Giacomo Scarpelli - Bolgheri. Storia di una passione dickensiana

1. Quartetto d’estate

Si è detto che le parole sono pietre. Possono essere anche energia creativa, la quale è portata appunto a esplodere dalla massa, o masso. La parola Bolgheri oggi non esplode più come l’impulso romantico della memoria che ispirò Carducci. Suscita soltanto l’idea di requie da fine settimana, da turismo sapiente, che serenamente si oppone alle tumultuose vacanze nell’Oceano Indiano e nel Mar Rosso.

Carlo Cassola perché usa le parole Tempi memorabili per descrivere l’estate di un adolescente a Marina di Cecina nel 1935?[1] Cosa aveva ancora di memorabile la Maremma dopo Carducci? Aveva proprio quello che la Maremma era stata prima. Aveva proprio e ancora quel nulla antico, vasto e profondo, quel segreto che incanta e non si svela, un grande spazio vuoto, però fitto di pace desiderata e di memoria immaginata. Memoria che è desiderio di romanzo. Questo ancora si può sentire vibrare in quella terra, se si sta attenti e al tempo stesso se ci si lascia andare.

La parola romanzo (o film, che poi vuol dire la stessa cosa, si tratta pur sempre di una storia raccontata), sorvola Cassola e Carducci e raggiunge una delle grandi patrie del romanzo stesso: il Kent, l’Essex, o il Devon, quella specie di Maremma del Regno Unito, nella quale nasce il piccolo Pip, antenato forse del piccolo Fausto, protagonista di Tempi memorabili e della bimba Estella, che precedette tempestosamente la Bionda Maria di Bolgheri, nell’Idillio maremmano.[2]

Nell’ormai lontano 2007 mio padre Furio e io abbozzammo un progetto di storia cinematografica, ispirandoci da un lato a Carducci e Cassola, dall’altro precisamente a Grandi speranze di Dickens, che secondo Gilbert K. Chesterton possiede un’ironia serena e una mestizia di fondo che la rendono unica tra le sue opere.[3] Grandi speranze era uno dei romanzi favoriti di mio padre, così come lo era dei suoi amici Carlo Fruttero, Italo Calvino e Pietro Citati, nostri vicini nella pineta di Roccamare, presso Castiglione della Pescaia, in piena Maremma per l’appunto, dove negli anni Settanta e Ottanta trascorrevamo l’estate. E qui sia permesso soffermarsi a raccontare come capitava che tutti e quattro si ritrovassero verso sera, sotto i pini, nello strepitare imperterrito delle cicale, a chiacchierare con apparente levità di questioni profonde. Tra le occasioni di dibattito che rammento, le sculture di Fausto Melotti che avevano ispirato Calvino per Le città invisibili, la critica al pensiero solipsistico, il cinema del periodo muto di Jasujiro Ozu, i romanzi di William Golding, di Mario Tobino e, soprattutto, di Charles Dickens.

Fruttero, autore con Lucentini della Donna della domenica (di cui mio padre aveva scritto con Age un felice adattamento cinematografico),  era stato forse il primo ad appassionarsi di Grandi speranze, di sicuro il primo a occuparsene professionalmente.[4] Perché, si era chiesto Fruttero, si leggeva e ancora si legge Dickens? Il primo capitolo di Grandi speranze conteneva tutte le risposte: il fatale e indimenticabile incontro di Pip, piccolo orfano, con la figura spettrale del forzato evaso, nel nebbioso cimitero di campagna. Letto il primo capitolo, si continuava per ritrovare quella miracolosa tensione e, sotto tale aspetto, il romanzo si rivelava inesauribile.[5] Mio padre era perfettamente d’accordo con Fruttero: la scena tra Pip e il forzato era tra le più potenti, per situazione, atmosfera, battute, in cui un lettore potesse mai sperare di imbattersi. Citati l’ha definita l’inizio meraviglioso di un libro perfetto.[6] Calvino, benché a suo giudizio nessun incipit superasse quello dell’ultimo romanzo che Dickens era riuscito a terminare, il Nostro comune amico (il Tamigi livido e fangoso all’imbrunire, sulle cui acque si aggira un pescatore di cadaveri),[7] nondimeno, reputava Grandi speranze uno dei massimi capolavori della letteratura.[8]   

In definitiva, i componenti del quartetto erano accomunati dalla convinzione che il mondo si dividesse in chi ha letto Dickens e in chi non l’ha letto. “Non amare Dickens è un peccato mortale: chi non lo ama, non ama nemmeno il romanzo; e non capisce che l’arte dell'Ottocento ha forse raggiunto il suo culmine quando ha mescolato il folle riso con la più imperterrita discesa nelle tenebre”. Così Pietro Citati, il quale ha precisato che Dostoevskij, Tolstoj, Conrad, Joyce, Kafka, lessero Dickens proprio “con la passione, l’entusiasmo e ‘l’incoerente gratitudine’ che egli chiede a ciascuno di noi”. Quegli autori e numerosi altri “appresero da quel ‘rozzo romanziere popolare’ i più sottili artifici letterari. Chi imparò da lui la tecnica del romanzo criminale, chi la presentazione dei personaggi, chi il gioco delle voci narrative, chi il dialogo fluviale; chi amò i ‘divini idioti’ o i simboli o il calore analogico delle immagini.”[9] Secondo Citati, Dickens è dunque ancor oggi attuale perché “i suoi libri possono insegnare le astuzie più truculente ai romanzieri popolari”, e “le più rare astuzie letterarie agli scrittori sperimentali”.[10] Per Furio Scarpelli Dickens aveva significato imparare a guardare le persone come personaggi di romanzo, da poter riraccontare con ironia e partecipazione umana.

 In effetti, da maestro della narrazione, Dickens era anche precorritore del cinema. Mio padre scherzosamente affermava che in Grandi speranze si poteva individuare persino la prima “carrellata in avanti”, quando l’intimidito Pip bambino, introdotto nella villa diroccata cui è stato invitato, si trova al cospetto di Miss Havisham; la quale a distanza appare come una giovane sposa, ma man mano che il protagonista s’avvicina si rivela invece una vecchia avvizzita e funerea, e quel che era stato un abito nuziale ora è un pugno di stracci laceri. Del resto, il pioniere della regia Sergej Ejzenštejn dedicò a Dickens uno dei suoi testi teorici, celebrandolo per la sua dote di raccontare per immagini scandite secondo una sorta di progressione di montaggio cinematografico ante litteram.[11]

Ogni libro uscito dalla penna di Dickens avrebbe potuto chiamarsi Grandi speranze, ha sostenuto ancora Chesterton, ma l’unico cui l’autore ha dato questo titolo è anche l’unico in cui la speranza non trova vera realizzazione.[12] Tutte queste considerazioni e questi ragguagli li abbiamo riferiti per dar ragione di come nel nostro progetto del 2007 – di cui si diceva all’inizio – lo schema narrativo della grande narrazione dickensiana rinacque sul suolo caro a Carducci e a Cassola o, come scrisse mio padre, “nella terra lambita dal mare lagunare e paludoso, ricca di pianure da pascolo con mucche immobili e liberi cavalli in corsa, il tutto racchiuso in boschi il cui silenzio era penetrato dal grugnire del cinghiale”. Se l’aria e lo schema narrativo erano simili, il sapore però sarebbe stato differente, non quello del roastbeef e della birra, ma quello della castagna, del rosmarino e della panzanella. Senza ironia non si mette in piedi il dramma.

Nelle prossime pagine il lettore troverà la linea della vicenda, proposta per sommi capi, collocata negli stessi anni Trenta di Tempi memorabili e anche di Ferrovia locale[13] di Cassola. Quanto di romantico Bolgheri possedeva era divenuto tutt’uno con la genesi di grandi famose storie di un’epoca in cui “l’artista e il pubblico parlavano la stessa lingua”.[14]

 

2. La linea di una vicenda

Marina di Cecina, inverno del 1934. Desolazione, miseria, freddo. Filippo, detto Pippo, ha dodici anni e vive con la zia paterna e lo zio acquisito, di professione fabbro ferraio. Piace studiare, a Pippo, e soprattutto leggere romanzi, ma presto dovrà lavorare sotto lo zio Armando.

Un giorno, al crepuscolo, Pippo è presso le tombe dei genitori, nel cimitero, dove l’area cittadina finisce e iniziano gli acquitrini malarici. Improvvisamente dalle brume si fa avanti una figura affannata e lacera. Pippo è atterrito.

L’uomo tuttavia non ha intenzioni aggressive. È un antifascista, fuggito dal penitenziario di Pianosa, via mare e poi attraverso la palude, la polizia alle calcagna.

Rischiando di essere scoperto dagli zii, Pippo rimedia all’evaso un pasto frugale e qualche moneta sottratta al proprio salvadanaio.

L’uomo lo ringrazia, gli chiede il nome e fugge. Cercherà riparo in Francia…

Passa del tempo, Pippo, non ha rivelato a nessuno il suo segreto, tranne che all’amica d’infanzia Betta, ragazzina umile e discreta.

Arriva l’estate. Pippo, che contava di trascorrerla nella colonia estiva dell’O.N.D.,[15] con i compagni di scuola, viene invece spedito a fare da compagno di giochi alla nipote di una dama dell’entroterra, della famiglia Incima della Torre – grandi allevatori di cavalli da lavoro e da corsa. 

Un tratto di ferrovia locale. Poi il polverone della strada bianca, e lo stagliarsi nell’aria rovente del duplice filare di cipressi che conduce a… Bolgheri.

Pippo viene condotto al cospetto della gentildama eccentrica, che vive in una villa un tempo sfarzosa ed ora semifatiscente, rinchiusa in un astioso dolore nei confronti dell’uomo che l’abbandonò dopo averla sedotta e, per estensione, nei confronti di tutto il genere maschile. La nipotina si chiama Stella. Si mostra altezzosa e scostante con Pippo nuovo venuto, che ha per l’appunto l’incarico di farla svagare. Per fortuna che c’è il garzone di stalla, bonario e amichevole come il suo nome, Placido.

La vita di Bolgheri Pippo la scopre pian pianino e ne è preso. È un borgo rurale in cui la vita si direbbe immutata da decenni. Un’esistenza severa e serena, scandita da ritmi sempre tradizionali, che proprio per questo non ha subìto più di tanto le imposizioni del regime. 

Le mandrie dei cavalli, la fuga del cinghiale nella selva, il fumo del castagnaccio e della pattona.

Stella, al di là delle ritrosie e dei capricci, ha stregato il cuore di Pippo. La balzana vecchia aristocratica Incima la Torre sembra adesso guardare con occhio benevolo quel ragazzetto pieno di buoni propositi.

L’estate è finita e Pippo torna a Cecina per l’ultimo anno di scuola, prima di esser messo al lavoro. Sospira per il proprio incerto futuro e ripensa a Stella. Nel suo cuore sembra non ci sia più posto per la devota e gentile Betta.

Un giorno si presenta in casa degli zii un avvocato austero. Dichiara che un benefattore, il quale desidera restare anonimo, ha stanziato una retta mensile perché il giovane Pippo possa studiare in un prestigioso ginnasio di Livorno. I parenti restano a bocca aperta.

Al settimo cielo, Pippo pensa che vi sia la mano benigna di madama Incima la Torre, e parte per la città pieno di belle speranze.

Di qui la vicenda prende una svolta decisiva contrassegnata da eventi cui, per necessità di sintesi, si accenna brevemente.

Livorno Livorno Livorno. La città dei grandi commerci e dei grandi traffici, nazionali e soprattutto internazionali. Per Pippo è come la scoperta di Londra e poi di Parigi (e a questo riguardo la sua mente va, per un attimo soltanto, all’antifascista in fuga: che ne sarà stato di lui, avrà raggiunto la libera Francia?).

Vita in una rispettabile pensione. La scuola, il latino, il greco. Le nuove amicizie.

E l’incontro con Stella, anche lei venuta a studiare in città. Pippo spera, anzi è convinto, che la dama di Bolgheri abbia destinato la ragazza a lui. Ma, per la verità, Stella torna a farlo soffrire, ingelosendolo e lasciandosi corteggiare dagli ammiratori che non mancano.

Stella parte, va all’estero a studiare.

Deluso e parzialmente succube di amici non proprio animati da elevati principi etici, Pippo trascura gli studi cui pure tanto teneva, si lascia infervorare dalla propaganda (la Guerra d’Etiopia è prossima).

Quando, una notte, fa la sua comparsa un misterioso signore con l’impermeabile, il cappello e una piccola valigia. È l’antifascista che Pippo aiutò due anni fa.

Sbarcato sul suolo italiano per riallacciare contatti politici clandestini, si rivela essere lui, e non madama Incima la Torre, l’anonimo benefattore del nostro protagonista.

L’uomo però deve dileguarsi un’altra volta.

Crisi di Pippo.  Si rimette a studiare, rompe qualche amicizia, ne fa qualche altra che lo rende consapevole della necessità di impegnarsi politicamente. Anche dando una mano all’antifascista riconoscente, che adesso sul suolo italiano sta di nuovo rischiando di essere acciuffato...

Circa lo scioglimento della vicenda, si dirà solamente che Pippo torna a Cecina, deciso a riconquistare l’affetto di Betta. Ma scopre che è ormai fidanzata con un giovane ferroviere. E però c’è ancora e sempre  Bolgheri, con la sua vita fuori da quei tempi calamitosi. E c’è l’immensa villa  cadente con la sua  stravagante marchesa. E Stella, che fine ha fatto Stella? È forse a Bolgheri che lo aspetta?

Pippo si incammina lungo il duplice filare di cipressi, che lo conduce a epoche diverse, forse migliori…

 

3. Un epilogo che divenne prologo

Ambientata negli anni Trenta, questa storia avrebbe però anche potuto essere ricondotta all’oggi, come riportato in un altro appunto paterno: “Attenzione. La vicenda può svolgersi ai giorni nostri. In questo caso  l’evaso è reo di delitti (o peccati) gravi. Passionali o finanziari,  provocarti da egoismo sociale. Per cui l’itinerario narrativo assumerà parzialmente la coloritura della cronaca criminale. Alla quale tuttavia si contrapporrà fortemente e vittoriosamente la quiete, il ristoro e la trasparenza della vita naturale che ha in Bolgheri il suo Olimpo. Dice il poeta che nel percorrere la strada che lo porterà alla definitiva pace di Bolgheri ha consumato sette paia di scarpe, nello stupido e gretto inseguimento del successo. Questo sembra essere tutt’ora il potente e irremovibile significato (di pietra) della parola Bolgheri.”

Il progetto non ebbe seguito in nessuna delle due versioni, rimase una delle tante storie concepite con caparbia passione che un autore cinematografico butta giù su richiesta o piuttosto per diletto, e che rimangono a livello di abbozzo. Tuttavia, va detto che vi era  stato un precedente, il quale aveva trovato piena realizzazione. Attorno al 1995, Paolo Virzì aveva proposto a mio padre, che era stato il suo maestro e docente al Centro Sperimentale di Cinematografia, di lavorare alla sceneggiatura di Ovosodo. Mio padre volentieri accettò di dare una mano e    di conferire alla vicenda – da romanzo di formazione – un empito dickensiano. Empito che per Paolo stesso era il benvenuto e che sapientemente assorbì nel film, così denso e sincero, in cui dramma, commedia e realismo reinventato si amalgamano.[16]

Nel giovane Piero di Ovosodo c’è un po’ del protagonista di David Copperfield, così come nell’amico Tommaso, scriteriato e seducente, c’è un po’ di James Steerforth, personaggio negativo dello stesso romanzo (oltre a un po’ di Lucignolo, naturalmente). D’altra parte, quanto deve a Dickens, anche Dostoevskij? Stavrogin il capo dei cospiratori nei Demòni, eroe riprovevole, è costruito precisamente sulla figura di Steerforth e conserva il “fascino dell’angelo colpevole, dalle grandi ali nere ancora bagnate di luce”.[17] E Grandi speranze? Risorge nel finale di Ovosodo, laddove il protagonista Piero narra le disavventure di Pip ai più anziani colleghi di fabbrica, contagiandoli e appassionandoli. Quell’impulso dickensiano che anima il film diretto da Virzì fu riconosciuto e apprezzato dalla regista Jane Campion, presidente della giuria al Festival di Venezia del 1997, la quale gli fece assegnare il Premio Speciale. Ma questa è una storia che ho raccontato altrove.[18]

  “Si chiacchiera, si ride e ci si dà il cambio alla guida”: era un modo di dire buffonesco con cui mio padre, Paolo Virzì e io ci  incitavamo quando si partiva per una nuova impresa di sceneggiatura.[19] Ancora oggi, di tanto in tanto, Paolo e io ci si ritrova a chiacchierare e almeno a sorridere proprio parlando di Dickens e di Cassola e a scambiarci aggiornamenti sulle nuove edizioni apparse. Papà considerava il Silvio Spaventa Filippi degli anni Venti il miglior traduttore di Dickens, il più aderente al suo spirito originario, e ciò a dispetto dell’abitudine (o dell’imposizione di regime) di italianizzare i nomi dei personaggi. Per buona sorte le versioni spaventa-filippiane vengono oggi variamente riproposte.[20] Borges, in una sua discusión sul Don Chisciotte e sull’Odissea, ha affermato che chi è nato in un paese della stessa lingua di un autore sommo è costretto a leggerlo sempre identico in originale, e che per certi versi può considerarsi fortunato lo straniero, il quale può  rileggerlo ogni volta leggermente diverso in qualche nuova traduzione.[21] Rileggiamo allora i capolavori di Cervantes e di Omero in una nuova versione, e rileggiamo i romanzi di Dickens, nelle versioni recenti e anche nelle vecchie. Ne verrà, come diceva Chesterton, una gioia nuova e antica.

 

Note:

[1] Il romanzo di Cassola apparve nel 1966 (Torino, Einaudi).

[2] Idillio maremmano (1873) di Giosuè Carducci, è incluso nella raccolta Rime nuove (Bologna, Zanichelli, 1887). 

[3] Gilbert Keith Chesterton, Appreciations and Criticism of the Works of Charles Dickens, London, Dent 1911; trad. it. di Sofia Novello ed Edoardo Rialti, Una gioia antica e nuova. Scritti su Charles Dickens e la letteratura, Genova-Milano, Marietti 2011, p. 182.

[4] Great Expectations di Charles Dickens apparve dapprima a puntate sulla rivista “All the Year Round” (1860-1861), quindi in tre volumi, presso la londinese Chapman & Hall (1861); trad. it. di Maria Luisa Giartosio De Courten, Grandi speranze, prefazione di Carlo Fruttero, Torino, Einaudi, 1959.

[5] La prefazione di Fruttero alla traduzione italiana di Grandi speranze è stata ristampata dallo stesso editore nel 2014. Vedi in particolare le pp. VI-VII. Fruttero e Lucentini realizzeranno in seguito un’estrosa  rivisitazione del romanzo incompiuto di Dickens, The Mistery od Edwin Drood (1870):  La verità sul caso D. (Torino, Einaudi 1989).

[6] Circa il giudizio di Citati su Grandi speranze vedi Dickens, i sogni impossibili non muoiono all’alba, nel “Corriere della Sera” del 25 marzo 2014, e Il migliore dei mondi impossibili, Milano, Rizzoli 1982,  p. 107. 

[7] Cfr. Italo Calvino, Perché leggere i classici, Milano, Mondadori 1995, p. 164-165.

[8] Alcuni riferimenti si trovano in Giacomo Scarpelli, Calvino tra letteratura e scienza, in “Tempo presente”, n°132, 1991, pp. 63-68.

[9] Pietro Citati, Il migliore dei mondi impossibili, cit., p. 86.

[10] Idem, p. 87.

[11] Di Sergej Ejzenštejn vedi l’ultimo saggio (“Dickens, Griffith e noi”, risalente al 1944) di La forma cinematografica, a cura di Paolo Gobetti, Torino, Einaudi, 2003.

[12] Gilbert Keith Chesterton, Appreciations and Criticism of the Works of Charles Dickens cit., trad. it., p. 184.

[13] Torino, Einaudi 1968.

[14] Carlo Fruttero, prefazione a Grandi speranze cit., ediz. 2014, p. X.

[15] L’Opera Nazionale Dopolavoro, istituita dal regime nel 1925.

[16] La sceneggiatura di Ovosodo di Virzì, Bruni e Scarpelli, è stata pubblicata a cura di Massimo Ghirlanda e Federico Govoni, edizioni Erasmo, Livorno 2017. La prima versione del testo per il film, scritta da Paolo Virzì e Francesco Bruni, si intitolava Nato da un cane (pubblicata a cura di Ottavia Madeddu, Pisa, ETS 2016).

[17] Pietro Citati, Il Migliore dei mondi impossibili cit., p. 89.

[18] Giacomo Scarpelli, Una nota per chiudere, in Ovosodo di Virzì, Bruni e Scarpelli cit., pp. 387-388.

[19] Era questa una battuta che avevamo messo in bocca al personaggio di un autiere militare nella sceneggiatura di Tempo di uccidere (dal romanzo di Ennio Flaiano, regia di Giuliano Montaldo, 1989).

[20] Presso Einaudi, Newton Compton e altre case editrici, anche in e-book.

[21] Jorge Luis Borges, Discusión, Buenos Aires, Gleizer 1932; trad. it. di Livio Bacchi Wilcock, in Tutte le opere, “I Meridiani”, Milano, Mondadori 1984, p. 373.