Andrea G. Pinketts - Un diamante non è per sempre

Intervista di Irene Palladini

"Now there’s a look in your eyes, like black holes in the sky” (Shine on you crazy diamond, Pink Floyd)     

 

Corpi miniaturizzati o dilatati ipertroficamente, grotteschi e fuggevoli costellano la tua produzione letteraria. Ne Il dente del pregiudizio scrivi: “E’ solo il corpo, la carne, che testimonia che siamo sempre noi, la stessa persona che cambia tutte queste anime, tutti questi atteggiamenti, come un vestito”. Il governo del corpo nella tua narrativa.

Ho sempre ammirato il grande imprenditore circense Barnum che ha dato ascolto alla struggente voce poetica dei suoi freaks, e ha creato The greatest show on earth. Senza nulla concedere alle facili seduzioni di un pietismo dolente e manierato, lui ha saputo cogliere le potenzialità di integrazione, esibendo, con rinnovato stupore e intatta verità, le anomalie dei corpi. Anche i personaggi della mia narrativa presentano una fisionomia eccessiva, smisurata, grottesca. Nel mio ultimo romanzo, Depilando Pilar, mi pare che il corpo assuma un’ inusuale e dirompente terribilità angosciosa, riconducibile alla costellazione fiabesca che, come è noto, evoca orrori profondamente radicati nell’immaginario.

Dai pesci cannibali in Sangue di Yogurt alla elegante levità del riccio in Un saluto ai ricci, al volto di Nicky, simile a quello di un rapace, alla forza bestiale dell’uomo dei boschi, sino all’ibrido grottesco, degno di un manuale di fantazoologia, del Nuye ne Il senso della frase. Immenso, sterminato è il tuo bestiario fantastico, che ricorda il talento ipnotico e visionario di Bosch e le sulfuree creazioni di Borges e Cortazar. L’uomo e il suo rovescio bestiale.

Nel 1989 un mio racconto, all’epoca inedito, Il punto di vista del Licantropo, ha vinto il premio al Mystfest di Cattolica. Non potevo che assumere il punto di vista del licantropo, necessaria mimesi di questa epoca di “vampirizzazione” diffusa …

Nel racconto si narra di un artista irrisolto, capitato un poco per caso, un poco per destino, in una comunità di provincia, infestata da una catena di atroci delitti. I sospetti si appuntano subito sulle creature difformi, quelle segnate da una vistosa anomalia che sovverte l’equilibrio anatomico, rivelando una bellezza sconcia e guasta. Con la loro facies dissestata, nani e gigantesse paiono incarnare ogni male immaginato e compiuto: monstrum in fronte, monstrum in animo. Ma le anomalie più mostruose allignano nei volti apparentemente luminosi dell’uomo comune, lucente di nero orrore: nihil obscurius luce… E pensa che sono anche stato rimandato in latino!

Progressivamente il protagonista sente crescere attorno a sé il sospetto, in una spirale di odio tanto radicato da rivelarsi ancestrale. Ma l’orrore più estremo si rivela nella dimensione umana: l’innocenza ancora arride alla bestia nelle chiare notti di luna piena.

Il licantropo è coniugato, anche se infedele, alla propria natura e sa guardare con profondo orrore alla sua parte umana, senza cedere alle convenzioni e ai luoghi comuni. Il suo punto di vista è il solo possibile.

Ne Il dente del pregiudizio mi ha colpito questa riflessione: “Ora sono un gatto. Un bel gattone con qualche ricordo della mia vita da cane e la sicurezza di essere stato un uomo due o tre vite fa”. Le metamorfosi dell’io e del linguaggio.

La metamorfosi è il principio costitutivo della mia creazione letteraria. Il titolo, con le sue corrispondenze e rifrazioni, suscita in me una potente fascinazione. Senza che io ne sia consapevole, contiene già, in nuce, tutta la storia … Poi scrivo una ballata che sviluppa l’idea, ancora allo stato embrionale, evocata dal titolo. Attraverso echi inusuali tra le parole, la ballata prefigura la vicenda, mentre io ancora ignoro quale storia andrò a raccontare. Questa modalità di scrittura è riconducibile al principio di chi guida nella nebbia e per chi, come me, vive a Milano, guidare nella nebbia assomiglia, e non poco, a una modalità dell’esistere (e non solo dello scrivere). Si conosce con una certa precisione il luogo di partenza e magari si sa, con una buona dose di esattezza, la destinazione … Ma il viaggio, con tutto lo stupore di soste e incontri imprevisti, accelerazioni improvvise e fatali smarrimenti … Beh, quello resta assolutamente imprevedibile, è un procedere spaesati, sospesi in uno stupore continuo. E il paesaggio, tutt’attorno, avvolto in una nebbia di latte, si sgrana, si confonde, in un processo di inesauribile metamorfosi, tra pallide forme mai cristallizzate in una Forma che tutto raggela. Dunque, quando scrivo, la trasformazione è vitale e necessaria: le digressioni aprono vie ancora inesplorate, irradiano metamorfosi continue nel tessuto della trama e le convenzioni del genere vengono dissolte in questo vagolare che è il senso profondo della frase (della vita …).

In Nonostante Clizia scrivi: “Gli adulti sono adulteri, tradiscono la causa della giovinezza che avevano sposato. Noi bambini anche in senilità saremo dei vecchi rimbambini”. Forse la giovinezza, anche quella eterna, è “un morire all’indietro” (Il senso della frase). Della sconfinata giovinezza, anche della scrittura …

La giovinezza non è quella che riecheggia nella canzone fascista, né quella notomizzata dalla sociologia di bassa lega che qualifica i giovani marchiandoli. Detesto la retorica del giovanilismo edulcorato e le semplificazioni che ritrovo anche nel titolo del pur grandissimo Guareschi: Don Camillo e i giovani d’oggi. L’espressione “i giovani d’oggi” suona un poco stonata, assimilabile a certo formulario stereotipato. In realtà credo che essere giovani sia un piacevole, talvolta spiacevole, incidente temporale. I giovani non possono in alcun modo essere ricondotti a una categoria, come i fumatori di pipa o i giocatori di scacchi, perché l’appartenenza a una determinata casta antropologica implica una precisa volontà di aggregazione. Dunque ogni giovane lo è a modo suo, come crede, come riesce. Essere giovani, anche a ritroso, pare una malattia... Insomma, il giovane Werther non ha le medesime attitudini di Billy The Kid o del giovane Holden… Quanto a me io sono stato un enfant prodige. L’enfant si è eclissato, ma intatto, ad onta degli anni, permane il prodige!

Nella Nota a Lazzaro, vieni fuori, che suona come una personalissima avvertenza sugli scrupoli della fantasia, scrivi: “I fatti, i luoghi e i personaggi di questo romanzo sono puramente immaginari. Mi si potrebbe obiettare che esiste una regione chiamata Trentino Alto Adige e un paesino chiamato Bellamonte. Mi sento obbligato a specificare che sia il Trentino che Bellamonte, come è noto, li ho inventati io”. La creazione letteraria, sospesa nella shadow line di verità e immaginazione.

Avendo un alter ego (altro da me, non un altro me) come Lazzaro Sant’ Andrea, devo rendere credibili i miei romanzi. Ma la realtà della mia vita è di gran lunga più paradossale di quella che racconto nelle mie opere: se scrivessi un romanzo autobiografico sarebbe probabilmente annoverato tra le opere di fantascienza! Per quanto ogni vita abbia un capo e una coda, si snoda lungo una spirale di eventi assurdi, paradossali, talora inspiegabili … I personaggi della chanson de geste di Lazzaro hanno una peculiarità: sono reali, talvolta si tratta di amici. Altri, invece, si configurano come una sorta di ibrido, sospesi nella shadow line di realtà e immaginazione. Nascono da un’impressione intensa, da una visione fugace, o da una conoscenza fuggevole, ma poi ho agitato le loro storie e i loro volti. Ho mixato realtà e immaginazione, non shakerandola come i martini di James Bond!

Ne Il senso della frase Nicky, un’amica di Lazzaro, bugiarda patologica, ad un tratto scompare. Poco tempo dopo, Lazzaro incontra una ragazza che racconta le stesse inverosimili bugie di Nicky, spacciandole per proprie. Il furto di bugie altrui è il reato peggiore che si possa commettere perché la bugia, frutto autentico dell’immaginazione, pertiene alla parte più profonda e vera dell’uomo: ne rivela i sogni, i bisogni, i fallimenti anche. Per ristabilire la verità, questa dea sbendata e impudica, è necessario smascherare i ladri di bugie.

Nei tuoi romanzi i luoghi si caricano di echi e risonanze spettrali, infernali direi quasi. Se ne Il senso della frase è Milano a configurarsi come “città dolente”, in Fuggevole Turchese è il paradiso artificioso del Morisco a rivelare il vero volto l’inferno. Ma si ha l’impressione, in ultimo, che sia la “sterminata distesa di nulla del neutro” (Nonostante Clizia) il peggiore inferno nella tua cartografia surreale. Per una mappatura degli inferni possibili, e del loro varco …

Credo che l’indifferenza sia l’inferno peggiore: è la morte, prima di quella biologica. L’indifferenza è l’inferno dei viventi, è una quotidianità esasperata, è una regola di condotta imposta da una coazione a ripetere. Nel momento in cui cessi di indignarti sei già all’inferno, magari senza esserne consapevole. Il solo varco possibile è mandare al diavolo qualcun altro: i meritevoli di questo inferno.

Ne L’ultimo dei neuroni scrivi: “E non ho paura di me stesso, ma di me l’altro”. L’io è un altro, fuggevole nonostante tutto. L’identità e l’altro, tra attesa e riconoscimento.

Il titolo stravagante e bizzarro del mio romanzo Io, non io, neanche lui allude all’attesa e al riconoscimento, spesso eluso o negato, dell’altro. L’espressione “io, non io” è riconducibile al pensiero di Fichte, il quale postulava l’io non come ente, ma come attività creatrice. La formula “neanche lui”, che ho deciso di aggiungere nella chiusa, contiene tutta l’intensità della provocazione, ed evoca il senso oscuro della minaccia che si annida in ogni cosa. L’incontro con l’altro è incontro con l’inconoscibile e per questo è fonte di inquietudine.

Ne Il senso della frase redigi un elenco divertente e stralunato degli oggetti conservati (o dispersi?) da Lazzaro Sant’Andrea: “cartine di spinelli non consumati, cartacce di dimenticata provenienza, carte da gioco di mazzi ormai consunti o dalla irrecuperabile integrità, e soprattutto foglietti vergati da scritture femminili”. Eppure, in questo mare dell’oggettualità, spaventosa res amissa, colpisce che anche i ricordi assumano la fisionomia incerta e periclitante dello scarto: i ricordi sono anche il cimitero delle emozioni. Lo sguardo, posato intensamente o distrattamente, pietrifica l’oggetto e il ricordo svapora … Ricordi come scarti, residui, detriti del tempo (e dello sguardo).

Sono ossessionato dall’ impotenza dell’uomo di fronte al tempo. Penso alla vana fretta, al dispendio di sé dell’uomo inconsapevole e al necessario precipitare di cose ed eventi. E la vita programmata appare come un vasto deserto, con il suo avvicendarsi di lavoro e vacanze, che, nell’illusione di dilazionare il tempo, rivelano lo spaesamento come sola cifra dell’uomo.

I ricordi hanno la solidità e la durezza dei detriti, sono come bidoni per l’immondizia. Possono contenere gioielli apparentemente di valore, ma che in realtà sono pezzi opachi di bigiotteria, incapaci di vincere l’usura del tempo. Poi, chissà, magari al fondo, tra i detriti più logori e consunti, tra tutte queste macerie di ricordi, brilla di luce propria una pietruzza che non credevi valesse alcunché.. Un tesoro di cocci che permane, ad onta del tempo, e che irradia luce e calore.

Sono profondamente legato a tutto quello che ho vissuto, ma non c’è ombra di nostalgia, non c’è compiacimento ad annebbiare lo sguardo… Penso piuttosto a qualcosa di analogo a quello che direbbe Neruda: “Confesso che ho vissuto”. Confesso che ho vissuto. !

In Fuggevole Turchese una pagina è dedicata al Frankenstein diretto da James Whale, con un indimenticabile Boris Karloff. I freaks, figli di un dio minore e ipotiposi del brutto e dell’anomalia hanno una verità umana spesso ignota all’uomo. Nella tua narrativa il mostro assume, semmai, il fascino discreto ( e inquieto) della borghesia. La vera facies del nemico….

Il volto del nemico è il volto del traditore e non penso tanto a quello di Giuda perché, nella sua denuncia, alligna il dolore violento di un amore tradito. Il volto del nemico è, al contrario, quello sorridente del finto amico che ti rinnega tre volte. A me è capitato, purtroppo, con Moni Ovadia, insieme al quale avevo lavorato, a Milano, in occasione del simposio di performances multiformi Lezioni di indisciplina. Moni Ovadia ha in seguito pubblicato per Einaudi un libro intitolato Il conto dell’ultima cena (2010), che è anche il titolo di un mio romanzo del 1998, citato da Claude Chabrol nel film L’innocenza del peccato (Francia, 2007)…

Poi, certo, ci sono i nemici di Lazzaro Sant’ Andrea … E sono le famiglie apparentemente perfette, cariche invece di frustrazioni e angosce, le religioni e i loro spenti rituali manierati e le pasticcerie, la domenica pomeriggio, di una tranquilla cittadina di provincia come Modena, “Piccola città bastardo posto”. Ma forse il nemico si annida anche nelle domeniche gonfie di pioggia e solitudine di una grande città come Milano. Forse è la domenica il vero nemico, immensa distesa di niente e vuoto da riempire, tra gente che non sai, e che vorresti già dimenticare.