Giorgia Delsoldato - I viaggi, la morte

 

Giorgia Delsoldato

 

I viaggi, la morte

 

 

Il viaggio è un tema classico e in particolare lo è nella formazione del giovane, letteraria e non. Esperienza infinita e finita, esplorazione intima e percorso nel mondo, conquista e perdita, memoria e oblio, il viaggio è necessario, con la sua natura molteplice che scava e apre, incede nell’io.

Si può perdere o non cogliere il senso del viaggio, lo si può consumare. Di certo lo si indaga, lo si interroga, in cammino e dopo, tornando su quei passi, che risuonano, anche tardivamente, nel pensiero.

In Gadda la dimensione del viaggio è una linea tra la vita vissuta e la morte; è uno stare nel tempo storico al quale si appartiene, consci che la verità non si può raggiungere; in Rimbaud, il viaggio è morte che si incontra vivendo, mentre si nega il tempo per raggiungere una visione assoluta, primigenia, rivelata solo in quell’istante, a condizione che il poeta ‘veggente’ ne sappia cogliere l’essenza. Prima di mettersi in cammino, si viaggiano i viaggi memorabili e maledetti, epici, dei padri viaggiatori: si cercano somiglianze, si esorcizzano paure, si bruciano le differenze epocali. Così, Gadda ha sognato di essere Baudelaire e Rimbaud, di partire con loro. Ma quella deriva di perfezione poetica era incompatibile per Gadda, viaggiatore del suo tempo.

Il tema del viaggio, oggi allargato e allungato all’arco della vita intera, è compromesso, sospeso nella pandemia mondiale, stretto tra la libertà delle élites, che supera le barriere del tempo e dello spazio, e il confino del resto del mondo, che sperimenta la rinuncia di massa al viaggio, la traduzione del viaggio di massa in spostamento, soggetto alle categorie politiche della necessità, al vincolo burocratico dell’autocertificazione e a quello fisico della mascherina. Nei mesi del primo “lockdown”, parola ufficialmente entrata nei principali dizionari di lingua italiana nelle edizioni di fine 2020, il viaggio primario, supremo, è stato quello verso la morte, solenne e solitaria di uomini e donne colpiti dal Covid 19, le cui salme trasportate da camion dell’esercito incolonnati ha reso immortali le esequie mai celebrate. 

Con queste morti e con questa immagine, con il silenzio delle città vuote, attraversate da rinvigoriti stormi di uccelli, fauna selvatica e banchi di pesci, è cambiato il respiro, è cambiato il passo e l’orizzonte è una cortina tra presente e presente. Quale futuro, quale viaggio, sono domande latenti e feroci.

In questo presente, il viaggio di formazione subisce un ritardo, un rinvio, una sospensione pubblica oltre che privata. Ma la sua forza letteraria è anche compensatrice: la preparazione al viaggio resta, si allenta, si allunga, delira e si rinnova. Come in ogni esperienza iniziatica e iniziatrice, la preparazione al viaggio implica la previsione delle conseguenze, l’attingere avidamente alle avventure altrui e ai loro resoconti, nati e maturati nel viaggio e infine affidati alla memoria e alla sua fertilità ri-creatrice. Il lettore e viaggiatore in erba si pone così alla ricerca, diventa consapevole dei fatti e dei misfatti, penetra la narrazione del dolore, per poi dimenticarsene.

C’è un saggio di Gadda che si intitola I Viaggi, la Morte, scritto nel ’27 e poi inserito nell’omonima raccolta del 1958 (ma con il titolo privato della virgola: I Viaggi La Morte).[1] Dai carteggi di Gadda con gli editori e i curatori si ricava che il progetto della raccolta, che univa ai testi solariani articoli e recensioni apparsi negli anni ’30 e ’50, era già stato delineato a metà degli anni ’40, ma tribolazioni, ritardi, contratti editoriali da mantenere, nonché il lungo e scrupoloso lavoro di curatela di Pietro Citati e Attilio Bertolucci, fecero sì che il libro apparisse solo, come si è detto, nel ’58. Autore ed editore (Garzanti) per altro vollero aspettare l’uscita del Pasticciaccio, nella speranza che il successo del romanzo facesse da traino alla fortuna commerciale della raccolta.

Al centro del saggio I Viaggi, la Morte, in cui troveremo anche un collegamento privilegiato con La Cognizione del Dolore[2], si trova la distinzione tra sedenti e migranti, una «dialisi» che Baudelaire ha avuto il merito, secondo Gadda, di avere rappresentato con «una vivida drammatizzazione».  Ma occorre prestare attenzione - scrive Gadda in nota - ad intendere per sedenti coloro che non intraprendono il viaggio come fine a se stesso, mentre i migranti sono i viaggiatori assoluti, che viaggiano solo per il viaggio.

La differenza che Gadda stabilisce tra sedenti e migranti si esplica nella differenza da lui subita e al tempo stesso cercata: la differenza umana, teleologica e letteraria; la differenza storica, la differenza, forse, universale: questi, gli spunti di riflessione, di volta in volta profusi dalla rilettura e meditazione su I Viaggi, la Morte.

Leggendo, colpisce come nell’esperienza umana di Gadda questa differenza sia una dolorosa separazione, che nasconde il lento e tenace desiderio di una ricomposizione dentro lo stesso essere, vivente, pensante, sofferente.

Chi nasce e per destino è un essere diviso, per destino diviso rimane, e muore: questo accetta alla fine Gadda e giudica il viaggio (fine a se stesso) una fuga necessaria, tenace, maledetta. Inutile, specie eticamente, e letterariamente, ingannevole.

Alla fine, Gadda giudica i migranti. La sua scelta etica è per i sedenti.

Non si è mai permesso di essere un migrante, o, forse, non ci è mai riuscito.

Ma come sedente, è affetto da un male incurabile.

 

1. Vita e viaggio, viaggio e vita: scrittura

 (Da Le voyage di Baudelaire a Bateau Ivre di Rimbaud)

 

Gadda dialoga con i simbolisti puri, i viaggiatori assoluti, i rinnegatori di realtà. Riassapora i versi magici, calamitanti, mistici, di Baudelaire e la deriva lirica di Rimbaud. Riecheggia in quei versi il sapore agrodolce della giovinezza e l’attrazione potente per la morte eroica poetica che le è sorella. Torna ad ascoltare la musica quasi diabolica dell’istante in cui si cede alla tentazione, in cui si consuma la perdizione umana, senza approdare alla verità.

Ma la sua vocazione profonda lo àncora alla realtà. Crede anzi che proprio questo sia l’unico modo per non farsi sfuggire la vita: l’unico tempo umano è quello storico, che vive nella dimensione della coscienza. Ogni elusione della realtà non può che essere finzione, o puro sogno.

La sua è una vocazione profonda, che trova in Manzoni (Gadda è l’autore dell’Apologia manzoniana) il proprio referente esemplare. La letteratura serve a insegnare, a spiegare la realtà: questo è il credo con cui cresce Carlo Emilio, portatore di una fede borghese spenta forse agli ideali luminosi del progresso positivistico, ma tenace nel rimanere ancorata a una idea antica di dovere e di sacrificio. La sua è una nostalgia operosa dei modelli morali e comportamentali tardo-ottocenteschi, con il loro dolente (e nevrotico) corteggio: il suo peculiare male di vivere.

Carlo Emilio giovane è un positivista, un interventista, un patriota, un uomo che si ciba della tecnica e delle tecniche, un razionalista, un milanese del suo tempo. Le sue scelte di vita sono lineari e necessarie: deve guadagnare il suo mantenimento e mantenere il rispetto borghese della sua persona, deve trovarsi pronto: deve partire.

Da questo imperativo categorico nasce il viaggio più lungo, più lontano, che lo porta in Argentina. La giovinezza gli parla di terre vergini, di opere grandiose da compiere, di energia da liberare, di orizzonti diversi, di esperienza e di conoscenza più vera. Ma l’abbandono degli affetti lascia il segno, l’esperienza – sfrondata di allori e illusioni - appare dura, incide il corpo e la memoria, elude il controllo della volontà, modifica la sostanza, penetra l’immaginario. Allora Gadda annota, fin dalla partenza, ogni parvenza, ogni minuto movimento e dettaglio. Detta a se stesso un alfabeto diverso, che non lo lascerà mai, che ritornerà con lui e fabbricherà nel tempo il ricordo del tempo perduto, della giovinezza, del viaggio. 

Queste sue note di viaggio sono distaccate, tecniche, anch’esse, come il compito che si è dato: aggiustare con il suo sapere positivo quella terra primitiva, ordinare quegli spazi immensi e indefiniti, imporre il pensiero e l’azione. Si impregnerà della lingua spagnola e delle figure che incontra e porterà a casa materiale straripante per bozzetti pungenti, tempestati di ironia e curiosità. Sono vere e proprie tessere di autobiografia, dense e incompiute, da disseminare in tutte le sue opere, che uniranno all’autobiografia la condanna all’incompiutezza.

Argina la solitudine con le lettere a chi è rimasto, l’amico Betti e la sorella Clara. Colma il vuoto con l’immaginazione della vita che avrà, coltivando il sogno di un romanzo.

Si prepara.

Il ritorno è un’allegoria che prenderà vita nella Cognizione. Lì, il passato remoto e il viaggio si confondono, si cercano, si ricostruiscono nella vita spezzata del figlio Carlo/Gonzalo e in quella iniziatica dell’orfano-assassino (dell’immagine) della madre.

Nella Cognizione, il viaggio è già stato compiuto. Quel che è stato, è stato. Ci corre sopra il pensiero, ma soprattutto la scrittura letteraria, che per definizione sublima l’esperienza, nel momento stesso in cui ne fa narrazione.  

In I Viaggi, la Morte, Gadda torna a visitare Baudelaire e sale di nuovo con lui sul Bateau Ivre rimbaudiano per consumare, da adulto fatto, il suo addio, come in un viaggio della memoria. Il sedimento del substrato simbolista è intatto, gli uomini del Novecento portano con sé la loro maledizione che ha subito una metamorfosi: non si sublima più nell’estasi malata e visionaria del viaggio definitivo, eterno, ma cresce come disagio mortale insieme all’uomo. Non lontana e estatica, ma banale e presente come la nuova quotidianità che inaugura il tempo di pace.

Gadda tenta a lungo l’unica via salvatrice in cui abbia mai osato credere: quella della conoscenza che porta alla verità. Lo sforzo letterario è lo strumento possibile, quello più libero, meno frammentato, che si può lanciare più in alto. Sfugge, però, si insinua fino a mescolarsi con il male che pretende di “vedere”, di leggere. Di conoscere. La forma che si intuisce è già sporcata dalla disperazione.

La disperazione che fa percepire i migranti come dei vili, degli amorali, in fondo. Si spostano verso i loro sogni e così facendo li uccidono. Sono dei non-viventi sognatori, destinati a scoprire che le terre nuove sono fatue. Ma ormai è tardi, devono spingersi oltre, anche se sanno che stanno viaggiando solo verso la morte.

E i sedenti li aspettano come dei miraggi, come ambasciatori di conoscenza. Ma è una pia illusione. Arriveranno senza portare niente, se non l’orrore della noia nel rosso degli occhi.

Solo i sedenti possono vivere sognando, godersi la visione del loro sogno, sulla soglia, la sera, mirando il tramonto, con le membra dilaniate dal lavoro e il vociare della famiglia che riscalda il povero focolare, carico di fatica e umiliazione. Anche loro viaggiano verso la morte ma moriranno con i loro sogni intatti, realizzando il fine etico della loro vita, senza accrescere la conoscenza ma eticamente probi.

La verità di un oggetto è nelle relazioni che lo collocano nel mondo. E questo vale anche per la verità di uomo. È il groviglio di Gadda. Il suo fronte personale. La sua ossessione filosofica, di paternità leibniziana, mai risolta in una conclusione liberatoria. Se la verità non è il fine della conoscenza e se la vita non ha la verità come scopo, allora cosa c’è? Che cosa esiste? E per che cosa vivono i letterati?

E soprattutto che senso ha il male di vivere?

Per Gadda il viaggio è stato uno spostamento. Si è spostato e ha portato lontanissimo, ma sempre con sé, la sua visione, il suo dolore, la sua nostalgia.

Se Baudelaire e Rimbaud erano sospesi dal vivere, pur nella loro ricerca di annientamento e folgorazione estatica, la mens gaddiana è vigile e contemporanea, conscia del fatto che passato e presente non si segmentano, ma si riversano e sono inscindibili.

Ha capito che si può conoscere di più ma non conoscere la verità. Si può spaziare, ma restando nello stesso tempo.

Da narratore, Gadda compie una ricerca filosofica che lo conduce a concepire i viaggi deliranti dei poeti della sua formazione come altro da sé, una fascinazione perturbante, una partitura onirica, e alla fine, un errore.

Il groviglio di Gadda è ripercorso, riprodotto, rivissuto nel suo delirio scrittorio: un incastro di parole, di idiomi, di registri, di invenzioni, di sconfinamenti linguistici, ma Gadda non delira dal tempo storico che è l’unica dimensione della vita, così come è la morte la dimensione del tempo e della verità, comunque irraggiungibile.

 

2. Viaggio e senso, senso del viaggio

 

Migrare è rispondere alla paura, con un’azione netta e fortemente simbolica.  Ed è la paura infatti che spinge Gadda a partire.

Teme di perdere il suo status a causa dei dissesti familiari, fin da ragazzino incombenti. Teme di non essere riconosciuto come scrittore, di non poter mai vivere da scrittore. Teme gli affetti femminili, per l’invadenza, la richiesta che implicano. Teme di non dare un senso alla sua esistenza. Di non trovare un senso all’esistenza. Teme le sue stesse scelte.

Una partenza - assoluta, assurda, concretissima – è l’andata in guerra. Ed è la guerra, fermamente voluta dall’interventista Gadda, che costituisce per lui “il” viaggio per eccellenza: l’esperienza terribile, indimenticabile. Il viaggio in cui Carlo Emilio si stringe all’umanità più vivida, bestiale e tenera, all’amicizia tra giovani uomini soldati, in cui mette alla prova il suo patriottismo, la sua tempra di uomo, il suo anelito verso la grandezza d’Italia.

Ma Gadda viene fatto prigioniero; e al ritorno apprende della morte dell’amato fratello aviatore. Amarissima perdita, per Gadda, che ha già patito da ragazzo quella prematura del padre. È l’evento che scardina tante certezze: Gadda capisce che l’ordine non esiste. Che non esistono eserciti giusti né condottieri capaci. Che la guerra non rimette a posto il mondo ma lo sventra. Nel ’22 parte così per l’Argentina, per il lavoro, per andare incontro alla vita, dopo tutto l’orrore e il disfacimento appena rievocati. Il 30 novembre del ’22 salpa da Genova a bordo della «Principessa Mafalda». Vagheggia di accumulare ricchezza e ha infervorata sete di conoscere il mondo capovolto, come lo chiamerà nella Cognizione; ma teme di fallire, di avere già dentro di sé il seme della sconfitta morale, come scrive nelle lettere e nei resoconti di viaggio. Si impregna del senso di colpa nei confronti della madre e della sorella. Resta impigliato nel suo temperamento umorale, nella sua malinconia e ipocondria, nonostante l’entusiasmo della nuova avventura.

Il senso del viaggio sembra ritornargli molto dopo la fine del viaggio, nel percorso già letterario della memoria.

L’investigazione del reale mediante la narrazione si compie per Gadda nel viaggio del sedente, in chi vive la vita con un fine etico. Anche se non è sufficiente. L’identità stessa dell’io narrante non è certa, non è stabile, non resta uguale a se stessa. Si scompone, si lacera, si dimentica. I temi cari all’esistenzialismo e alla psicanalisi sono già traslati da Gadda nel suo universo letterario di senso e ricerca di senso. La sua narrazione del viaggio nella dimensione immobile e carica di storia della memoria, il ricorso alla descrizione ironico-pittoresca, caotica e insieme sospesa come in una nuvola indispensabile di silenzio vagamente allucinatorio anticipa le atmosfere del teatro dell’assurdo. 

Una conquista di sensibilità e di stile che procede assieme ad eventi che si annodano alla sua attività di scrittore. Nel ’32 Gadda comincia a pubblicare su «Solaria» le prime opere, raccolte di saggi letterari e racconti. Sono passati quindici anni da Caporetto, dalla morte del fratello. Nel 1936 muore la madre e il figlio vende subito l’odiata villa di Longone al Segrino, che La cognizione del dolore – scritto l’anno dopo – renderà famosa. Contemporaneamente lascia per sempre la professione di ingegnere.

Durante la seconda guerra scappa come un ladro sotto le bombe nella campagna toscana, un impaurito qualunque, incapace di proteggersi, incredulo di essere ancora vivo, seppur debole e affamato. Ha paura di essere accusato, adesso che sta per affrancarsi dai bisogni materiali e che può scrivere per mestiere, delle sue idee giovanili.

Intanto, scrive forsennatamente.

 

  1. Seconda vita, fine del viaggio

 

Negli anni ’50 finalmente gli arriva il successo, la fama rimescola le carte. L’appoggio di letterati di prim’ordine si accresce. Il Pasticciaccio è pubblicato nel ’57. Ma il «male oscuro», come lo chiama, non lo abbandonerà. Il male oscuro non si spiega e non si definisce, ma si possono avanzare ipotesi sulla sua genesi. La sua educazione, rigorosa, lombarda, “austriaca” (poiché la madre è di sangue austriaco), non gli permette evasione alcuna. Per autocensura che deriva dall’impossibilità per lui strutturale di credere all’evasione stessa, (un’impossibilità accettata per senso del reale, non per moralismo).

Gadda prova a raccontare scientificamente la realtà con la sua penna e il suo occhio e comprende, suo malgrado, l’impossibilità di raggiungere questo fine etico del lavoro letterario; mira a cambiare il reale con il suo spirito tagliente e beffardo e tragico, sotto la guida della sua conoscenza razionale e comprende che non si può realizzare questa operazione, non fino in fondo; resta e lavora e si sforza, accettando il dolore ogni giorno dei limiti che ogni giorno riconosce. Non si elegge diverso e non si concede vie di fuga. Unico vezzo, critica chi cade in questa trappola, chi cede a questa tentazione.

I sentimenti li rende in allegoria e li sfratta dalla vita infilandoli nei suoi garbugli letterari, li sublima in pastiches.

Resta solo, staccato, forse pensa alle donne ma non le ammette nella sua vita, dopo aver “ucciso” la madre nella Cognizione, e aver tenuto a distanza fisica la sorella, come si legge nelle lettere dall’Argentina.

Non è un visionario né un rivoluzionario se non “a parole”. La rivolta interiore, il disprezzo morigerato per il male oscuro, le paure che lo limitano per tutta la vita le trasfigura nella sfrenata fantasia che fissa sulla pagina, ai limiti talvolta del sostenibile e del comprensibile. Le parole sono il teatro della sua danza finalmente irriverente, anticonformista, trasgressiva, liberatoria, violentemente seduttiva. Non possono non trasmettere un vortice di essere e pensiero, in episodi o momenti con andamento incostante, dal disteso, al rapido, al cortocircuito, che potrebbero essere accostati, per richiamo intellettuale e in rapporto antinomico ma dialogante, alla tecnica del flusso di coscienza che tra la fine degli anni ’20 e l’inizio degli anni ’30 si afferma nella letteratura anglosassone.

Gadda non cerca lo straniamento, che da uomo temerebbe, ma lo produce e lo rende nella sua poetica, nella sua scrittura.

La tecnica è di matrice naturalista, il percorso delle letture di formazione passa attraverso Balzac e Zola, ma è già del ’24 la morte del romanzo classico dichiarata da Breton e Gadda già ha dovuto abdicare da uomo del ‘900 all’affidamento nella luce divina o nella Divina Provvidenza, abitando l’alba della solitudine contemporanea.

 

4. Il secreto interiore dell’essere

 

I “reduci” delle migrazioni hanno sperimentato la desolata vanità del mondo spaziale: deserto orrendo è la terra a chi non possieda il secreto interiore dell’essere: un fine «morale».

Gadda lo rivive e lo scrive ripercorrendo e citando da Le Voyage di Baudelaire in particolare versi infernali, lussuriosi, languidi, sensuali, oppiacei, stremati di stordimento, orridi di noia eterna.

Nel Voyage l’attrazione verso l’abisso insondabile è una forma estrema di abbandono alla bellezza; in I Viaggi, la Morte, Gadda sente nelle figure dannate baudeleriane «l’eco di un’intuizione etica»: il rimorso, il rimpianto per aver vissuto in maniera «disetica». Gadda scrive della «vanità etica» del «destino umano» dei migranti che vivono per trouver du nouveau, principio di dissoluzione per Carlo Emilio, di scivolamento verso l’Abisso.

Procedendo verso la conclusione de I Viaggi, la Morte, Gadda scrive: «La poesia in quanto epitome purificatrice della conoscenza, nella estensione più ampia di questa, non può cancellare dal mondo le realtà etiche. Quando voglia prescindere in absoluto da un qualunque motivo della realtà complessa, rinnegarne un qualunque vincolo, si trasforma in arzigogolato ricamo, in “imaginosa finzione” nel senso più dilettantesco della parola». E anche: «...la negazione così di un fine possibile, di uno sviluppo possibile, di una norma o di una legge o di una coordinazione possibile inaridisce le fonti stesse della espressione».[3]

 

Il secreto interiore dell’essere è il suo anelito morale, che dev’essere così radicato nell’io da sfidarne l’abisso, così incistato da poter sostenere l’“insopportabile tirannide della finalità” cui i simbolisti si sottraggono mediante la regressione e il sogno, “l’astrazione dal reale” dei sognatori e degli scrittori fantastici e la regressione dei migranti che viaggiano verso la morte, pur di sfuggire al telos moralizzante. [...] «l’io morale – aveva già detto Gadda - è un feroce inibitore, un meticoloso limitatore, un accanito e formidabile negatore».[4]

Quando descrive l’educazione di Rimbaud, Gadda sembra rievocare la sua stessa esperienza: «I fleuves impassibles sono il monotono scorrere della vita borghese, la banale educazione borghese, la insopportabile sanità della famiglia: circondano di grigiore l’adolescenza del poeta, affidato ad “institutori” troppo impreparati al loro compito, inetti comunque a seguire e confortare nel tragico suo sviluppo un’anima d’eccezione».[5]

Questa educazione imprigiona il destino, taglia fuori il caso. A meno che non ci si danni l’anima morale regredendo, perdendosi nei paradisi artificiali, migrando alla maniera simbolista per ributtarsi nella “casualità oceanica” e sciogliere ogni vincolo teleologico, morendo.

«È strano – scrive lo scrittore milanese in un altro punto del suo saggio - che le acute dottrine trascurino i fatti del sentimento, il quale costituisce l’indice della funzionalità teleologica. Se il sentimento è rivolta, ciò significa che il dio operante ha sbagliato».[6]

Ha, il dio operante, sbagliato quando il sentimento su cui poggia la funzionalità teleologica è il senso di colpa? E il senso del dovere che lo esplica?

O ha raggiunto il suo telos di controllo e dominio?

Qual è l’abisso più profondo e spaventoso? sembra chiedersi Gadda.

 

5. Poetica: un viaggio

 

Un altro saggio solariano è Le belle lettere e i contributi espressivi delle tecniche, scritto nel ’29, inserito nella prima parte della raccolta I Viaggi La Morte.

Gadda esprime un quesito, all’inizio di questo lavoro critico:

 

È possibile dimenticare, per una mezz’ora una volta tanto, le quaranta parole di cui risulta il macinato medio della gran macina critica, per occuparsi invece d’alcuni fatti minuti e potremmo dire modesti, i quali hanno pur tanta parte nel concreto coagularsi d’un opera verso la sua struttura definitiva? È possibile con una certa galileiana sottigliezza andar entrando, almeno una volta, nel cantiere primo del nostro lavoro, lasciate un attimo le questioni teologiche eccelse? Risponda ognuno quello che vuole.[7]

 

Il dubbio che Gadda attraversa e scandaglia lo porta su un terreno a lui molto familiare, quello del linguaggio e dei linguaggi delle tecniche. Gadda individua nella necessità storica del nascere e del succedere e del diffondersi universale di nuovi linguaggi tecnici, che non fanno altro che aderire all’evolvere dei fatti del lavoro umano, i nuclei semantici del lavoro umano collettivo dell’invenzione del linguaggio, e finalmente della storia, che è una storia collettiva, della poesia.

Se il nucleo di significante e di significato che si impone nella storia linguistica dell’uomo è la traduzione fisica del gesto, la spiegazione causale del migliorato risultato in una special tecnica applicata ad un campo del lavoro umano e delle umane conseguenze che ne scaturiscono, allora il nucleo poetico universale è la banalità minuta degli uomini piccoli, l’umile storia bassa dei fondali umani.

La storia collettiva della poesia è già nel gesto e nel passo di chi è intento a compiere il proprio destino, mai registrato nei libri, mai notato dai grandi e dai saggi.

Il viaggio di ricerca, percorrere il mondo traendone fotogrammi viventi, arricchire la propria conoscenza intorno alla vita umana, riconoscere i nuclei di poesia: questo il nesso euristico che Gadda ammette dalla sua posizione etica, teoreticamente e, almeno fino al viaggio argentino, pragmaticamente.

Poi accade qualche cosa che nel tempo continua ad accadere e lacera questa fiducia del Gadda positivista, morale, manzoniano, lombardo. L’acredine delle partenze, la falsità delle promesse di libertà dalle proprie limitazioni in nuove frontiere spaziali e da nuove angolazioni di senso, lo slancio vitalistico che si affievolisce con gli anni e l’affermazione nella codificata comunità intellettuale e letteraria, sociale, anche, quell’abisso che alla fine non si è colmato, né dischiuso, né vinto, né mortificato.

 

Gadda, al termine del saggio sulle “Belle Lettere”, si risponde, ci risponde:

 

Credo d’aver dato una certa forma alla bizzarra e poco letteraria e poco ortodossa questione, che m’è piaciuto proporre. [...]. Eppure, come in ogni umana faccenda, come nell’esercito e nella chiesa e nell’insegnamento e negli affari e dovunque, che accade incontrare alcuni degli inscritti men degno di altri non registrati ne’ libri, così anche nella nostra musogònica repubblica. Il mondo bisogna pur guardarlo, per poterlo rappresentare: e così guardandolo avviene di rilevare che esso, in certa misura, ha già rappresentato se medesimo: e già il soldato prima del poeta, ha parlato della battaglia, e il marinaio del mare e del suo parto la puerpera. E questi «pratici», vivendo lor vita le danno pur luce e colore: quel colore che è cosa povera davanti l’eternità, ma tanto cara ai nostri occhi di poveri diavoli: quello di cui forse non ha bisogno il filosofo, ma certamente il poeta.

Tutta la questione è una questione di particolari, di minuzzoli: ma anche di vita: poiché la vita è il differenziarsi e il rinfrangersi de’ motivi per entro i motivi, in situazioni infinite e nucleate ciascuna in attimo, in un caldo attimo, in una colorita pausa, in una permanenza caparbia e malvagia del particolare e del singolo, in una sua riluttanza a smarrirsi verso il buio indistinto. Tutta la questione d’altronde, come da qualche accenno s’è visto, si riconnette e subordina ad altre e diverse e prima forse ad una, ch’è grama quant’altre: se l’attività estetica sia realmente prescissa, come da taluni nobilmente è stato affermato, dai momenti che soliamo chiamare prammatici dell’esser nostro o se nel fondo cupo d’ogni rappresentazione sia ritrovabile ancora quello stesso germine euristico che è la sintesi operatrice del reale.[8]

 

La fama, soprattutto se raggiunta con sacrificio, fatica, nell’incertezza di chi muove solo verso un riscatto sociale agognato dalla fanciullezza e consolidato tardi, a maturità inoltrata e sofferta, spesso conduce al delirio di onnipotenza, in questo caso, intellettuale; a rincarare la disseminazione del proprio pensiero riconoscibile finché tale è, fino alle estreme conseguenze. Non Gadda. Gadda resta un dubbioso, cogitabondo, errante per spirito di conoscenza e con la maturità e la vecchiaia e la fama accentua il rigore anche su stesso. Opera lo stesso assoggettamento morale in cui crede fin dalla sua giovinezza e dal suo esordio letterario, con l’ingrediente ingrandito della disillusione, già prevista e poi vista e ricordata, smembrata e rimembrata, che gli fa epurare, criticare più apertamente, riconsiderare con la mente piena e pulita anche le proprie stesse convinzioni, che getta nel mondo, sempre allo stesso modo schivo e distaccato, con lo stesso gusto pungente, la stessa ironia, lo stesso dolore.

Chi ha avvertito minacciata la propria identità per ragioni evidenti, concrete, esterne, strutturali, opera (se dimostra a se stesso la capacità di arrivare laddove si era prefisso, o anche più in alto) una vendetta preparata con perizia e determinazione assolute, a costo di qualsiasi sacrificio. Gadda si vendica di se stesso e delle proprie incapacità, delle loro origini e cause, coltivando sacrifici morali per tutta la vita, umana e letteraria, perché è quello il modo che conosce, che gli è famigliare, è quella la sua educazione. Al cambio di vita materiale e sociale non corrisponde nessuna violazione del secreto interiore del suo essere. Semmai smette, forse, di sentire minacciata la propria identità, scoprendo come la differenza sia, forse, nel grado di amarezza, nel grado di acredine che fa di ogni partenza un simulacro dell’ultimo viaggio.

Una “nuova vita” soggettiva è una frontiera inesistente. La scrittura è la frontiera della verità, l’unica esperienza che può legittimare la vita nel suo istintivo compiersi.         

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In una lettera a Paul Demeny, conosciuta come la Lettre du Voyant, datata 15 maggio 1871, Rimbaud scrive:

 

Le Poète se fait voyant par un long, immense et raisonné dérèglement de tous les sens. Toutes les formes d'amour, de souffrance, de folie; il cherche lui-même, il épuise en lui tous les poisons, pour n'en garder que les quintessences. Ineffable torture où il a besoin de toute la foi, de toute la force surhumaine, où il devient entre tous le grand malade, le grand criminel, le grand maudit, - et le suprême Savant! - Car il arrive à l'inconnu ! Puisqu'il a cultivé son âme, déjà riche, plus qu'aucun ! Il arrive à l'inconnu, et quand, affolé, il finirait par perdre l'intelligence de ses visions, il les a vues ! Qu'il crève dans son bondissement par les choses inouïes et innombrables : viendront d'autres horribles travailleurs ; ils commenceront par les horizons où l'autre s'est affaissé![9]

 

Nella medesima lettera, Rimbaud anticipa i contenuti dell’opera alla quale comincerà a lavorare nel 1873: Une Saison en Enfer, con la quale, a vent’anni, abbandona la poesia.

Nella lettera, «il poeta-miracolo» come lo chiama Gadda in un brevissimo scritto, Il Simbolismo, del ’53, presente nella raccolta Scritti Dispersi,[10] Arthur Rimbaud, scrive: «Car Je est un autre. Si le cuivre s'éveille clairon, il n'y a rien de sa fatte».[11]

L’io è scalzato. L'Io è perduto. «l'Io è un altro».

Nella medesima raccolta, ma ancora nel periodo vicino ai testi solariani, in una recensione apparsa su «L’Ambrosiano», nel ’31, a Essais Critiques di Marcel Arland, Gadda scrive: «L’artista è un tecnico, è l’artiere di carducciana memoria, che fa della propria opera la motivazione morale, la motivazione reale della propria vita. La qual conclusione eroica, come tutte le verità troppo belle, è più forse un miraggio che un fatto: come miraggio è accettabile, come fatto... bisogna pur cavarla, quest’arte, da una conoscenza altrove cumulata, da un’esperienza altrove durata».[12]

L’anno seguente ancora su l’«L’Ambrosiano», Gadda pubblica il saggio Poesia di Montale - Ossi di Seppia è uscito un anno prima, per Vallecchi, la stampa milanese, scrive Gadda, non s’è ancora occupata di Montale, eccezion fatta per Piovene -: Gadda si dice ammirato del potere di evasione dello spirito di Montale, la parola “memoria” ritorna insistente come nessuna altra nella sua lirica...

 

ed eccoci sopra una delle realtà più profonde di questa poesia: realtà celata, motivo interiore ed inespresso, o raramente espresso: e pure causa di aspetti che riuscirebbero altrimenti indecifrabili. Il senso tragico della sofferenza e della imminente dissoluzione non lo induce alla rivolta, bestemmiatrice del destino, né alla irrisione degli idoli: non all’acre negazione del trascendente, ch’è la vittoria d’ogni tardo positivismo; non lo sospinge verso la paura dell’abisso; non verso le acque madri del pessimismo. L’esperienza dolorosa dell’attimo non gli fa desiderare la rinnovata esperienza faustiana. Nulla di ciò. Il dolore implicito in ogni cosa finita gli dà insieme il presagio e il desiderio della liberazione: ogni vincolo si allenterà, vanirà; disparirà ogni limite. [...] Il finito si dissolve. Esiste, immobile, il tutto. L’attimo iridato di dolore sfocia spinozianamente nell’Uno universo [...] E da quest’afa, nuovamente, erompe l’anelito della liberazione. [...] La realtà è lacerata da un sùbito squarcio; la miseria nostra dalla carità luminosa del miracolo. Sogno o desiderio o presagio o disperata illusione, questo miracolo fuori dalla stringente catena della causalità, illumina col diramare di una folgore il nubiloso cielo del nostro destino.[13]

 

Come dire, forse, che antidoto solo al male oscuro, affezione già della mente, la poesia tra vita e morte nasconde la speranza di intuire, o infrangere, il “meccanismo segreto della conseguenza”.

 

Le opere citate nel testo sono tratte dalle seguenti edizioni: 

 

C. E. Gadda, Romanzi e Racconti, in Opere di C.E. Gadda, ed. diretta da D. Isella, vol. I, Milano, Garzanti, 2007.

C. E. Gadda, Saggi Giornali Favole e altri scritti, vol. I, in Opere di C.E. Gadda, ed. diretta da D. Isella vol III t. 1, Milano, Garzanti, 2008.

A. Rimbaud, Opere, a cura di I. Margoni, Milano, Feltrinelli, 1993.

C. Segre e C. Ossola (a cura di), Antologia della poesia italiana. Novecento, Volume primo. pp. 392-458, Einaudi, Torino, 2003.

 

 

27 aprile 2021



[1]  I saggi I viaggi, la morte e Le belle lettere e i contributi espressivi delle tecniche sono in C. E. Gadda, Saggi Giornali Favole e altri scritti, (a cura di Orlando, Martignoni, ed. diretta da Isella), Milano, Garzanti, 2008, rispettivamente alle pp. 561-586 e pp. 475-488.

[2]  Utile strumento per l’approfondimento del testo, oltre alle note critiche dell’edizione curata da Isella, è la piccola miniera di studi critici su Gadda disponibile nell’«Edimburgh Journal of Gadda Studies», per cui si veda: http://www.gadda.ed.ac.uk/Pages/journal.php

[3]  Le citazioni sono tratte da I Viaggi, la Morte, cit. pp. 580-581.

[4] Ibidem, p. 564.

[5] Ibidem, p. 573.

[6] Ibidem, p. 581.

[7] Le belle lettere e i contributi espressivi delle tecniche, cit., p. 475.

[8] Ibidem, p. 475.

[9] A. Rimbaud, Opere, Milano, Feltrinelli, 1993, p.142.

[10] C. E. Gadda, Il Simbolismo, in Idem, Saggi Giornali Favole e altri scritti, cit, p. 1062.

[11] A. Rimbaud, cit., p.140.

[12] Marcel Arland, Essais Critiques, in C. E. Gadda, Saggi, Giornali, Favole e altri scritti, cit. p.720.

[13] Poesia di Montale, in, C. E. Gadda, Saggi, Giornali, Favole e altri scritti, cit. p. 767-768.