Andrea Menetti - Salivo in montagna ogni estate ogni inverno

Attilio Bertolucci e il mio Appennino

Ci sono momenti, nella vita, che giungono senza essere attesi. Tante volte – i più accorti e inclini alla riflessione lo sanno – è il pensiero, più che la realtà delle cose, a darci la forza di proseguire, a fare da guida e suggerire se dobbiamo realmente preoccuparci per quello che è accaduto, oppure abbiamo ottenuto un altro lasciapassare, dolce come il precedente, e si può dunque andare di nuovo incontro alla felicità riconquistata.
Ognuno pesca dalla memoria quelle che sembrano le frasi di un destino, il destino di quel preciso momento, per una volta piacevolmente liberi di non osservare alcuna regola se non quella di dire quello che sentiamo.
Per rimanere nelle lettere più vicine a noi, la memoria è andata a cercare – quasi con un senso di dovere – poche righe di Vincenzo Cardarelli studiate in pomeriggi durante i quali il sole, il pallone, le grida degli amici o anche la pioggia erano un valido elemento di distrazione: «Morire persuasi / che un siffatto viaggio sia il migliore. / E in quell'ultimo istante essere allegri / come quando si contano i minuti / dell'orologio della stazione / e ognuno vale un secolo».
Tutto sommato, qualche pomeriggio non è andato disperso, né Cardarelli ha scritto invano, ma capita, fuor di ogni regola accademica, che una poesia piacevolmente ne richiami un'altra, con la quale ha pochi punti di vicinanza se non quelli che si trovano nel lettore, nei suoi ricordi, nelle speranze, nelle effimere conquiste della vita.
Dopo qualche tempo – ne ricordo una lettura fatta direttamente dal poeta, disteso su di una sedia a sdraio nell'erba alta dove la collina diventa montagna – alcune esigenze personali, non dissimili da quelle provate forse da Cardarelli al momento della stesura di quei versi, mi hanno portato a leggere La camera da letto di Attilio Bertolucci.
Questo, in un giorno dove nulla sembrava potesse soddisfarmi.
Avevo l'esigenza di ripercorrere alcune tappe della vita, ritrovare qualche volto rimasto disperso nella memoria – a volte neppure della mia ma di qualche familiare –, sentire ancora il gusto di quei secondi che valgono un secolo.
Sentivo ancora la voce di Bertolucci, rassicurante e piana, con una cadenza che a me, bolognese di sorte ma modenese d'Appennino, non era del tutto estranea, così come la casa tra i monti, quella dove intere famiglie si sono succedute, ora lietamente ora soffrendo per i lutti e le normali difficoltà della vita. La lettura del poema diventava così occasione di ripensare alla mia storia.
Sin dall'inizio ho avvertito una vicinanza, quella che legava Bertolucci, allora quasi ottantenne, a me, oggi, quarantenne: può essere un senso della vita o delle cose, o l'esigenza intima, interiore, di non perdere la voce dei genitori, i loro volti, la casa accogliente, i sorrisi e gli incoraggiamenti che, ora adulto, hanno lo stesso valore di quando avevo otto anni, e salivo in montagna ogni estate e ogni inverno, lasciando cose che avrei ritrovato, negli stessi luoghi, con gli stessi odori e colori.
Crescendo, senza che alcuno mi avesse fatto, un giorno, deliberato cenno di quello che era successo in passato, del perché eravamo a Sestola e Fanano e non altrove, in uno tra le decine di paesi e frazioni che tagliano la collina sino a quando diventa montagna, avevo cominciato a essere curioso. Passeggiavo con mio padre, soprattutto durante l'estate, salendo e risalendo borghi e pineta in tutto simili a quelli di ogni altro paese dell'Appennino, e allora cercavo di trattenere quelle informazioni che giungevano in ordine casuale: «là abitava lo zio; lì è nata la nonna; là tenevamo i muli; qui caddi, a due anni, con la bottiglia del latte».
Era un mescolarsi, senza alcuna gerarchia, dei ricordi di due famiglie. E allora tragitti, fatiche, difficoltà, successi, case, andavano a intrecciarsi, sovrapporsi, a farmi comprendere davvero io chi fossi.
La camera da letto, scritta da Attilio Bertolucci tra i miei sedici e i miei vent'anni, in uno dei momenti forse più lieti che ho trascorso sui monti, ha fatto il resto, così come le condizioni di lettura, nel prezioso silenzio di un balcone bolognese, su di una sedia a sdraio a strisce bianche e azzurre – tipicamente balneare, però – fiori un po' ovunque e le mie amate rose rampicanti, una delle quali – la più robusta – è nata dal taglio di una rosa piantata in montagna da uno zio paterno, poco prima che morisse, negli anni Trenta, e che oggi vive nel mio ricordo – sostenuto da una sbiaditissima fotografia di troppo tempo fa – proprio grazie a quella rosa.
All'inizio del poema Bertolucci immagina la migrazione dei «progenitori lontani» dalla «paludosa Maremma», fermati dai ricordi dei miei progenitori lucchesi in un paio di versi che sarebbe delittuoso proporre isolati con altro scopo che non quello familiare: «partirono lasciandosi / dietro una pianura / e dietro la pianura il mare e l'orizzonte / in un fermo pallore d'alba estiva». Rivedo le difficoltà di chi è partito, il camminare ancora con ricordo di quello che si è lasciato «dietro la pianura», ma anche quando si esce la mattina di un giorno qualsiasi, un'occhiata veloce alla scrivania, ai libri e ai monconi di scritti che attenderanno fino a sera per essere rivisti o completati, e magari nella cartella di cuoio un quadernetto per gli appunti, venisse mai la possibilità di fermarsi un attimo e stendere qualche pensiero.
In quei versi incontro anche il ricordo della strada percorsa a ritroso da me, ignoto discendente di ignoti uomini d'armi, o pastori, o tagliatori di legna, sicuramente mulattieri e cercatori di castagne, quando ritorno a casa con gli abiti né logori né sporchi, condizione della quale molti hanno sofferto, quando dai cantieri camminavano verso casa per il corso principale, non essendovi altra via, e gli sguardi che arrivavano – convinti di non essere veduti – facevano il resto, in un paese dove l'estate salivano «i signori», e tutti gli altri, di condizione subalterna, si dovevano adeguare alla mentalità improvvisamente mutata.
In una vecchissima fotografia, che non fa parte del disperso patrimonio familiare ma appartiene a un'altra famiglia, in questo più accorta, si vede un gruppo di questi «signori», modenesi o bolognesi, affiliati al CAI, con i pantaloni alla zuava, le lanette e i morbidi tweed, cannocchiali e macchina fotografica e signore o signorine in cappellino e gonna lunga, zainetto sulle spalle, forse tra le prime a mostrare la forza e la parità femminile. In un angolo, ripreso da chi scattò la foto, forse per simpatia o più probabilmente perché non poté farne a meno, si vede, seduto su di una panca, a lato di una tavola imbandita e addossata a una roccia, lo sguardo spaurito di mio nonno paterno, il mio doppio fisico.
In una fotografia che tengo da diversi anni a lato della scrivania, un lato oramai irraggiungibile, ingombro com'è di carte e libri, tengo una foto di mio nonno, il figlio maggiore, e mio padre di due anni in sella ad un mulo, la ricchezza di famiglia. Mio nonno sembro io in un costume d'epoca, come si vede nelle feste di paese quando ripropongono gli antichi mestieri. Non una cosa, a distanza, che appaia diversa, dal viso alle spalle, alla posizione di braccia e gambe. Poi, se si interrogano coloro che hanno conosciuto mio nonno paterno, sanno indicare anche le differenze: taglio d'occhi, naso soprattutto. Io, di tutto questo non mi accorgo.
Ma quello che mi importa è di potermi rivedere – con un po' di approssimazione – in un uomo della mia età, con i sogni, i desideri, le malattie, le gioie e che se oggi sapesse mi verrebbe in aiuto certamente. Magari mi verrebbe vicino, e mi parlerebbe come forse non è riuscito a fare con mio padre – spesso le generazioni si saltano – e sarebbe in grado di dirmi parole che cambierebbero la mia giornata, raccontandomi di quando fu operato in Africa sotto una tenda da campo e pensava a Sestola, a un figlio che stava per nascere, a un altro lasciato piccolo, ai tragitti accanto al mulo – carico di legna o di altro – fino al Cimone, nel fresco della mattina e nel silenzio interrotto dalle foglie calpestate, con la speranza di arrivare in fretta, perché le gambe cominciano a fare male, così come le spalle, perché il mulo non poteva essere caricato di più, e allora mulo e uomo si dividevano il lavoro.
Le paure che proviamo noi, e che molte volte pensiamo di essere i soli a sentire, sono facilmente smentite da questi altri episodi, se solo avessimo la forza di ricordarcene. Invece, sembra non sia possibile.
Ad un certo punto, uscito dal bosco, c'è stato di sicuro un giorno in cui si è voltato pensando che «non poteva/quell'infinito ondulare di valli/celesti nel silenzioso mezzogiorno/deluderli in eterno». E a mezzogiorno ha tirato fuori un fagotto, sistemato chissà dove e preparato da mia nonna – un po' di formaggio, forse, una fetta di pane, una fiaschetta con un po' di vino – e si è messo a mangiare con sguardo insieme lieto e determinato, perché quello che faceva lo stava facendo per la famiglia, e non aveva davanti una macchina fotografica con qualcuno che ti dice di fermarti mentre stai mangiando, e ti ruba quel momento per darlo ad altri, a noi che adesso ti guardiamo.

 

Pubblicato il 11/02/2013