021, con C. Tienken e M. Tomarchio), "Valutare scuole e docenti" (2015), "Il valore aggiunto in educazione" (2009).

La valutazione che educa. Liberare insegnamento e apprendimento dalla tirannia del voto. Milano: 2023.

Segnalibri Filosofici – Il tema centrale del volume La valutazione che educa. Liberare insegnamento e apprendimento dalla tirannia del voto (Franco Angeli, Milano 2023) è la “valutazione educativa”, ossia quel tipo di valutazione che non si riduce al voto ma che, al contrario, descrive la distanza tra la prova e l’obiettivo, e offre indicazioni per ridurre tale distanza. Perché la questione è importante nella società, nell’università e nella scuola di oggi?

 

Cristiano Corsini – Partiamo dal “perché” del libro. Ho l’impressione che negli ultimi anni si sia ragionato molto – ma non abbastanza – sul “come” della valutazione. Il libro parte dalla questione assolutamente trascurata del “perché” della valutazione. In merito al rapporto tra il volume e il contesto sociale attuale, vorrei fare un esempio recente. Nel momento in cui il termine “merito” entra nella denominazione stessa del ministero dell’istruzione, ecco che si introduce una parola molto complessa e problematica, che va affrontata con una solida competenza valutativa. Il termine “merito” è sicuramente parte della nostra storia educativa, scolastica e universitaria, ma è un termine pericoloso e ambiguo. E se non abbiamo una bussola rispetto a queste tematiche, rischiamo di farci divorare dalla pericolosa pluralità di significato del merito. La riflessione non solo sulla natura, ma anche sul “perché” della valutazione, può fornire un orientamento in questo ambiguo arcipelago di significati. 

 

SF – Ho l’impressione che i dibattiti contemporanei su merito, valutazione e competenzesiano molto polarizzati. Da un lato, troviamo chi sostiene che la valutazione è onnipresente e asfissiante. Tutte/i noi perdiamo un’infinità di tempo a valutare e a predisporci all’essere valutati/e, il ché toglie spazio e energia alla dimensione più e concreta del nostro lavoro. Da questa prospettiva, c’è solo una via d’uscita: meno valutazione. Dall’altro lato, troviamo una sacralizzazione della valutazione “oggettiva” e quantitativa, intesa come l’unico baluardo a difesa della giustizia e del merito contro l’arbitrio e i giudizi basati sui rapporti personali.  Quali sono gli strumenti che il tuo studio offre, per uscire da questa polarizzazione e dalle semplificazioni che essa implica?

 

CC – Questa interpretazione mi trova parzialmente d’accordo. La polarizzazione è nei fatti, non è nuova, e si sta radicalizzando. E senza dubbio la questione del “perché” rischia di essere trascurata da entrambi i fronti. Allo stesso tempo è vero a mio avviso che di valutazione oggi ce n’è troppa – se proprio vogliamo chiamarla “valutazione”, il che mi costa un po’, devo ammetterlo. Penso dunque che alcune critiche al sistema valutativo attuale siano corrette: è vero che è un sistema pervasivo, che tende a burocratizzare i processi ai quali si applica. Non concordo invece con l’idea che il problema sia la valutazione in se stessa. Al contrario, la valutazione – intesa in senso ampio come attribuzione di valore a qualcosa o qualcuno/a – è necessariamente parte della soluzione. Tra scuola e università, di valutazione rendicontativa ce n’è davvero troppa. L’errore è identificare questo tipo specifico di valutazione con la valutazione tout court.

 

SF – La teoria della valutazione di John Dewey è un’ispirazione importante del volume. Mi riferisco in particolare a due tesi deweyane: 1) la valutazione è una sorta di dato antropologico, un atto sociale che compiamo in continuazione; 2) bisogna distinguere tra valuation (il semplice dare valore a qualcosa) ed evaluation (la valutazione che riflette su se stessa in quanto mezzo per un fine ulteriore, e che tiene conto delle sue conseguenze). Il tuo libro sembra suggerire che nel contesto sociale attuale ci siano molte poche evaluations.

 

CC – La valutazione che educa è sicuramente un testo con radici deweyane. La teoria della valutazione e del rapporto tra mezzi e fini, la logica e l’idea dell’educazione come esperienza rappresentano una bussola irrinunciabile del mio lavoro. La mia scuola di formazione è quella di pedagogia sperimentale fondata da Aldo Visalberghi, un autore che ha contribuito in modo decisivo alla ricezione italiana del pensiero di Dewey. Riguardo alla situazione attuale, anche io penso che manchino valutazioni riflessive. C’una certa ritrosia a valutare la valutazione, ossia a concepire la valutazione come un atto sociale che produce degli effetti, e a rivalutare la valutazione anche in base a tali effetti. Una ritrosia comprensibile e umana, che però pone la valutazione fuori dall’atteggiamento scientifico. Il ché è paradossale, visto che le grandi istituzioni valutative (pensiamo a Invalsi) usano un linguaggio apparentemente iper-scientifico. Un paradosso che avrebbe attirato l’attenzione di Dewey – pensiamo la sua critica al “pedagogese”, il linguaggio che scimmiotta quello delle scienze “esatte” per dare un’impressione di scientificità. Ma, oggi come allora, se non ragioniamo sulle nostre idee a partire dalle conseguenze che producono, al di là del gergo impiegato, noi di fatto adottiamo un atteggiamento anti-scientifico. 

 

SF – Il sociologo francese Pierre Bourdieu ha messo in luce il rapporto tra valutazione e riproduzione. In una prospettiva analoga, tu sostieni che al giorno d’oggi le valutazioni rischiano di riprodurre le asimmetrie sociali ed economiche, piuttosto che di trasformare le persone e la società. 

 

CC – È un problema enorme. Esistono importanti studi in ambito pedagogico e sociologico che mettono in luce il modo in cui la valutazione funziona come meccanismo di riproduzione e rafforzamento delle asimmetrie sociali esistenti. Spesso ciò avviene in modo inconscio, ed è aggravato ancora una volta dall’assenza di riflessività, ossia dalla mancata riflessione sulle conseguenze reali prodotte dalla valutazione, e su come tali conseguenze si producano all’interno di strutture sociali ben definite. In breve, non c’è consapevolezza del ruolo conservatore svolto dalla valutazione in determinati contesti. Vorrei dire inoltre qualcosa sulle ricerche empiriche. Quando riporto lo stato dell’arte rispetto a determinati temi, uso spesso gli avverbi – “tendenzialmente”, “generalmente”, e così via. Lo faccio perché credo nel senso della misura. I test sono limitati, le definizioni operative sono parziali e quindi bisogna essere molto attenti quando si usano affermazioni del tipo: “la ricerca empirica ha confutato la teoria x”. Purtroppo, ci sono pressioni politiche ed economiche: c’è un mercato bisognoso di conferme forti, che poi possano essere rivendute in contesti extra-accademici e per interessi extra-scientifici – ad esempio, per mettere un bollino di qualità su determinate istituzioni, scuole incluse. Anche in virtù di queste pressioni è difficile far passare l’idea che la valutazione educativa non può essere ridotta a un riscontro puramente quantitativo. 

 

SF – Qualcuno/a potrebbe obiettare che l’idea di una valutazione educativa, sganciata dall’ansia quantitativa e dalla riduzione al voto, valga perfettamente per le scuole elementari, medie e superiori, ma non possa essere adottata in pieno in ambito universitario. In Università infatti arriva prima o poi il momento in cui bisogna fare selezione, e decidere chi va a avanti e chi no. Come fondare decisioni del genere, senza fare riferimenti a valutazioni in qualche modo quantitative? E senza tale aspetto quantitativo, la selezione non rischia di essere in balia di decisioni puramente arbitrarie?

 

CC – In generale credo che all’Università ci sia la necessità e l’urgenza di insegnare e apprendere. Essendo per definizione al servizio dei processi di insegnamento e apprendimento, la valutazione educativa dovrebbe svolgere un ruolo importante anche in ambito accademico. Anche in questo caso la valutazione descrittiva – ossia, la valutazione che descrive come e in che misura la prova dello/a studente ha raggiunto gli obiettivi prefissati dal corso, e che offre indicazioni di crescita e miglioramento – è più efficace e più costruttiva. Se invece parliamo di valutazione e assunzione del personale accademico, mi limito a due considerazioni. Primo, una buona valutazione descrittiva è bene argomentata. Le considerazioni quantitative possono supportare le buone ragioni, ma non possono sostituirsi ad esse. Secondo, alcune capacità di una determinata persona svolgono un ruolo decisivo nel modo in cui viene portata avanti una ricerca di successo – es. la capacità di lavorare in un determinato gruppo e in un determinato contesto – ma sfuggono a considerazioni puramente quantitative. Come tenere conto dell’importanza di tali aspetti, senza ricadere in logiche di selezione cosiddette “baronali”? Ecco, ritengo che questo nodo non possa essere sciolto da una specifica teoria della valutazione.  

 

SF – Un’ultima questione. Il tipo di valutazione che proponi richiede tempo e impegno. Oggi questo impegno nella valutazione come momento decisivo della didattica tendenzialmente non viene incoraggiato e premiato. In un contesto del genere, non risulta oggettivamente difficile sperimentare in tale ambito? Se vogliamo una valutazione educativa, non c’è bisogno di investire in un’educazione valutativa, ossia in un’educazione alla valutazione?

 

CC – Riprendo Dewey, il quale ci direbbe che il valore di qualcosa dipende dalle valutazioni concrete che caratterizzano un determinato ambiente sociale. Una cosa ha valore se viene valutata, ossia se diamo valore a tale cosa. Oggi sotto vari aspetti non viene dato valore alla didattica – pensiamo al ruolo totalmente secondario che essa svolge nelle valutazioni che decidono chi viene assunto/a e chi no, oppure nelle abilitazioni. È molto raro che i valutatori vadano a leggere i singoli files relativi ai corsi tenuti dalle persone che si sono candidate, per vedere come è andato l’insegnamento, che riscontro ha avuto, quanti studenti/esse hanno seguito il corso, e così via. Il nostro sistema non valuta se una persona sa insegnare oppure no. E le prassi valutative rivelano il valore che diamo alle cose. Ma proprio per questi motivi tanto la valutazione educativa quanto l’educazione alla valutazione risultano temi di grande importanza.

Matteo Santarelli è Dottore di ricerca in filosofia e scienze sociali (Roma Tre 2014; Università del Molise 2018). In precedenza, assegnista di ricerca e docente a contratto presso l’Università degli studi di Bologna. Nel 2019-2020 è stato Junior Fellow presso il Max Weber Kolleg di Erfurt (Germania).
Si occupa principalmente del rapporto tra filosofia morale, filosofia sociale e scienze sociali. Ha recentemente pubblicato La filosofia sociale del pragmatismo. Un'introduzione (Clueb 2021). Nel 2019 ha pubblicato la monografia La vita interessata (Quodlibet), una ricostruzione del concetto di interesse in John Dewey. Ha tradotto, curato e introdotto il volume di Hans Joas Come nascono i valori (Quodlibet 2021) e la raccolta John Dewey politico della crisi. Saggi scelti, una raccolta degli scritti politici di Dewey pubblicati nei primi anni ´30.
Ha pubblicato articoli in numerose riviste scientifiche internazionali, come ad esempio Inquiry, Review of Philosophy and Psychology, Revue philosophique de la France et de l'étranger, Transactions of the Charles S. Peirce Society, Constellations, Pragmatism Today, European Journal of Pragmatism and American Philosophy.