Oltre il nesso di accecamento, Adorno e l’utopia: intervista a Lucio Cortella e Giovanni Matteucci

A cura di Antonio Marsicano

Lucio Cortella è attualmente Professore ordinario di Storia della Filosofia presso il Dipartimento di Filosofia e Beni culturali dell'Università Ca' Foscari di Venezia. Oltre ad essere Presidente della Società Italiana di Teoria Critica (SITC), dirige presso l'editore Mimesis la «Collana di teoria critica». Tra le sue recenti pubblicazioni abbiamo: La filosofia contemporanea. Dal paradigma soggettivista a quello linguistico (Laterza 2020), Cristianesimo e modernità: religione, etica e politica (Mimesis 2023), L’ethos del riconoscimento (Laterza 2023).

Giovanni Matteucci è attualmente Professore ordinario di Estetica Filosofica e Storia dell’estetica all'Università di Bologna. È Presidente della SIE – Società Italiana d’Estetica e Direttore del Dipartimento di Filosofia e Comunicazione dell’Università di Bologna. Tra le sue recenti pubblicazioni abbiamo: Estetica e natura umana, La mente estesa tra percezione, emozione ed espressione (Carocci 2019), Estetica della moda (Mondadori 2018) e numerose curatele di testi su autori del panorama estetico contemporaneo.

Segnalibri Filosofici: nell’intervento introduttivo di questo dossier, con il Professor Mordacci abbiamo mostrato come il concetto di utopia sia profondamente dialettico: l’utopia salda la negazione (ou-topos) e la posizione positiva (eu-topos) in un nuovo “luogo” che, intrinsecamente legato a quello già negato, ha la forza di aprire l’alternativa proprio perché nega in senso determinato il precedente. Per introdurre questa nostra discussione, mi chiedevo se poteste delineare qual è il “luogo”, il contesto col quale Adorno si confronta dialetticamente – dal punto di vista estetico e teoretico – per provare ad aprire la possibilità del superamento, dell’utopia?

Lucio Cortella: Comincerei col dire che questa relazione tra ou-topos ed eu-topos non funziona in Adorno. Nel senso che dalla negazione di quanto Adorno chiama il falso, il contesto di accecamento, non segue alcuna immagine positiva dell’utopia; Adorno ha sempre negato questa possibilità. Per lui vale sempre il comandamento mosaico, lo ribadisce in vari luoghi fin dalla dialettica dell’illuminismo: non ti farai immagine, non pronuncerai il mio nome, anzi quell’impossibilità è l’unica possibilità della nostra salvezza. Se teniamo fermo questo comandamento ci salviamo, se lo neghiamo, se lo invalidiamo, non c’è alcuna possibilità di salvezza. Questa è la prima cosa da dire riguardo Adorno. Quindi, per passare alla parte più specifica della domanda, l’unico luogo in cui può radicarsi il concetto di utopia – che ovviamente a questo punto sarà solo negativo – è per Adorno il contesto del falso, dell’accecamento: l’utopia può in qualche modo baluginare solo a partire dalle contraddizioni, dalle negatività, dalle falsità della nostra società e della nostra condizione umana. Questo, secondo me, ha una ragione più o meno esplicitata da Adorno, ed è la concezione radicale di utopia che ha un significato teologico: è redenzione, addirittura dalla morte, è superamento della morte. C’è un dialogo radiofonico del ‘64 tra Adorno e Bloch, giustamente intitolato usando una frase di Brecht “qualcosa manca”, nel quale Adorno è radicale: non ha alcun senso parlare di utopia senza il superamento della morte, siamo in contesto teologico, ecco il motivo per cui non possiamo dipingere uno stato positivo ma possiamo procedere solo tramite la negazione del falso.

Giovanni Matteucci: sottoscrivo tutto, aggiungerei un risvolto a quanto appena detto, che forse può aprire il versante estetico con maggiore nettezza. Il punto è quanto tradurrei come nesso, contesto di accecamento: noi siamo imbrigliati nell’accecamento, questo ci sta dicendo Adorno quando etichetta in questa maniera il luogo in cui ci troviamo e dobbiamo persistere – con un’assimilazione radicale del pensiero marxista per la quale non dobbiamo sognare mondi, paradisi del futuro o del passato, ma uscirne- standoci-dentro: il problema è come stare nelle cose, non come evaderne, questo è il punto fondamentale radicalizzato in Adorno. Come possiamo gestire questo nesso di accecamento? Io l’ho sempre intesa così: che il punto di Adorno fosse cercare di rimetterlo in moto, rimettere in moto una fattualità soffocante, statica, che schiaccia. Ma cosa vuol dire rimettere in moto il fattuale? Riaccendere il possibile, anzi, riaccendere l’idea che qualcosa sia possibile. Perché il vero punto in Adorno, ed è una diagnosi spietata, è l’azzeramento della possibilità come tale, non di una possibilità particolare che noi potremmo indicare come il nostro futuro: non c’è più possibile, tutto è fattuale, tutto è in una iperdeterminatezza che soffoca la nostra esistenza. Il vero problema è far vedere qualcosa al di là del fattuale, cosa riesce a mostrare che un ancora non-fattuale sia pensabile, possibile, auspicabile: non le possibilità vendute sul mercato, non i possibili che giocano alla fattualità, ma qualcosa che riesca in qualche misura a rimettere in moto, a superare quella saturazione dell’universo che non ammette angoli di alterità. Senza proporre nulla che sia un riempimento di quell’eventuale vuoto, che non si sa com’è.

Allora certo che torna quell’idea di redenzione come superamento della morte, perché la morte è l’assoluta fattualità, il dato di fatto come tale: il nesso d’accecamento è la nostra morte, il nostro non essere più degni di una qualità che, in quanto tale, non è ancora quantità, questo è il punto, di un possibile che rende possibile qualche oscillamento, qualche vibrazione, minuscola, microscopica, quell’1% che l’estetico riesce a far brillare, nel doppio senso di brillare come brilla una stella nel buio, ma anche come brilla un candelotto di dinamite quando fa esplodere una qualche parete. Dunque, il luogo certamente non è un buon luogo, ma direi piuttosto, e qui è la difficoltà di pensare con Adorno, che il punto sia non tanto di determinare una porzione, una regione come tale, ma far vedere la filigrana che nella tessitura del nesso d’accecamento mostra che una dimensione di possibile c’è, e per far questo bisogna ricordarsi che ogni fattuale risponde a una possibilità. Però questo è un compito che abbiamo dimenticato un sacco di tempo fa.


SF: chiedo al professor Cortella, per restare sullo stesso tema, se può parlarci della strada della negazione determinata intrapresa da Adorno: in che modo si differenzia dal modello hegeliano? Ed è forse proprio nel suo carattere negativo che il procedere adorniano può essere inteso come percorso utopico, in grado di tendere sempre verso l’alternativa senza immobilizzarla in un positivo? E infine, che ruolo ha in questo incedere negativo il non-identico, è lui il vero oggetto dell’utopia?

LC: Adorno scrive la Dialettica Negativa per confutare il modo hegeliano di intendere la negazione determinata. Per Hegel, la negazione determinata conduce a un positivo, è il grande motivo hegeliano contro lo scetticismo: definisce indeterminata la negazione dello scetticismo in quanto conduce a un nulla, si limita semplicemente a negare, a confutare il supposto vero per mostrare che in realtà è falso, rigettandolo nel medesimo baratro senza produrre nulla di positivo. Hegel non è d’accordo: nella negazione è presente un elemento positivo, e quest’elemento positivo dipende dal fatto che la negazione è sempre negazione di qualcosa di determinato, si porta con sé questa determinatezza concludendo con qualcosa di positivo. Adorno scrive la dialettica negativa dicendo che si trova davanti a una grande sfida: mantenere il carattere negativo della negazione, senza andare dalle parti di Hegel, senza perdere nulla in determinatezza. Sembra qualcosa di paradossale, ma l’opera serve a questo.

Per dirla molto semplicemente: il motivo che Adorno adduce per mantenere la negatività della dialettica è questo, ogni negazione è semplicemente l’indicazione dell’insufficienza, o della falsità, di ciò che viene negato, e a questo deve limitarsi. Mentre in Hegel c’è l’indicazione dell’insufficienza di ciò che viene negato, questo insieme al suo opposto determina in qualche modo la sintesi di due momenti; in Adorno al contrario non c’è sintesi: la stessa concezione hegeliana di negazione della negazione, dice Adorno, significa che essa non era sufficientemente negativa, e quindi bisogna approfondire ancora la negazione. Rimane totalmente negativa. Ed eccoci al punto della seconda parte della domanda, questa è l’unica condizione per consentire una qualche utopia, una qualche prospettiva di salvazione: mantenerci saldi nella negatività, perché ovviamente – ed eccoci a introdurre il tema del non-identico – quando neghiamo un negativo, in questa pura contraddizione, si mostra sempre qualcosa. Questa è la pretesa di Adorno: che non ci sia solo l’esibizione della contraddizione, ma che si mostri qualcosa che balugina, traspira, nelle maglie della contraddizione, e questo è quanto Adorno chiama il non-identico.

Ma il non-identico non è la stessa cosa della contraddizione: mentre le contraddizioni noi le vediamo, ci muoviamo nella logica e mostriamo che le cose sono contraddittorie, il non-identico che sta dietro non lo vediamo mai chiaramente. Se possiamo vedere solo le contraddizioni dell’identico, il nostro sforzo è mostrare come nelle stesse contraddizioni dell’identico si mostri un non-identico di cui non possiamo mai totalmente appropriarci, che rimane sempre un po’ al di là. E questo è ovviamente il luogo dell’utopia: l’utopia è il non-identico, una realtà non costretta nelle maglie dell’identità, ma non siamo nella condizione di sprigionarla completamente, possiamo solo mostrare le contraddizioni dell’identità.


SF: nel suo testo “Una dialettica nella finitezza, Adorno e il programma di una dialettica negativa”, il professor Cortella accosta il processo della dialettica alla mimesis artistica: “la logica mimetica è al fondo la medesima del pensiero identificante: anche l’arte vuole obiettivare la vita, fissarla e identificarla [...] nel fare questo però la mimesis mostra l’oggetto nella nudità delle sue contraddizioni e delle sue dissonanze. A differenza del pensiero identificante che di fronte alle fratture del mondo costringe quelle fratture ad appianarsi sotto la spinta di una conciliazione coatta, la mimesis concede piena espressione proprio a quelle lacerazioni, senza timore di doverle mostrare. L’arte è razionalità che critica la razionalità senza sottrarlesi” (Cortella 2006, p. 59). Potrebbe a partire da questo passaggio e parlarci del concetto di mimesis in Adorno e del suo possibile valore utopico nel ruolo di “contraltare” della negazione determinata?

GM: partirei proprio dalla costellazione di concetti che emerge in questo passaggio per cercare di rispondere. Innanzitutto, non dobbiamo dimenticare come il concetto di mimesis in Adorno non abbia riferimento al tema della rappresentazione, bensì abbia chiara attinenza alla radice della parola, e dunque al rapporto col mimo, ricordato anche in Teoria Estetica. La mimesis è l’attività del mimo, prima di tutto, quello che anche Benjamin scriveva, il bambino che gioca a fare l’aeroplano, questa è la mimesis: non una raffigurazione di un qualunque contenuto, ma la messa in esecuzione, l’attivazione, di un’esperienzialità innervata nei contenuti della nostra relazione al mondo. Questo è il punto vero. Quando prima parlavamo di rimettere in moto il nesso di accecamento, Adorno sta guardando a questo, cioè al recuperare quella dimensione performativa che sempre accompagna il concetto di mimesis.
Per esempio, cosa vuol dire quando nell’introduzione a Dialettica Negativa scrive che c’è una componente mimetica del concetto, della parte teoretica, aprendo già di fatto a Teoria Estetica? Dire ciò, e qui torniamo alla questione della negazione determinata, non vuole farci intendere il negativo come qualcosa di speculativo: a ragione Lucio Cortella distingueva tra la contraddizione come faccenda logica, l’identico, la parte positiva, affermativa, propria del concetto, e il non-identico come ciò che guadagniamo in termini di esperienza quando fallisce il concetto. Il vero punto sta qui secondo me, e qui si toccano Dialettica Negativa e Teoria Estetica. Io do sempre quest’immagine: se concetto in tedesco è Begriff, che viene dal verbo begreifen che vuol dire afferrare, il fallimento del concetto – e lo dice bene Adorno – non è quando io rinuncio al concetto, bensì quando lo porto al punto di rottura, all’estremo, e nel momento in cui fallisce la mia presa, il mio Begriff, allora io sfioro qualcosa, e quello sfiorare è l’esperienza che io faccio di qualcosa che non riesco a possedere: è l’estetico, che non a caso in Teoria Estetica viene introdotto attraverso il comportamento mimetico che è dato dal senso della pelle d’oca, sfiorare qualcosa senza saper determinare ciò di cui ne va.

Allora negazione determinata, non-identico, utopico, si addensano l’uno sull’altro, sono l’esempio di una possibile alterità rispetto a ogni nostra possibile determinazione, perché qualcosa di sensibile, espressivo, estetico, materiale e non qualcosa di logico, concettuale. A cui noi arriviamo solo tramite questa nostra pervicace estremizzazione del concettuale: perché si tratta di portare al punto di rottura il concetto, esasperarlo e non saltarlo nel nome di un certo irrazionalismo. Ecco, questo, secondo me, è il mimetico. E mi va molto bene leggere nel passo di Lucio “anche l’arte vuole obiettivare la vita, fissarla e identificarla” nel senso che l’esperienza estetica nell’arte viene configurata, tradotta, costruita e tuttavia sempre facendo cogliere qualcosa che ogni volta che provo ad afferrare, a definire, sfugge, perché è mimetico e perché io guadagno, al di là di ogni logica, in termini di esperienza. Il mimetico, l’estetico, il non-identico, l’utopico, è quel quantum di esperienza che torniamo a fare quando il nesso d’accecamento viene rimesso in moto, finché c’è il nesso d’accecamento non c’è esperienza da fare.

Questo Adorno lo esprime molto chiaramente quando scrive che “si è atrofizzata la nostra capacità di sentire”, che non facciamo più esperienza, noi siamo solo identificati ed identificanti; invece, fare esperienza è quando fallisce tutto questo. Ultimissima cosa, per collegarmi al discorso precedente, perché allora negazione determinata? Perché la negazione determinata, anche nel senso chiaro della negazione non ontologica, non di quello che ho davanti, ma del limite che impedisce la riconnessione, la relazione, che non fa diventare il qualcosa con cui mi rapporto un termine di relazione: allora devo negare l’ossificazione, il limite, il condizionamento, ma per far questo devo usare il concetto, non per sostituire un altro concetto con la positività, ma per rompere la macchina della concettualità, e quel rompersi è quel fuoco d’artificio che genera l’esperienza nella sua capacità espressiva, gratuitamente. 

 

SF: in un passaggio de “l’artificio estetico, moda e bello naturale in Simmel e Adorno” il professor Matteucci scrive: “l’arte rappresenta un modello proficuo per la ricerca di un’alternativa alla classica relazione gnoseologica tra soggetto e oggetto che costituisce la crux del pensiero teoretico occidentale” (Matteucci 2012, p. 111). Chiedo al Professor Cortella: in che senso tale relazione, per Adorno, ha carattere coattivo? E come con la dialettica negativa cerca di superarla? Chiedo invece al Professor Matteucci: in che modo l’arte riesce in Adorno a sopperire alle mancanze della pura teoresi? E in particolare in questo caso che alternativa viene data dalla dimensione estetica?

LC: mi ricollego a quanto ha detto Giovanni prima: la relazione soggetto-oggetto, per com’è stata pensata dai filosofi occidentali è esattamente la negazione della mimesis, l’antimimetica: invece di essere mimetica è proiettiva come relazione. Trasferisco la mia soggettività, la mia concettualità sulla cosa e in questo modo l’ho perduta: la cosa diventa violentemente posseduta da me, e dunque perdo la verità e ne faccio un falso. Su questa contrapposizione tra mimesis e proiezione già Adorno e Horkheimer hanno lavorato nella Dialettica dell’illuminismo: l’atteggiamento dell’uomo occidentale è un atteggiamento proiettivo, che copre l’oggetto a partire dal soggetto, mentre la mimesis è il contrario, lascia parlare l’oggetto sul soggetto attraverso un atteggiamento non identificante, non rappresentazionale, ma appunto mimetico. Potremmo dire che, paradossalmente, Adorno cerca di introdurre la mimesis dentro la dialettica, cioè di non fare un lavoro solo concettuale, come era in Hegel, ma di introdurre questo elemento comportamentale attivo che permette alla dialettica di mostrare le contraddizioni e a mostrare il non-identico che ci sta dietro. La dialettica in fondo è questo, e in questo senso non è più positiva come in Hegel, perché diventa qualcosa quasi di non più teoretico, nonostante la struttura teoretica della dialettica, con l’introduzione dell’atteggiamento mimetico.

GM: partirei da quello che diceva prima Lucio Cortella: il tentativo di Adorno è quello di portare la mimesis nella dialettica, e quindi rispetto a un pensiero dialettico che ha sempre posto la logica come scienza regina, la scienza regina diventa l’estetica, la teoria estetica. Non l’estetica come filosofia dell’arte, ma una teoria che sappia essere estetica, che sappia far suo anche il momento estetico della mimesis, e questo lo dice anche in Dialettica Negativa e non va dimenticato. Allora perché l’arte può qualcosa? questo emerge bene nei testi in cui Adorno insiste sul fatto che la grande opera d’arte è quella che riesce a dar suono a quanto si sottrae a ogni modello.

C’è un bel passaggio di un saggio che si chiama “Senza Modello”, Ohne Leitbild – che ha dato anche il titolo alla raccolta che in italiano è stata sciaguratamente tradotta come “Parva Aesthetica”, sottotitolo dell’edizione tedesca – in cui Adorno dice chiaramente che dobbiamo ricordarci che ogni opera, anche quelle del passato, invocate da coloro che lamentano che l’arte contemporanea sia anarcoide o soggettivistica, era costituita da questo fatto: il modello a cui si risale, così come rimontiamo a una lingua naturale quando parliamo, diventa espressivo quando, nel modo di parlare che ho, faccio percepire lo sforzo di usare proprio quelle parole lì e non altre. La forza dell’espressione sta non in quello che viene affermato ma nella fatica che si fa nel produrre quell’espressione lì, è quello che rende preziosa l’espressione, perché allora si va al di là del positivo e si fa l’esperienza di quello che sfugge, cioè della fatica che si fa a restituire un senso. In questo l’opera d’arte è riscatto, dar suono a ciò che suono non ha.

Che non è soltanto il progetto benjaminiano di far parlare gli sconfitti nella storia ricostruita, ma proprio la capacità di rimettere in vibrazione qualcosa che ormai è soltanto soffocato: e questo va cercato, per Adorno, nei materiali dell’arte, perché è ciò che si è sedimentato nella materialità della nostra esperienza che deve diventare ragione di espressività, non qualcosa che configuro in astratto. Questo porta anche Adorno ad affermare, e poi a correggere il tiro, quella famosissima frase su Auschwitz rispetto alla poesia: quando dice che, dopo Auschwitz, ogni poesia è un atto di barbarie, mentre poi nel ‘66 ci torna sopra e spiega cosa voleva dire. Proprio questo: se poesia significa anche affermare i vinti, non abbiamo il rispetto per quell’azzeramento di voce: il problema sta nel produrre qualcosa che sappia far esperire il silenzio, questo è il punto. Quando si riesce a far questo ben venga, ma oggi la poesia è un atto di barbarie nella misura in cui vogliamo cantare le glorie dei vinti e questo è davvero un insulto, perché non è rispetto per chi ha dovuto passare l’esperienza dell’annullamento della sua stessa possibilità di dire, della sua stessa voce.

Poi è chiaro che si può discutere all’infinito se questa radicalità adorniana sia giusta o non giusta, però qua si coglie un aspetto davvero importante e significativo: il rispetto sta anche nel far sentire il silenzio, ecco il punto. Cosa vuol dire sentire i silenzi? L’Adorno musicologo riusciva a cogliere questi aspetti. Una cosa che detesta del jazz, o anche di Stravinskij, è il tutto pieno di quella musica: non c’è un momento di ‘staglio’ rispetto a uno sfondo che sta lì. E questo è proprio il far parlare le cose, come diceva prima Lucio Cortella, che, secondo me, gli frutta una vicinanza, che lui non avrebbe mai accettato, alla fenomenologia: dal suo corpo a corpo con Husserl acquisisce tantissimo, in quanto questa materialità che investe di senso l’esperienza, nella fenomenologia c’è, e in Teoria Estetica questo aspetto affiora. Comunque questo è tutto un altro discorso interpretativo che non è il caso di far qui.

LC: rafforzando quest’aspetto, prenderei un passaggio di Dialettica Negativa in cui Adorno dice della stessa dialettica negativa che è più positivistica del positivismo, perché ha a cuore la cosa. I due grandi nemici, positivismo e fenomenologia che diventano tratti con cui Adorno vuole avere a che fare verso la verità della cosa ora perduta.

GM: curiosamente era proprio Husserl a dire che era più positivista dei positivisti, stesse parole, ma vuol dire quello che dicevi tu: torniamo alle cose, che non sono le Dinge, ma sono le Sachen, cioè queste componenti, strutture di espressività, relazione, e diamo voce a tutto questo.


SF: nella sezione della Dialettica Negativa dedicata ai “modelli” della stessa, Adorno affronta in un lungo capitolo il concetto di libertà, “concepibile soltanto nella negazione determinata della corrispondente figura concreta dell’illibertà” (Adorno 2004, p. 206). Chiedo al Professor Cortella se l’analisi adorniana della libertà non può essere considerata come un passaggio di quel percorso utopico che tramite la negazione determinata del presente – storico e teorico – cerca un superamento che tenda – criticamente – alla conciliazione. Può parlarci meglio in questo senso della proposta adorniana di superamento dell’idea kantiana di libertà?

LC: torno velocemente su quel dialogo radiofonico del ‘64 tra Adorno e Bloch di cui parlavamo prima. Perché in quel dialogo Adorno dice, e Bloch è d’accordo, che una vita nella libertà e nella felicità è l’unico contenuto di cui possiamo parlare in termini di utopia: questa è l’utopia. Quindi ecco che a parlare di libertà ci troviamo in uno dei luoghi dell’utopia adorniana, e lui aggiunge che dire che l’utopia è una vita nella libertà e nella felicità non è ancora farsene un’immagine determinata e quindi fossilizzarla. Ma è l’unica immagine che possiamo avere dell’utopia. Quindi è chiaro che parlare di libertà, significa parlare di un contenuto specifico dell’utopia. E qui il contrasto con Kant è specifico, perché sappiamo che Kant concepisce la libertà come opposizione alla natura: libertà non ha nulla a che vedere con la natura; quindi, siamo liberi nella misura in cui ci opponiamo e imponiamo la nostra libera causalità alla causalità naturale. La libertà ha un contenuto diremmo in certa misura intellegibile, o noumenico potremmo quasi dire, di contro ai caratteri fenomenici della vita puramente biologica e naturale.

Adorno ci chiede di stare attenti, in quest’immagine c’è qualcosa di vero, ma c’è anche qualcosa di falso: perché nel momento in cui mi contrappongo alla natura, esercito un’azione violenta nei suoi confronti, introduco di nuovo l’identità sulla non-identità, l’identico ha di nuovo il privilegio sull’amorfo della nostra naturalità. E quindi noi dobbiamo concepire al tempo stesso la libertà in senso kantiano ma anche la non- identità della nostra natura, e quindi in realtà la vera libertà sarebbe dentro la natura, non fuori dalla natura: questa è la correzione adorniana. Lui usa a un certo punto un’espressione: l’elemento aggiuntivo, dobbiamo aggiungere un di più rispetto alla libertà kantiana, e questo di più è proprio l’elemento naturale. Essere liberi come natura, non contro la natura, questa è la grande utopia, in quanto sembrano inconciliabili le due cose: identici e non-identici al tempo stesso, questa è la formula che usa Adorno, solo in questo modo riusciremmo a essere felici, e quindi oltre la coattività naturale e oltre il dominio dell’identità.

GM: su questo essere naturali senza natura mi viene in mente molto un autore amatissimo da Adorno che era Valery, che scriveva: “noi dobbiamo fare le cose necessarie come se fossero le cose che vogliamo fare”. Volere ciò che siamo costretti a essere: la libertà nella natura sta nel voler essere questa natura, non però come qualcosa di impostoci da un’agenzia esterna che ci domina, e al tempo stesso senza essere noi stessi a dominare la natura, ma è la combinazione lo stato di grazia del grande virtuoso, come Maradona col pallone, la natura del calcio che faceva quel che gli pareva.


SF: abbiamo visto che Adorno è stato fortemente critico sia verso l’arte pop, sussunta pienamente alle necessità dell’industria culturale, sia verso autori come Brecht, che hanno cercato di far risaltare il valore utopico della potenza politica dell’arte. A partire dalla critica adorniana, chi sono gli artisti che per l’autore francofortese sono stati in grado di aprire verso la dimensione critica dell’utopia di cui abbiamo finora discusso?

GM: se voleste una lista non saprei da dove iniziare, sicuramente l’ultimo Mozart del Flauto Magico, a proposito di una natura che è anche costruita artificialmente ed eppure appare natura, lo dice Adorno in un saggio molto importante del ‘38. La domanda però va integrata, non sono solo due le famiglie di artisti detestate da Adorno, bensì tre: la critica all’arte pop va di pari passo con una critica alla religione artistica. Adorno detesta anche gli snob, e in un saggio del ’38 lo dice molto bene, ce l’ha a morte con tutta la celebrazione del grande esecutore, del grande direttore d’orchestra etc., fino a dire addirittura che gli piacciono le voci liriche un po’ stonate rispetto a quelle perfette propinate dal mercato della cultura. Dunque Adorno va liberato dal cliché per cui era uno snob, per cui voleva l’arte d’avanguardia a tutti i costi, lui detestava tutte le forme in cui l’arte non era arte, e vedeva in questa sia l’arte di mercato che quella dell’élite pura e semplice, e insieme detestava coloro che usavano l’arte per fare politica: se io voglio propagandare un pensiero politico, scrivo un pamphlet politico, non un’opera teatrale, ecco il motivo di insoddisfazione nei confronti di Brecht e di Sartre, a cui preferisce per esempio uno come Beckett, ma perché?

Il punto credo stia in questo, nel trovare quegli artisti che hanno rotto il principio del linguaggio significante, a favore del linguaggio significativo: capiamo perché la sua passione va per Kafka, Valery, Beckett, per coloro che usano il linguaggio non in funzione della sua capacità di essere significante, cioè di denotare qualcosa – perché questo è il linguaggio della positività, dell’affermazione, del linguaggio che determina la realtà –, ma per renderlo espressivo nei confronti di quanto non è mai qualcosa di significabile in senso forte, ma che va comunque espresso tra le pieghe della formazione linguistica. Cioè, conta il come si strutturano le forme linguistiche piuttosto che i significati delle singole parole o delle proposizioni. In Teoria Estetica a un certo punto scrive che nel campo della poesia neanche la copula ha più il suo significato di copula, la parola “è” non è più una copula, ma un lacerto di significatività e non di significanza; e infatti parla di paraiconico e paralinguistico continuamente, sostenendo che non è né propriamente immagine – perché non c’è nulla da rappresentare – né propriamente denotazione, linguaggio, ciò che viene costituito nell’arte, ma qualcosa che oscilla continuamente tra un punto di fuga che sarebbe la fotografia, la rappresentazione, e un punto di fuga che sarebbe la denotazione, ma non può essere né l’uno né l’altro.

Allora quali sono gli artisti che gli piacciono: coloro che smontano il gioco del significante e rendono i materiali significativi. E abbiamo una serie di artisti che hanno saputo farlo secondo lui, abbiamo parlato di Mozart, sicuramente Beethoven, ancora più di Schönberg c’è Webern, oltre a Berg, ovviamente. E poi ancora chi, in campo letterario Kafka, Valery, e sicuramente Beckett, non perché esibisce il silenzio, ma perché esibisce il linguaggio, privandolo di ogni sua possibilità di produrre senso: in Aspettando Godot i personaggi straparlano, addirittura, ma è questo loro straparlare che rende significativo il silenzio, laddove si produce il senso. Ecco perché non può accettare i gesti ideologici della nuova musicalità quando questi diventano programmatici nel voler costruire un significato ideologico. Adorno sapeva bene che ogni idea, ogni ideologia, anche la più rivoluzionaria, se espressa bene diventava preda del mercato, come l’immagine di Che Guevara stampata sulle magliette, alla fine diventa un brand: allora è vero che, secondo Adorno, l’opera d’arte deve essere moda, deve correre il rischio di essere merce al 99%, ma proprio per diventare quell’unicità che non riesce mai a essere replicata; mentre qualcosa che vuole essere ideologico rischia di essere riproducibile all’infinito, e questo lo riteneva un’ingenuità clamorosa, in quanto portava ad alimentare il nesso d’accecamento. Famoso è lo scontro con Joan Baez in televisione, dove mentre questa canta la sua canzone contro la guerra in Vietnam, lui ripete sostanzialmente il fatto che dopo Auschwitz ogni poesia è un atto di barbarie, perché? Perché è mercato, se troppo bella e positiva soltanto.

LC (a GM): volevo tornare con Giovanni su un tema, che si lega all’ambito estetico che sta a lui particolarmente a cuore, cioè sulla cosiddetta sfiducia adorniana sulla prassi politica, della trasformazione delle cose, che si lega naturalmente al fatto che il luogo in cui più di tutti l’utopia adorniana si manifesta è la dimensione estetica: non c’è forse in questo l’idea adorniana che l’utopia può dimorare solo lì? Che non c’è sostanzialmente alcuna possibilità di ribaltare concretamente nella prassi questa grande utopia che vediamo nelle opere estetiche? Lì c’è una sfiducia adorniana per cui fondamentalmente l’utopia la possiamo intravedere in questa dimensione sollevata dell’esistente, che fa gioco ad Adorno, e qualunque tentativo di vederla realizzata nelle cose è destinata al fallimento?

GM: innanzitutto direi che Adorno non è Marcuse. Il tardo Marcuse scrive un testo straordinario come La Dimensione Estetica, in cui dice che adotta in pieno la prospettiva adorniana, salvo che non è adorniano: in quanto cercava questa trasformazione, questa relazione con la prassi che in Adorno viene meno, ma perché viene meno? La sua è una sfiducia molto più radicale a riguardo. Come mostrato anche dalle lezioni in corso di pubblicazione, Adorno riesce a vedere l’estetico al di là dell’arte, riesce a capire che il problema dell’estetico posto radicalmente – come quella dimensione utopica che è l’esperienzialità del sensibile e del qualitativo, quanto è scomparso nella nostra realtà – nemmeno nell’arte si trova più. C’è un saggio degli anni ‘66/’67 raccolto in Senza Modello, in cui Adorno sostiene che la bellezza non è più una questione che riguarda l’arte, in quanto questa riguarda la vita quotidiana, quella che abbiamo iniziato a chiamare “estetizzazione”, che lui non vede negativamente: forse lì si annida ancora una potenzialità di rovesciamento che neppure l’arte, ormai così affermativa in quanto caduta nelle braccia dell’industria culturale, riesce più a coltivare.

Questo è un punto estremamente interessante che farebbe pensare a quelle forme di coltivazione dell’estetica dell’esistenza come quelle comunità che dagli anni ‘70 in poi hanno cercato di costruire delle vite alternative rispetto alla vita nel sistema. Lo dimostra anche un altro saggio estetico, quello sullo sfrangiamento delle arti, in cui ci dice che tutto sommato noi lo happening lo dobbiamo capire, non possiamo condannarlo: il che è clamoroso, se noi avessimo un Adorno snob, come siamo abituati a pensare, una frase del genere non la riusciremmo mai a capire. E invece se abbiamo lo happening, che è la messa in discussione del sistema delle arti, significa forse che il sistema del sensorio, l’organizzazione dei sensi sta cambiando, e quindi c’è forse un altro regime di possibilità che può sprigionare energia sensibile. Questo è l’unico aspetto non deprimente che ho colto nell’estetico adorniano, altrimenti hai ragione tu: di certo non è una filosofia che sa indicare delle strade di azione definite, è un continuo richiamo a rimettere in discussione anche le scelte fatte, e la sua funzione è questa, ricordarci che c’è un limite che va sempre e ancora superato.

GM (a LC): io vorrei chiedere una cosa per converso a Lucio. Nel cuore della Dialettica Negativa, quanto effettivamente c’è di analisi, anche dal punto di vista teoretico, del sensibile in Adorno? Io vedo quasi Adorno rinunciare all’analisi del sensibile nella parte teoretica, per scaricarla tutta nella parte più estetica della sua riflessione. Mentre alcuni spunti che trovo in Dialettica Negativa aprono delle porte che non vengono però mai interamente attraversate da questo punto di vista. La componente del sensibile nell’Adorno più classicamente teoretico è solo annunciata o in qualche modo anche percorsa?

LC: condivido: manca questo elemento in Dialettica Negativa. C’è solo in quel luogo a cui accennavo prima, nel modello critico sulla libertà in Kant in cui apre a naturalità, dicendo “noi siamo liberi quando diremo di noi stessi che siamo stati un buon animale”. In queste parole c’è un atteggiamento di attaccamento alla sensibilità naturale che manca nel resto della Dialettica Negativa, il cui tema è soprattutto il conflitto tra il non-identico nascosto e il sistema dell’identità in cui viviamo, dicotomia che diventa quasi una struttura ontologica: c’è la verità a noi resa inaccessibile, e poi c’è tutto il sistema dell’identico che ce l’ha resa inaccessibile e che noi possiamo solo far saltare attraverso queste due vie, l’una è la dialettica, l’altra è l’esperienza estetica. La sensibilità, al di là di quel capitolo sulla libertà, è abbastanza nascosta, si trova soltanto tra le righe. Nei luoghi in cui parla del linguaggio qualcosa potrebbe venir fuori: cos’è l’interiorità del linguaggio rispetto al concetto, c’è qualcosa di fattuale che sta nella lingua, nel suono della lingua? E nel suono c’è il non-identico, laddove nel concetto il non-identico lo perdiamo. Queste forse sono le uniche annotazioni che possiamo trovare in quest’opera.

GM: E così in un certo senso confermi quanto dicevamo prima: non il significante ma il significativo, perché il suono è significativo pur senza essere significante, mentre il concetto è solo significante e risolve la significatività in significanza. Forse anche questo è uno dei motivi della sua paralisi rispetto alla prassi, per non aver congiunto i due universi in maniera forte. Se avesse potuto scrivere la terza opera sulla filosofia morale, forse, avremmo avuto un tentativo di apertura su questo punto di vista. Non dimentichiamoci del progetto adorniano di compiere una specie di trilogia, rovesciata rispetto a Kant: invece di fare teoretica, pratica, estetica, abbiamo la teoretica, estetica e una filosofia pratica che manca come rielaborazione complessiva, pur essendoci in tanti suoi scritti.


SF: Vorrei concludere chiedendovi, per riassumere, qual è l’aspetto più rilevante dell’utopico in Adorno?

LC: mi soffermerei su un’espressione che ricorre spesso in Adorno, in Dialettica Negativa ma anche in altre opere: nell’ente c’è sempre il di-più-di-quel-che-è. Questa è l’idea adorniana: abbiamo a che fare con le cose, con gli enti, ma c’è sempre un di più, un’ulteriorità, e quest’ulteriorità è in un certo senso l’utopia, e il compito del pensiero è esattamente mostrare questa cosa, questa possibilità ulteriore. l’ulteriorità dentro il fattuale.

GM: Sottoscrivo e rifletterei sul fatto che è oltre a ciò che è: il punto sottile diventa che non ne possiamo parlare facilmente perché non è. Cioè la componente utopica non è mai qualcosa di determinante ontologicamente, o anche onticamente, quindi è il saper dar corso alla materialità per vedere cosa ne viene fuori: è far brillare il fuoco d’artificio, sapendo che una volta che è scoppiato non ne resta più nulla, non c’è un ente dietro al fuoco d’artificio, si consuma in tutto ciò. Ecco dove sta l’utopico, saper stare nella manifestazione della nostra relazione al mondo, questo è il punto vero, senza pretendere che ci sia qualcosa di consistente che la regga, e nutrirsi di manifestazioni è qualcosa di complicatissimo, forse lui andava per questa direzione. Ed è difficile perché vorrebbe dire vivere nella qualità e non nella quantità, nel come e non nel cosa, nel quale e non nel quantum, e cambia molto rispetto a come viviamo. Ed ecco perché utopico, anche nel senso di mai perseguibile fino in fondo

Antonio Marsicano è studente di filosofia all'università di Bologna. Tra i suoi campi di interesse vi sono la filosofia marxista, la teoria critica della società e lo studio del concetto di immaginazione. Fa parte della redazione di Oasi Rivista, spazio orizzontale di analisi sul presente e di immaginazione sul futuro artistico e politico del nostro mondo.