Intervista a Chantal Jaquet

A cura di Alessandro Balbo

Chantal Jaquet è docente di storia della filosofia moderna presso l'Università di Parigi 1 Panthéon-Sorbonne. La sua ricerca si concentra sulla filosofia del XVII secolo, sulla filosofia del corpo e sulla filosofia sociale. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Sub specie aeternitatis. Étude des concepts de temps durée et éternité chez Spinoza (Classiques Garnier, rééd. 2014) ; L’unité du corps et de l’esprit. Affects, actions passions chez Spinoza (PUF, 2004, rééd. 2015) ; Les transclasses ou la non-reproduction (PUF, 2014) ; Spinoza à l’œuvre (Éditions de la Sorbonne, 2017) ; Juste en passant (PUF, 2021).

Intervista sul libro: Les expression de la puissance d’agir chez Spinoza, Parigi, Les éditions de la Sorbonne, 2022

 

Questo testo viene oggi ristampato in una nuova edizione. Che cosa è cambiato e quali sono le novità nel suo studio? In che direzione si è mosso, negli ultimi anni, il dibattito sulla potentia agendi?

Allora, la seconda edizione è nata da una richiesta fattami dalla casa editrice della Sorbona, perché il libro era fuori catalogo e molti studenti volevano che fosse disponibile. Mi hanno quindi chiesto di accettare di rifare questa edizione. Così ho riletto il testo stesso e ho deciso di lasciarlo quasi del tutto identico alla prima edizione ma di aggiungere una nuova postfazione che sottolineasse la questione della potenza di agire. Perché mi sembrava che, anche attraverso la lettura del libro, le domande e i pregiudizi sulla posizione esatta di Spinoza rimanessero molto presenti. E mi sono resa conto del fatto che molto spesso, quando pensiamo a Spinoza, alla sua critica del libero arbitrio, finiamo per concepire il determinismo sul modello del fato stoico. Confondiamo il determinismo con la fatalità ed è per questo che ho ritenuto necessario tornare al concetto di potenza di agire, insistere sulla dimensione attiva della potenza e capire che in realtà quella di Spinoza era una posizione intermedia tra il libero arbitrio e la fatalità, e per questo era necessario distinguere tra necessità, necessità forzata e necessità libera. Volevo cercare di mostrare come la potenza di agire potesse essere l’espressione di una necessità libera, attraverso l'idea del fatto che noi ci determiniamo. Determinarsi non significa esercitare un libero arbitrio; significa proprio che chi agisce è guidato dalla propria ragione. Quindi, necessariamente, c’è sempre un certo determinismo. Il problema è capire se il determinismo è esterno o se è interno; in altre parole, se si è determinati dalla ragione o da altro. Per questo ho ritenuto necessario riprendere questo punto, che mi è sembrato troppo trascurato negli studi spinoziani, perché non è stata ancora sufficientemente recuperata la dimensione dinamica della potenza che coincide con la libertà.

Possiamo dire che esiste un certo determinismo in Spinoza, ma che si tratta di un determinismo attivo, un atto espressivo della potenza di agire che resta tuttavia all'interno del paradigma deterministico?

Esatto. Non si esce dal determinismo, ma Spinoza pone questa distinzione, che è problematica, tra il determinismo del ‘fuori’, esterno, e il determinismo del ‘proprio’, interno, sapendo che il dentro e il fuori non possono essere pensati in modo assoluto nella sua filosofia, perché necessariamente si interiorizzano le cause esterne e si esteriorizza il proprio potere modificando anche il mondo, modificando gli altri. Ma era importante capire che in un sistema determinista bisogna distinguere tra ciò che è attivo e ciò che è passivo, sapendo che quando siamo passivi lo siamo solo parzialmente, perché siamo cause inadeguate piuttosto che adeguate.

Nell’introduzione lei utilizza una metafora molto bella del pugno chiuso e della mano aperta come movimento stesso del pensiero: è questo, in fin dei conti, lo spinozismo? La durezza della verità che permette la comprensione del reale?  

Penso che possa essere una metafora dello spinozismo, che apre le mani a una forma di comprensione, che consiste nel prendere in considerazione il mondo esterno per determinare ciò che possiamo avere in comune, in modo che sia adeguato. Credo che questa metafora sia forse un modo per distinguere la comprensione stoica da quella spinoziana. Perché per gli stoici la metafora della comprensione è innanzitutto le cinque dita della mano, che sono le sensazioni. Poi, chiudiamo un po’ la mano, ed è la rappresentazione delle sensazioni. E quando si stringe il pugno con la mano, questa è la rappresentazione completa. Per gli stoici, la metafora della comprensione è il pugno chiuso, serrato, ripiegato su sé stesso. Nel caso di Spinoza, potremmo dire che aprire le mani significa anche accogliere il mondo, accogliere la relazione con l’altro e cercare di creare, o almeno di produrre, un mondo comune, una comunità politica, e di far emergere le nozioni comuni che possono unirci. Quindi, in questo senso sì, lo spinozismo è una filosofia dell'incontro, che a volte può essere disaccordo ma anche comunità, se riusciamo a ristabilire il nucleo comune che le nozioni comuni ci permettono di pensare sotto l’egida della religione.

Nel primo capitolo lei spiega come potenza, comprensione adeguata ed eternità siano termini che vanno di pari passo, come nel caso delle nozioni che permettono di comprendere ciò che è comune a tutti gli enti. Ma questa conoscenza implica un cambiamento del nostro rapportarsi alle cose, ovvero del nostro modo di intendere le cose?

Innanzitutto, quando siamo affetti dalle cause esterne, la maggior parte del tempo, non siamo affetti da ciò che abbiamo in comune. Siamo affetti in tale maniera che l’affezione si confonde, mischiando la nostra natura con la natura del corpo esteriore e dunque non avendo più un’idea distinta. Ma occorre mostrare che in tutte le affezioni, cioè le affezioni tra due corpi, a dispetto del carattere inadeguato dell’immaginazione che possiamo forgiare attraverso queste tracce dell’affezione, a dispetto di questo carattere inadeguato, vi è malgrado tutto un fondo comune, una comunanza di natura; ciò sarebbe solo la più piccola unità minimale di comunità: cioè l’estensione.  Dunque, a capo di ogni affezione, la ragione può pervenire a distinguere quello che può avere in comune e quello che resta di diverso. Si può provare questo nucleo di comunità attraverso tutte le affezioni, formando un concetto chiaro e distinto, e in particolare pensando alle nozioni dell’attributo come universali. E a partire da qui, soprattutto, dal momento in cui si concepisce l’estensione come nozione comune, si ha contemporaneamente la concezione dell'attributo, quindi anche il punto di partenza della conoscenza del terzo genere, poiché si va dall’idea adeguata di certi attributi di Dio, come l’estensione, verso la conoscenza delle cose. Quindi, partendo da qui, si può ricomporre anche qualcosa di più singolare della semplice nozione comune, poiché attraverso di essa, gli affetti sono già dati. Infine, sarebbe solo la nozione comune dell’estensione e quindi la concezione dell'attributo estensione che ci permette di progredire verso la conoscenza del terzo genere.

Nel secondo Capitolo: La positività del falso, leu mostra come, per Spinoza, bene e male siano solo denominazioni che esprimono il nostro modo di relazionarci alle cose. Spinoza non abolisce questi vocaboli ma li svuota del loro contenuto morale, conducendo una critica del valore tradizionale di queste nozioni. Ora, noi non possiamo non formare tali nozioni, essendo frutto della costituzione antropologica dell’uomo, del nostro concepire le cose attraverso l’immaginazione. Visto che questo processo fa parte della necessità delle cose, bene e male (se rettamente intesi) possono essere utili alla vita pratica dell’uomo? Inoltre, visto che bene e male non esistono in senso assoluto, quanto è corretto affermare che Spinoza sia un relativista? 

Certamente è vero che il bene e il male, o il buono e il cattivo, non esistono in sé in modo assoluto. Ma Spinoza non proclama, come Nietzsche, una filosofia "al di là del bene e del male". Dunque, egli mantiene questi termini. Spinoza li mantiene come dei termini che ci permettono di designare ciò che sappiamo con certezza essere utili per quanto riguarda il bene e ciò che sappiamo con certezza ci impedisce di acquisire un bene, come spiegato nelle definizioni 1 e 2 della parte IV dell’Etica. Quindi, ciò che è notevole in Spinoza è che pur affermando che il bene e il male sono relativi ai nostri affetti, sono produzioni del desiderio, ciò non significa che questo relativismo porti allo scetticismo e all’errore. Direi che abbiamo a che fare con un vero relativismo, nel senso che il bene designa ciò che sappiamo con certezza essere utile per noi, cioè quello che è veramente utile. E in questo caso è relativo a noi, non si applica in assoluto a tutta la natura, ma si applica a noi, in modo vero, cioè il bene designa tutti i mezzi efficaci che ci permettono di raggiungere questa natura umana, questo modello di natura umana. E allora, in questo senso, si può parlare di relativismo, ma di un relativismo adeguato e non di un relativismo scettico alla Protagora, dove l'uomo è la misura di tutte le cose.

Sempre nel secondo capitolo parla di volontà e di coscienza, due concetti storicamente legati al Soggetto, mentre in Spinoza si riferiscono alla teoria della potenza d’agire. In che termini si può parlare nella filosofia di Spinoza di una soggettività? 

Mi sembra che, in Spinoza, abbiamo qualcosa di alternativo alla nozione di un Soggetto che implicherebbe una sorta di gioco sostanziale, supportato da tutti questi affetti e in qualche modo autonomo dal mondo esterno. Ciò che funge da alternativa è piuttosto il concetto di potenza di agire, ma una potenza di agire che definisce un sé. Questo sé non è un dato, non è precedente, ma si costituisce proprio attraverso il potere. Per questo mi sembra che in Spinoza non ci sia innanzitutto un soggetto, ma piuttosto un essere o un modo soggetto a cause esterne. E quanto più questo essere agisce, tanto più diventa consapevole delle cose e di Dio. E dal momento in cui, attraverso la conoscenza e poi la coscienza, questo essere emerge, si può allora parlare di soggetto, ma questo ‘essere’ è in un certo senso un "prodotto di sé" e questo essere non è un "Sé" separato dal resto, perché è con lo stesso atto che il saggio è cosciente di sé, delle cose e di Dio. In realtà, essere coscienti di una cosa è anche essere coscienti di se stessi nella misura in cui si conosce quella cosa, ed è allo stesso tempo essere coscienti di Dio, poiché la cosa non può esistere senza Dio. Ecco perché, in realtà, essere coscienti di sé è allo stesso tempo essere sempre coscienti delle cose e di Dio, e non c’è separazione, non c’è un soggetto di fronte agli oggetti. Dobbiamo pensare alla continuità tra la coscienza di noi stessi, delle cose e di Dio. Questi tre oggetti della conoscenza, si potrebbe dire, sono in un certo senso uno.

Si può dire che non esiste per Spinoza un soggetto conoscente e un oggetto conosciuto, ma che entrambi sono implicati l’uno nell’altro, sullo stesso piano di verità e di realtà? 

Infatti, non c’è una sorta di soggetto a strapiombo che osserva il mondo da una certa di distanza. In questo piano di immanenza, ogni operazione di conoscenza è sempre allo stesso tempo un’operazione di conoscenza di Dio, delle cose e di se stessi. Proprio quando si produce un’idea, questa dà contemporaneamente l’idea di se stessa come produttrice dell’idea, e della cosa come ciò che è pensato, e infine di Dio come causa della cosa stessa. E così i tre atti non possono essere separati in questo tempo di immanenza.

A proposito della dimensione storica del pensiero di Spinoza, nel suo libro lei ha voluto sottolineare come Spinoza sia legato a una tradizione (gli antichi materialisti, la Scolastica o Cartesio). Secondo lei, Spinoza si inserisce in un canone di pensiero specifico o questo autore rompe con il suo tempo (penso all'evoluzione delle nozioni di durata ed eternità)? Di conseguenza, possiamo dire che Spinoza sia stato un’‘anomalia’ nel pensiero del XVII secolo? E infine, oggi, secondo lei, il pensiero di Spinoza può aprire nuove frontiere di ricerca in campi non strettamente filosofici?

Ci rimane sempre l’abitudine di dire di un autore che ci piace che è atipico, che è un’anomalia, per sottolineare il suo carattere eccezionale. Ma mi sembra che per Spinoza nulla sia fuori dall'ordinario, nulla sia un’eccezione, nulla sia straordinario. Quindi capire Spinoza significa anche capire i suoi debiti intellettuali, collocarlo in un paesaggio comune e vedere le linee di forza che lo distinguono dal contesto, ma anche le linee di forza che di quel contesto egli riprende. E se comprendiamo il pensiero di Spinoza, riusciamo a vedere la sua originalità pur iscrivendolo in una tradizione. Per esempio, possiamo vedere che dal punto di vista politico c’è una filiazione con Machiavelli e con Hobbes, anche se ci permetterà di pensare la politica non nella forma di un semplice calcolo razionale come nel caso di Hobbes, anche se penserà il fine dello Stato come qualcosa di più della sicurezza e della libertà, ma ci sono comunque linee di forza che ci permettono di distinguerlo da una tradizione più idealista, di andare in fretta, in un certo senso. C’è, allo stesso tempo, una singolarità di Spinoza, ma questa singolarità non è un’anomalia. È anche prodotta da un’eredità, da una rielaborazione delle emozioni. Mi sembra che ciò che Spinoza ci lascia in eredità sia l’idea che le idee stesse abbiano una forza e che, come tutte le cose, perseverino nel loro essere. Quindi possono continuare a produrre effetti. E credo che Spinoza abbia una teoria dell’idea che ci permette di capire che possiamo farne un uso attualizzante, un uso che faccia parte dell’estensione della dinamica di un’idea, che è sempre affermativa. Quindi, se è affermativa, continua a esserlo, deve produrre effetti oltre il suo tempo. E poi, affermata, incontra altre idee e, di conseguenza, ci possono essere deformazioni, torsioni, ma c’è anche una positività di queste torsioni. E penso che si possa fare un uso contemporaneo di Spinoza, sia un uso conforme al suo pensiero, e a quel punto la norma è il testo di Spinoza, che autorizza o meno un’interpretazione, sia un uso che sarebbe deformato rispetto al suo pensiero e che può avere una positività, così come gli errori possono avere delle positività, perché possono, attraverso i fraintendimenti, a volte permetterci di inventare. Non dico che tutti i fraintendimenti siano positivi, ma possono a volte permetterci di inventare nuove teorie. Mi sembra che nelle scienze sociali, per esempio, ci sia un’efficacia del pensiero di Spinoza, in particolare attraverso la rivendicazione della teoria degli affetti, che offre una forma di alternativa alla teoria dell’agente razionale che decide, ad esempio nell’interpretazione di Frédéric Lordon, gli affetti della politica. Ci permette di rinvigorire il pensiero politico mostrando come gli affetti non siano semplicemente emozioni rinchiuse nel dominio della psicologia, ma come ci sia un’attività interumana che passa attraverso questi scambi affettivi che possono essere produttivi, che possono essere recuperati, investiti dallo Stato o, al contrario, opposti allo Stato, una forma di resistenza attraverso l’indignazione, la rabbia, il desiderio di giustizia. Quindi, questa dimensione era estremamente presente e da parte mia, quando ho pensato al transclasse, lo sfondo antropologico era uno sfondo spinozista, ad esempio nell'idea degli affetti che giocano un ruolo nelle modificazioni in relazione alla propria classe sociale, come la vergogna, il desiderio di giustizia, l’orgoglio, l’ambizione. Tutto questo viene reinvestito anche in questa teoria della non riproduzione. C’è una positività del pensiero di Spinoza oggi, una dinamica di idee che continua oltre il suo tempo a produrre effetti.

Dunque, è lo stesso pensiero di Spinoza, il suo esser potente, che permette la produzione di idee altre.

Esatto, è una potenza che continua a dispiegarsi. Da questo punto di vista, abbiamo un’autorizzazione da parte di Spinoza a utilizzare in una certa maniera il suo pensiero in un senso più ampio.

Gli affetti sono un esempio lampante dell’unione tra mente e corpo. Essi sono da un lato il modo di pensare una cosa, dall’altro il modo in cui quella cosa è in relazione con noi. Per questo gli affetti sono sia legati alla passività che alla potenza umana. Da dove bisogna iniziare per rendere gli affetti non causa parziale ma causa adeguata del nostro agire? Si può dire che l’etica di Spinoza sia tanto corporale quanto intellettuale?

Possiamo dire che è tanto corporea quanto intellettuale, in quanto è una stessa cosa che si esprime in due modi. E, da questo punto di vista, ciò che si deve pensare è che non si tratta del corpo e della mente presi come sostanza o come monade ripiegata su se stessa, ma del corpo e della mente, a loro volta influenzati e influenzabili. Non possiamo quindi separare la concezione dell’unione di corpo e spirito dall’insieme delle relazioni che intercorrono tra loro, sia che le pensiamo sul piano mentale con tutte le idee che sono affetti mentali, sia che le pensiamo sul piano corporeo con le modificazioni e le tracce che i corpi imprimono su di noi o che noi imprimiamo su di loro. Da questo punto di vista, è interessante capire il modo in cui, infine, gli affetti possono anche singolarizzarci, cioè il modo in cui, attraverso gli affetti, ristabiliamo un aspetto singolare che designa l’insieme di tutte queste disposizioni in Spinoza, innate o acquisite, disposizioni che in ultima analisi portano la traccia della nostra storia e della storia collettiva, poiché il concetto di ingenium si riferisce non solo all’individuo umano ma anche al corpo collettivo, all’ingenium di un popolo. Quindi, in questo senso, pensare alle incarnazioni è sempre pensare a una rete di affetti che sono intrigati, a un insieme di modificazioni che sono singolari, perché il modo in cui le cose ci colpiscono rivela sia la nostra natura sia la natura delle cose che ci colpiscono. In questo senso, comprendere un aspetto è, in termini più moderni, comprendere un mondo costituito dallo scambio permanente tra interno ed esterno.

Alessandro Balbo è studente magistrale presso l'Università degli di studi Bologna "Alma Mater Studiorum". Si è laureato all'Università degli studi di Torino nell'aprile 2021, con una tesi intitolata: Nietzsche Anarchico: Un confronto tra Emma Goldman e Gianni Vattimo. Collabora al centro di ricerca Sive Natura. Ha scritto una serie di recensioni per la rivista Philosophy Kitchen. I suoi interessi si focalizzano sulla filosofia teoretica, politica, e morale, in particolare sul rapporto tra collettività e individualità e sulla gestione e formulazione del potere. I principali autori di riferimento sono Nietzsche, Spinoza e Deleuze.