Fabio Vittorini - La letteratura degli Stati Uniti

Il mutamento radicale e irreversibile delle tecnologie dell'informazione e dell'intero mondo della comunicazione innescato negli anni Ottanta dal lancio dei primi personal computer di massa modifica la natura del sapere, che di lì in poi circola sempre più nei nuovi canali, divenendo operativo solo «se si tratta di conoscenza traducibile in quantità di informazione». Tutto ciò che nel sapere costituito non soddisfa tale condizione sarà progressivamente abbandonato e «l'orientamento delle nuove ricerche sarà condizionato dalla traducibilità in linguaggio-macchina degli eventuali risultati. I "produttori" del sapere al pari dei suoi utenti devono e dovranno disporre dei mezzi per tradurre in tali linguaggi ciò che i primi cercano di inventare ed i secondi di imparare» (J.-F. Lyotard). La narrativa letteraria e cinematografica statunitense immediatamente iniziano a elaborare questa svolta immaginando i futuri possibili della comunicazione umana. Si pensi a film come 2010 – L'anno del contatto di Peter Hyams, Terminator di James Cameron o  Dune di David Lynch, tutti del 1984. Ma si pensi soprattutto al romanzo Neuromante di William Gibson, che attualizza, nello stesso anno in cui erano state immaginate, le trame distopiche e alienatorie del futurologico 1984 (1949) di George Orwell. Emergono come tendenze dominanti della  narrativa contemporanea quelle a elaborare: 1) nuovi pattern narrativi: si allarga la sfera del narrabile, si inventano nuove modalità di costruzione di trame, manipolando la temporalità, la configurazione dell'atto narrativo o i presupposti dello stesso gioco letterario; 2) nuovi modelli di introspezione: acquisita la psicoanalisi freudiana, nella cornice delle più recenti neuroscienze, muovendosi tra chimica, biologia, medicina, ingegneria, linguistica, informatica, antropologia, scienze sociali, ma anche mistica e parapsicologia, si indaga la mente come apparato neurologico su cui si può agire artificialmente attraverso sostanze o apparati protesici; 3) una risignificazione del concetto di morte: si indaga la morte e il rapporto vita/morte attraverso nuovi riti o viaggi agli inferi del mondo e della psiche, trip che possono essere compiuti grazie a stimolazioni chimiche, tecnologiche, mistiche, parapsicologiche o superstiziose; 4)  una ri-patetizzazione del rapporto razionale/irrazionale: metabolizzate la psicoanalisi e le neuroscienze, si ripensa il rapporto razionale/irrazionale, conscio/inconscio, spontaneo/indotto, sensoriale/allucinatorio, normalità/follia, principio di realtà/principio di piacere, fondando nuove forme di pathos narrativo.
L'onda d'urto del primo postmoderno (quello di scrittori come William Gaddis, Vladimir Nabokov, Thomas Pynchon, Donald Barthelme, John Barth ecc.) è stata ampiamente metabolizzata e i nuovi racconti sembrano oscillare tra il suo pragmatismo scettico e/o apatico e l'idealismo ingenuo e/o fanatico del moderno solo in apparenza obliterato. Un moto oscillatorio che tende a una sintesi descrivibile solo attraverso una lunga catena di "come se". Come se fossero praticabili un'ingenuità colta, una passione scettica, un entusiasmo ironico, un idealismo pragmatico, come se il prefisso che disgiunge moderno e postmoderno non fosse che la marca di un'unione originaria, dissimulata da una terminologia irrimediabilmente insufficiente. L'armonia del moto è nell'infinita oscillazione garantita dalla gravità (o profondità prospettica) del racconto: quando l'entusiasmo si muove in direzione del fanatismo, la gravità lo attrae verso l'ironia; quando l'ironia si muove in direzione dell'apatia, la gravità la riattrae verso l'entusiasmo.
Romanzi come Blood and Guts in High School di Kathy Acker e Le mille luci di New York di Jay McInerney del 1984,  Meno di zero di Bret Easton Ellis, Momenti perduti di Steve Erickson, Città di vetro di Paul Auster, Meridiano di Sangue di Cormac McCarthy e soprattutto Rumore Bianco di Don DeLillo, tutti del 1985, sono difficilmente collocabili entro il perimetro estetico di etichette come moderno e postmoderno. L'horror vacui del pastiche, il correre stordito dei personaggi alla ricerca dell'oblio, il loro scetticismo e la loro apatia, l'inflessione che conduce il racconto talvolta dalla rimozione alla riappropriazione, dal presente al passato, dal cinismo al pathos, talvolta dalla memoria al sogno, dal passato al futuro, dall'epos al meta-racconto, finiscono per avere un senso solo recuperando una qualche forma consapevole di ingenuità e di adesione alla vita, un barlume di quella felicità che per il narratore della Recherche di Marcel Proust consisteva in un «ampliamento» dello spirito in cui riprende forma e si attualizza il passato, regalando al soggetto un pur momentaneo «un valore d'eternità». In quella ingenuità ritrovata è il senso più profondo della sintesi tra moderno e postmoderno in atto nella narrativa statunitense a partire dalla metà degli anni Ottanta.
L'offerta dominante nell'universo comunicativo occidentale all'inizio degli anni Novanta, in larga parte assoggettata all'industria massmediale, si fa sempre più appannaggio del cinema e della tv (nel giro di qualche anno si aggiungerà il web) che non della letteratura, è sensoriale più che linguistica, sospinta da una pulsione diffusa a convertire il verbale in visivo, il riflessivo in simulacrale. Una pulsione che asseconda la propensione dei mass media a esorcizzare il senso della mediazione, a dissimulare sotto il manto della verosimiglianza analogica la loro capacità di agire non tanto sul contenuto ideativo della comunicazione, quanto sulle strutture generative dei processi che permettono la formazione e la ricezione delle idee. Se è vero che l'arte della parola costituisce un potenziale antidoto contro i mali della comunicazione mass-mediale, è altrettanto vero che «un'epidemia pestilenziale» affligge il linguaggio residuo che attraversa o circonda i media, ridotto a niente più che un chiacchiericcio indistinto (si pensi alla pletora di talk show che impazzano nelle tv degli anni Novanta), condannandolo a una «perdita di forza conoscitiva e di immediatezza», a un «automatismo che tende a livellare l'espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze». Ma la «letteratura (e forse solo la letteratura) può creare degli anticorpi che contrastino l'espandersi della peste del linguaggio» (I. Calvino). Non è certamente casuale se, oltrepassando la fine del millennio, tra le «infinite possibili finestre» della «casa della narrativa» affacciate «sulla scena umana», per dirla con Henry James, si tenta sempre più spesso di aprire quella che guarda sulle seduzioni e sulle aporie della cosiddetta società delle immagini.
Così nel 1993 Larry McCaffery dà alle stampe l'antologia Avant-Pop: Fiction for a Daydream Nation (con racconti di autori culto come la già citata Acker, Samuel R. Delany, Harold Jaffe e Derek Pell, ma anche emergenti come Euridice, Mark Leyner e William T. Vollmann) e Mark Amerika pubblica online il suo Avant-Pop Manifesto: Thread Baring Itself In Ten Quick Posts, in cui definisce i tratti di una new wave artistica, dal cui alvo usciranno scrittori come Jonathan Lethem, Matt Ruff, Patricia Anthony, Lewis Shiner, Lance Olsen, Douglas Anthony Cooper, David Foster Wallace, e registi come Joel e Ethan Coen, David Fincher, Quentin Tarantino, Robert Rodriguez, Spike Jonze, Paul Thomas Anderson: tutti «Figli dei Mass Media», che, a differenza dei «primi professionisti del Postmoderno», diventati adulti e coscienti tra la fine degli anni Cinquanta e l'inizio degli anni Settanta, hanno smesso di tentare «disperatamente di tenersi lontani dalla prima linea della nuova potente Realtà Mediagenica che stava rapidamente diventando il luogo dove la maggior parte dei nostri scambi sociali hanno luogo. Nonostante la sua precoce insistenza a restare chiuso nei presupposti di incestuosa auto-istituzionalizzazione del mondo dell'arte accademica ed elitaria, il Postmoderno si è trovato sorpassato dal motore dei media popolari, che alla fine lo ha ucciso, e dai suoi resti è nato l'Avant-Pop» (M. Amerika).
In verità narratori postmoderni di prima e di seconda generazione sembrano accomunati dal tentativo di bilanciare l'irradiarsi centrifugo delle correnti mediageniche ormai insopprimibili della loro scrittura attingendo alla forza centripeta della memoria ancora intesa proustianamente come strumento per superare il «dualismo di interiorità e mondo esterno»: nello stesso istante in cui si percepisce l'«unità» della vita nella «corrente della vita passata, concentrata nel ricordo», si svela che quella «visione» non è altro che «l'intuizione e il presentimento del significato non raggiunto e pertanto inesprimibile della vita» (W. Benjamin). Così, mentre il giovane Wallace in Infinite Jest (1996), in una cornice futuristica in cui le aziende a caccia di nuovi mercati danno il loro nome agli anni, affida al personaggio di Poor Tony Krause, drag queen tossicodipendente, il compito di esperire fisicamente il tempo, in modo tanto più intenso in quanto l'esperienza avviene durante una crisi di astinenza da eroina, azzerando sul nascere ogni possibile pulsione speculativa o tradizionalmente estetica, l'attempato DeLillo in Underworld (1997), mediante un sofisticatissimo sistema di analessi che trascina il racconto in una sorta di fuga verso l'origine, costruisce un vero e proprio palinsesto proustiano. Allo stesso modo troviamo vertigini, ricognizioni, manipolazioni, torsioni, giostre, parate temporali e spigolature più o meno direttamente proustiane in numerosi altri romanzi pubblicati in quello stesso anno. Tutti presuppongono un tempo perduto da rievocare o a cui appellarsi a partire dal presente della scrittura: il passato dell'integrità fisica, sia del corpo del protagonista-narratore Ben Turnbull, vecchio e malato, sia della natura circostante, devastata da un conflitto nucleare, echeggiato dal 2020 in Verso la fine del tempo di John Updike; il passato della comunità degli ebrei di Newark e del loro idolo Seymour Levov dal 1927 al 1973, ricostruito dallo scrittore ex-eretico Nathan Zuckerman nel 1995 in Pastorale americana di Roth; il passato federale in cui, tra il 1763 e il 1767, gli astronomi inglesi Charles Mason e Jeremiah Dixon, hanno tracciato la linea di demarcazione tra Pennsylvania, Maryland, Delaware e West Virginia, rimasta a indicare simbolicamente il confine culturale tra il Nord e il Sud degli Stati Uniti, in Mason & Dixon di Pynchon; il passato globale dal 17 febbraio 1991 al 13 febbraio 2001, giorno in cui si arresta l'espansione che muove l'universo dal Big Bang in poi e il tempo torna indietro di una decade, costringendo gli uomini a rivivere gli ultimi anni della propria vita esattamente come li hanno già vissuti, in Cronosisma di Vonnegut. In tutti questi casi la distanza tra il presente (scrittura) e il passato (perdita/riappropriazione) viene immaginata come una dislocazione nello spazio: un altrove che, da Proust in poi, non può che essere immaginato come uno stato altro del qui, sempre rievocabile in esso, pronto a riemergere trascinando con sé l'allora. Le tracce dell'allora sono tutte e solo nel qui/altrove, contenitore di tempo allo stato solido. Ciò che resta del tempo non è niente più che una concrezione spaziale. Il passato assomiglia alla mappa di un luogo umano da ricostruire (Boston per Updike, Newark per Roth, il confine tra Nord e Sud per Pynchon, la Terra per Vonnegut): il romanzo si serve della rappresentazione dello spazio come correlato di una sorta di mnemografia, un dispositivo ingegnoso di scrittura attraverso cui la mente pensa se stessa, esplora analiticamente il suo contenuto, riappropriandosi del tempo anche senza tematizzarlo direttamente e rinunciando all'introspezione discorsiva del romanzo moderno e modernista.
In tutti questi casi la collosità del modello proustiano viene tenuta a bada riducendone carnevalescamente il pathos: «gli incanti di un'intima tristezza» (Proust) generati dal tempo che passa si trasformano in orifizi penetrati, escrementi dispersi, copulazioni programmate, vesciche incontinenti, accumuli voraci di grassi saturi. Il corpo, vecchio, deperito o chimicamente alterato, incarna il tempo in tutta la sua materialità, senza alcuna possibilità di speculazione redentrice o resurrezione estetica: è tutt'altro che «un corpo perfettamente dato, formato, rigorosamente delimitato, chiuso, mostrato dall'esterno, omogeneo ed espressivo nella sua individualità», come quello di Marcel; è un corpo grottesco che tende a uscire dai suoi limiti in forma di protuberanza, escrescenza, diramazione, evacuazione, i suoi orifizi sono aperti a denotarne l'incompiutezza, l'imperfezione, il bisogno di unirsi ad altri corpi e al mondo circostante, di finire dove essi iniziano, di morire per creare: «Gli avvenimenti del corpo grottesco si svolgono sempre al confine tra due corpi, meglio ancora, nel loro punto di intersezione: un corpo dà la propria morte, l'altro la propria nascita, ma essi sul limite estremo si fondono in un'unica immagine bicorporea» (M. Bachtin). Oltre ai personaggi errabondi, drug addicted, sessualmente promiscui, afasici e spastici di Infinite Jest, oltre ai vecchi malfermi di DeLillo, Roth, Updike e Vonnegut, sono esempi compiuti di grottesco corporeo molti personaggi di Chuck Palahniuk: i lottatori di Fight Club (1996), i membri della setta Creedish di Survivor (1999), le modelle di Invisible Monsters (1999), il protagonista sessuomane di Soffocare (2001) ecc.
In prossimità del finale di Underworld, DeLillo si chiede: «Il ciberspazio è una cosa dentro il mondo, o il contrario? Quale contiene quale, e come si può esserne sicuri». La domanda millenaria sull'ontologia del narrativo viene spostata verso la neonata rete. Il virtuale (narrativo o cibernetico) è un'emanazione del reale o il reale è solo una delle possibili attualizzazioni del virtuale? Impossibile trovare risposta a una domanda che vorrebbe gerarchizzare due enti eterogenei rimandanti senza sosta l'uno all'altro in un circuito di senso infinito, tracciando un anello di Möbius in cui le due facce, interna ed esterna, significante e significata, girano invertendosi di continuo, in cui il virtuale non cessa di realizzarsi, il reale di virtualizzarsi. Quello che possiamo dire è che da Underworld in poi le trame della narrativa statunitense possono sempre più raramente essere visualizzate come traiettorie concluse e nettamente identificabili, come spostamenti rettilinei da punti di partenza definiti verso punti di arrivo definiti: sono piuttosto dei sistemi di divagazioni successive o sovrapposte, delle formazioni reticolari in cui ogni punto è collegato direttamente a molti altri punti, in cui l'energia narrativa non è liberata dal raggiungimento di un punto preciso nello spazio o nel tempo, ma è energia di navigazione, accensione di connessioni, ramificazione del senso, irradiazione infinita di link, di rinvii da un'unità testuale a un'altra, a infinite altre, che riconfigura il testo narrativo come un ipertesto, una struttura complessa, aperta, instabile. Fino al caso estremo di Updike che, pochi mesi prima di dare alle stampe Fino alla fine del tempo, scrive i primi e gli ultimi paragrafi del romanzo Murder Makes the Magazine, destinato a essere completato dagli utenti del sito emergente Amazon.com: migliaia di autori sottopongono i loro paragrafi a una commissione di giudici che ne sceglie e ne pubblica uno al giorno, dando forma al primo cyber-romanzo collettivo a puntate della storia della narrativa, esempio precoce di delocalizzazione, globalizzazione, deautorializzazione, multidirezionalità, confusione della comunicazione, simultaneità intercognitiva delle esperienze collettive, creazione di comunità virtuali, spettacolarizzazione del talent scouting.
La fine degli anni Novanta vede, assieme alla massificazione esponenziale del World Wide Web, la sua precoce trasformazione in spazio interattivo, l'esplosione del cinema digitale e la colonizzazione dei palinsesti televisivi da parte dei reality show, nella cornice di una generale rimediazione digitale dei vecchi media. Nel giro di pochi anni, dunque, in un infomondo in rapida glocalizzazione (simultaneità e compresenza di tendenze universalizzanti e particolaristiche) e democratizzazione, l'offerta narrativa dominante diviene sempre più appannaggio della tv e del web (e delle loro ibridazioni rese possibili dalla tecnologia dello streaming e dal potenziamento della banda larga) che non della letteratura e del cinema fruito nelle sale. Prende forma una narratività perfusa, onomatopeica più che linguistica, confessionale più che immaginativa, evacuativa più che introspettiva, descrittiva più che finzionale, paratattica, esclamativa, ridondante, sospinta da una pulsione dilagante e apparentemente incontrollata a esibire emozioni "immediate" e storie "non costruite", a convertire il verbale in sensoriale, il riflessivo in spettacolare, le architetture logiche della suspense in un pathos chiassoso e pulviscolare.
La narrativa letteraria e audio-visiva risponde a queste molteplici sollecitazioni elaborando nuove forme di testualità sempre più antireferenziali, destrutturate, proliferanti. Il perimetro testuale e il corpo diegetico si fanno sfumati. Obliterata l'idea di testo come tessuto finito, come velo dietro cui andare a cercare la verità, il messaggio, il senso, si impone definitivamente l'idea alternativa di testo come tessuto còlto nel farsi (e nel disfarsi) della sua tessitura, nell'esplicarsi (e implicarsi) dei codici, delle formule, dei significanti, come spazio in cui il soggetto (il narratore, il personaggio e il lettore/spettatore) si sposta e si disfa, simile a un ragno nella sua tela. Se il web si è affermato prepotentemente come soglia di ingresso in uno spazio fantasmatico che mette in questione il nostro radicamento nell'ambiente naturale, come lente anamorfica che ci collega e allo stesso tempo ci separa dal reale, come specchio che consente al soggetto di entrare in un mondo possibile, immaginario, disfacendosi di sé mentre evade dal qui e ora e si proietta nell'altrove, la narrativa elabora strategie discorsive di disfacimento e virtualizzazione delle storie e dei personaggi, còlti mentre disperatamente cercano (o si aggrappano a) un'immagine (spesso mediatica) che permetta loro di esistere e consistere. A mano a mano che quella ricerca esonda dal personaggio e occupa l'intera trama, il racconto incespica, si sfrangia, sconfina, si assottiglia, balbetta, si riprende, fino a mettere in scacco il personaggio stesso nel frangente in cui risulta più debole ed esposto, obbligandolo a uscire dalla sua logica sconsideratamente egotica per contribuire a testa bassa allo scioglimento. Ecco allora epiloghi, già lontani anni luce da quello di Underworld, che si mostrano senza reticenze come zone di scrittura devitalizzate, luoghi dai quali i personaggi si sono allontanati già da tempo, benché i rispettivi narratori continuino a nominarli, fingendo che siano ancora loro ad agire e usando le virgolette per evocarne le parole. Così, nel momento stesso in cui viene svelata, la finzione del linguaggio narrativo viene svuotata di senso, impoverita, snervata, deprivata della sua funzione semopoietica e della simulazione di vita che, implicata nell'essenza del racconto moderno, è ancora frammentariamente inscritta nel DNA di quello postmoderno e nella struttura d'attesa (bisogni, desideri, gusti, abitudini) dei suoi lettori/spettatori.
Il linguaggio che articola (ed è articolato da) i racconti massmediali appare sempre più simile a un chiacchiericcio indistinto (talk show), a un borborigmo eternamente adolescenziale (blog, reality show), pervaso dalla narcosi di un narcisismo che riproduce all'infinito la pulsione infantile alla rappresentazione di sé per il gusto della rappresentazione, affetto da una perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, da un automatismo diffuso che ne banalizza la potenza espressiva. L'astenia diffusa del linguaggio viene fatta essa stessa oggetto di racconto, insieme alle pratiche e ai rituali sociali che la producono e che essa alimenta. I racconti letterari e audio-visivi del nuovo millennio, però, non assumono più le forme e i toni di considerazioni operanti nel tempo in modo inattuale: non leggono come danno, vizio e difetto del presente qualcosa che lo caratterizza, non agiscono contro di esso indicando rimedi all'inconsistenza del linguaggio sopravvissuto alle trasformazioni epocali della società dello spettacolo. I nuovi narratori giocano senza inibizioni con la rinuncia all'io narrante/narrato come posta di una sfida enunciativa e introspettivo-analitica coerente: il soggetto diviene puro annuncio, somma di proclamazioni immemori e perciò talvolta contraddittorie, si fa tutto interno al linguaggio (verbale e audio-visivo), vaga, si trasforma e si disfa nella sua superficie, sempre più simile a quella di uno specchio che riproduce incessantemente segni già esistenti. L'euresi narrativa non cerca più di sottrarsi o resistere al carattere «subreale» del linguaggio massmediatico, ma, inglobandolo, lo feconda coi processi «cosmetici» e restitutivi della parola letteraria, che accoglie la parte oscura di quel linguaggio («ciò che rimane sul fondo scrostato di tutti gli strati che hai aggiunto» [DeLillo]) come una risorsa preziosa, superando una volta per tutte il suo iniziale complesso di superiorità e la sua eterofobia difensiva. Ne sono una prova evidente romanzi eccessivi come Glamorama (1998) di Ellis, il già citato Invisible Monsters di Palahniuk e L'opera struggente di un formidabile genio (2000)di Dave Eggers, ma anche romanzi che ibridano le nuove tenenze con forme più tradizionali di racconto come Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay (2000)di Michael Chabon, Le correzioni (2001) di Jonathan Franzen, Middlesex (2002) di Jeffrey Eugenides, La fortezza della solitudine (2003) di Jonathan Lethem.
Negli anni in cui esplode una sorta di new wave della serialità televisiva, che raggiunge proporzioni enormi sia dal punto di vista produttivo che da quello della fruizione spettatoriale, il Web è rivoluzionato dalla nascita di numerosi social network, che nel giro di pochi anni assoldano miliardi di utenti. Il loro impatto sulle relazioni interpersonali e sull'auto-percezione/rappresentazione dell'individuo è irreversibile: la vecchia opposizione tra reale e virtuale viene spazzata via e i suoi due cardini vengono riassorbiti in un nuovo modello epistemico in cui, come in un ulteriore anello di Möbius, girano invertendosi all'impazzata. Data per acquisita l'inseparabilità e l'interscambiabilità ontologica di reale e virtuale, la relazione dell'individuo con se stesso è improntata a una nuova idea di libertà, in cui il significante (la proiezione) sembra volersi/potersi liberare dal significato (il sé analitico), l'immediatezza del desiderio dalle mediazioni dell'esperienza (che comporta viaggi nello spazio e nel tempo). Dell'intero mondo reale può liberarsi l'individuo, tranne che delle sue protesi tecnologiche e delle proiezioni di sé che esse permettono/veicolano, connesse in un'interfaccia amichevole con quel mondo, sempre più fruito in un compendio tascabile, maneggevole e controllabile. L'io come posta di una sfida analitico-rappresentativa complessa, articolata e diacronica, ormai messo in liquidazione da un narcisismo semplificatore e indifferente al tempo, diviene somma libera di simulacri, (auto)scatti, proclamazioni prive di memoria e perciò indifferentemente contraddittorie, post (annunci) su "bacheche" virtuali che fungono allo stesso tempo da vetrine, forum informativi, luoghi di socializzazione e setting da terapia di gruppo: in altre parole, si fa tutto interno al medium, vaga, si trasforma e si disfa nella sua superficie. Sempre più al riparo dalle fatiche del pensiero (psico)analitico e delle relazioni reali, la cui rimozione può essere addirittura conditio sine qua non, il soggetto, quasi impossibilitato a oltrepassare il «muro del linguaggio» (Lacan) attraverso cui si rappresenta a se stesso, si rivela come un testo/tessuto instabile che può essere colto solo nel farsi e nel disfarsi di una trama pseudo-interiore che viene ordita anesteticamente, ubiquitariamente e senza sosta dal filo fragilissimo di un egotismo ormai accettato come fondativo. Un secolo di psicoanalisi, intesa come tentativo di far convivere pacificamente principio di piacere e principio di realtà nel soggetto, viene marginalizzato e talora parodiato dall'armatura edonistica forgiatagli attorno con intensità crescente dalle tecnologie smart e dalle dinamiche dei social network.
Prende così forma una narratività compiaciuta dell'intimo, diaristica, voyeuristica più che osservativa, esibizionistica e solipsistica più che relazionale, accumulativa, ridondante, esclamativa, disinvoltamente aporetica, sospinta da una pulsione non più coercibile a esporsi e a sbirciare nelle vite degli altri, esibendo/fruendo emozioni "immediate" e storie "non costruite", rimpiazzando sempre più il verbale coll'audio-visivo o rendendo il primo un corollario del secondo, trasformando il riflessivo in simulacrale, il flusso temporale in gabbia sincronica, le volute architettoniche dell'(auto)analisi in un pathos polverizzato e sfacciatamente fluviale. Una narratività che asseconda la propensione dei social media a rimuovere il senso della mediazione, dissimulando sotto il manto dello spontaneismo la loro capacità di agire sulla comunicazione, e infine relegando tra le quinte la loro natura commerciale, che fa della speculazione sulla vendita dei dati degli utenti (anagrafe, contatti, abitudini/gusti ecc.) a società terze che li usano a fini di marketing la sua ragion d'essere. Virtualizzandosi, il reale finisce per assomigliare a una variante inconsapevole e mercificata di quell'«involucro semitrasparente che ci circonda dall'inizio della coscienza alla fine» con cui secondo Virginia Woolf coincide la vita dell'uomo contemporaneo, assegnando ai narratori il compito di «trasmettere questo spirito mutevole, sconosciuto, non circoscritto, qualunque aberrazione o complessità possa dispiegare», e suggerendo che sempre «la vera materia della narrativa è un po' diversa da quella che l'abitudine ci vorrebbe far credere» e che il senso comune o pratiche narrative consolidate e rassicuranti finiscono tacitamente per imporci.
Il narratore della contemporaneità ingaggia dunque una lotta serrata contro le continuità inconsapevoli prodotte dagli usi millenari della narrativa letteraria, contro l'ontologizzazione di ciò che in principio aveva solo valore euristico, contro l'algebrizzazione della realtà, anche a costo di portare allo scoperto dati di complessità o aberrazione che possono esporre al ridicolo se stesso e i suoi personaggi o spaesare, traumatizzare o allontanare il suo narratario. Ne troviamo esempi in Mi raccomando: tutti vestiti bene (2004) di David Sedaris, Molto forte, incredibilmente vicino (2005) di Jonathan Safran Foer e Rabbia (2007) di Palahniuk. I protagonisti di questi romanzi, come quelli di film come A.I. Intelligenza artificiale (2001) di Spielberg, Hereafter (2010) di Clint Eastwood, Moonrise Kingdom (2012) di Wes Anderson, in un contrappunto più o meno consapevole e costante con il tratto patriarcale/familistico dell'epos "moderno" (il western, William Faulkner, Ernest Hemingway, Tom Wolfe, Erskine Caldwell, John Steinbeck ecc.) e con le sue riprese contemporanee (la saga Il Padrino, [1972-1990] di Coppola, Mystic River [2003] di Eastwood, Il petroliere [2007] di Paul Thomas Anderson ecc.), nell'alveo della familiarità colloidale, esplosa e paradossale della narrativa più recente (Underworld, Le correzioni, La fortezza della solitudine, Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay, Mi raccomando: tutti vestiti bene, ma anche Onora il padre e la madre [2007]di Lumet, Libertà [2010] di Franzen o Uomini si diventa [2010] di Chabon ecc.) e di una ritrovata attrazione verso le procedure del romanzo di formazione (si pensi a Vecchi a mezzanotte [2001] di Chaim Potok, Ruggine americana [2009] di Philipp Meyer, Sunnyside [2010] di Glen David Gold, Punto Omega [2010] di DeLillo, Alta definizione [2012] di Adam Wilson, Tutto quel che è la vita, [2013] di James Salter, Grand Budapest Hotel [2014] di Wes Anderson ecc.) ci mostrano come si stia delineando un avamposto della narrativa statunitense dell'ultimo decennio che, raggiunto il limite dell'autocrazia narcisistica e nichilista dei soggetti narranti/narrati, si fa programmaticamente filiale, regressivo fino a essere fetale o addirittura presoggettivo, prenatale, prerazionale, metagenerazionale, palingenetico, con una fortissima pulsione a dissolvere ogni gabbia temporale fisicamente concepita e a tessere impensabili trame di grazia anche sugli abissi estremi del nulla. Come le poesie "romantiche" recitate da M. Gustave in Grand Budapest Hotel o il volo finale del protagonista di Birdman o L'imprevedibile virtù dell'ignoranza (2014) di Alejandro Iñárritu.

 

Pubblicato il 20/04/2014