Luigia Cavone (ADI/ SD) - Scuola–Lettura–Bene Comune

 

Partiamo da una citazione:

 

La scuola, come la vedo io, è un organo “costituzionale”. Ha la sua posizione, la sua importanza al centro di quel complesso di organi che formano la Costituzione. […]

Ora, quando vi viene in mente di domandarvi quali sono gli organi costituzionali, a tutti voi verrà naturale la risposta: sono le Camere, la Camera dei deputati, il Senato, il Presidente della Repubblica, la Magistratura: ma non vi verrà in mente di considerare fra questi organi anche la scuola, la quale invece è un organo vitale della democrazia come noi la concepiamo. Se si dovesse fare un paragone tra l’organismo costituzionale e l’organismo umano, si dovrebbe dire che la scuola corrisponde a quegli organi che nell’organismo umano hanno la funzione di creare il sangue. […]

Lo Stato non deve dire: io faccio una scuola come modello, poi il resto lo facciano gli altri. No, la scuola è aperta a tutti e se tutti vogliono frequentare la scuola di Stato, ci devono essere in tutti gli ordini di scuole, tante scuole ottime, corrispondenti ai principi posti dallo Stato, scuole pubbliche, che permettano di raccogliere tutti coloro che si rivolgono allo Stato per andare nelle sue scuole. La scuola è aperta a tutti. Lo Stato deve quindi costituire scuole ottime per ospitare tutti. Questo è scritto nell’art. 33 della Costituzione. La scuola di Stato, la scuola democratica, è una scuola che ha un carattere unitario, è la scuola di tutti, crea cittadini, non crea né cattolici, né protestanti, né marxisti. La scuola è l’espressione di un altro articolo della Costituzione, dell’art. 3: “Tutti i cittadini hanno parità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinione politica, di condizioni personali e sociali”. E l’art. 151: “Tutti i cittadini possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Di questi due articoli deve essere strumento la scuola di Stato, strumento di questa eguaglianza civica, di questo rispetto per le libertà di tutte le fedi e di tutte le opinioni. […]

Ma non bisogna lasciarsi vincere dallo scoramento. Vedete, fu detto giustamente che chi vinse la guerra del 1918 fu la scuola media italiana, perché quei ragazzi, di cui le salme sono ancora sul Carso, uscivano dalle nostre scuole e dai nostri licei e dalle nostre università. Però guardate anche durante la Liberazione e la Resistenza che cosa è accaduto. È accaduto lo stesso. Ci sono stati professori e maestri che hanno dato esempi mirabili, dal carcere al martirio. Una maestra che per lunghi anni affrontò serenamente la galera fascista è qui tra noi. E tutti noi, vecchi insegnanti abbiamo nel cuore qualche nome di nostri studenti che hanno saputo resistere alle torture, che hanno dato il sangue per la libertà d’Italia. Pensiamo a questi ragazzi nostri che uscirono dalle nostre scuole e pensando a loro, non disperiamo dell’avvenire. Siamo fedeli alla Resistenza. Bisogna, amici, continuare a difendere nelle scuole la Resistenza e la continuità della coscienza morale.[1]

 

La citazione è lunga, ma credo valga la pena soffermarsi, soprattutto nei tempi incerti che viviamo, a riconsiderare l’essenziale che «è invisibile agli occhi».[2] Le parole di Calamandrei mi sembrano quelle giuste, perché saldamente al riparo da ogni retorica propagandistica e opportunistica, per riaffermare la vera centralità della Scuola in presenza, viva e vitale sui banchi. L’insegnamento e l’apprendimento sono eventi collettivi che si sostanziano di storie e linguaggi, di sguardi e scelte responsabili; si compiono in pienezza nell’incontro anche fisico tra saperi e docenti, docenti e studenti, tra studente e studente, perché solo allora si può riconoscere ogni dimensione emotiva e reattiva, intellettuale e spirituale, politica di quei saperi. La pandemia da SARS-CoV2 è stato ed è ancora un evento inatteso e drammatico, ma anche un’occasione opportuna e favorevole (καιρός) in cui molto (ma non proprio tutto) può essere pensato di nuovo. Non certo nella prospettiva del fare tabula rasa nel nome del nuovo e attuale ad ogni costo. Bensì nel senso e nel segno del ricordare e comprendere.

La scrittura (e la lettura) letteraria ce ne può indicare il metodo:

 

Ho finito di mettere in parole quella che mi pare un’esperienza umana totale, della vita e della morte, del tempo, della morale e del divieto, della legge, un’esperienza vissuta dall’inizio alla fine attraverso il corpo. Ho cancellato l’unico senso di colpa che abbia mai provato a proposito di questo evento, che mi sia successo e non ne abbia fatto nulla. Come un dono ricevuto e sprecato. Perché al di là di tutte le ragioni sociali e psicologiche che posso trovare per quanto ho vissuto, ce n’è una di cui sono sicura più di tutte le altre: le cose mi sono accadute perché potessi renderne conto. E forse il vero scopo della mia vita è soltanto questo: che il mio corpo, le mie sensazioni e i miei pensieri diventino scrittura, qualcosa di intellegibile e di generale, la mia esistenza completamente dissolta nella vita e nella testa degli altri.[3]

 

La suggestione della lettura del racconto in chiave autobiografica e metaletteraria di Annie Ernaux (l’evento per lei è un aborto clandestino, nella Francia degli Anni ’60 del Novecento, scelto e insieme subito da una giovane donna) mi offre il destro per pensare che l’evento della pandemia, e per noi docenti della didattica a distanza, sia accaduto perché potessimo renderne conto, nel senso di renderne testimonianza e assumere la responsabilità di quanto fatto e di quanto sarà pensato e  attuato in un futuro prossimo, che ci vedrà alle prese con il perdurare di un’emergenza non solo sanitaria. Anche per questo condivido l’idea di quanti hanno proposto la convocazione di stati generali sul futuro della Scuola in Italia. Riterrei doveroso un periodo disteso di consultazione capillare e generale, senza confusione di ruoli e competenze (penso al compito importante che potrebbe svolgere in tal senso il Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione), in cui studenti e docenti, famiglie, partiti e movimenti politici, mondo dell’arte e delle imprese, poeti e pedagogisti, insieme a contadini, operai e filosofi riflettano sulla Scuola nel suo complesso. Cosa le chiediamo, come la pensiamo, a cosa dovrebbe servire. Dallo scorso settembre è in libreria il saggio di Mariapia Veladiano Oggi c’è scuola,[4] che alla vigilia della riapertura delle scuole scriveva: «La scuola è oggi, è presente perché crede nel futuro. È futuro presente». La Scuola organo costituzionale è viva se accade ora; se le rivolgiamo le domande dell’oggi perché possa portare frutti nuovi e inattesi. Le domande nostre (di noi adulti, aspiranti Maestri) e quelle dei giovani, eredi e protagonisti del ricordare e del comprendere – ognuno di essi come un Angelus Novus – in vista di un possibile superamento di quella sorta di monoteismo socio-economico cui faceva riferimento Franco Cassano nel denso e illuminato articolo La rotta del Sud[5]: «Non avrai altro sviluppo al di fuori di me!». Con larghissimo anticipo sui nostri tempi, il sociologo sottolineava che siamo debitori verso le nuove generazioni di un ampliamento di futuro e di un accrescimento di vera libertà (oggi confusa e appiattita sulla necessità di scelte non libere, che non liberano), nel segno della autonomia (che vuol dire dare regole a se stessi e questo richiede attenzione e serietà ) e nella logica, credo di poter aggiungere, della rivolta (considerata e definita un «dovere intellettuale» da Franco Antonicelli nel discorso inaugurale della Biblioteca dei Portuali a Livorno il 15 ottobre 1967).[6]  Il significato del verbo latino dal quale deriva il sostantivo rivolta[7] è anche quello di ripercorrere, ritornare e rinnovarsi e, nel riferimento ancora più specifico all’azione del leggere, vuol dire rileggere, ridire, ripensare, raccontare di nuovo. E poi, se e perché si è fatta questa operazione, giungere alla consapevole critica del sistema. Franco Antonicelli considerava, ad esempio, «libro di rivolta» Lettera a una professoressa.

 

È, dolorosamente, un insulto alle professoresse; un insulto non personale, naturalmente; un insulto che chiamerò ideologico, ma dove c’è questa dura condanna alla scuola di quei maestri che il libro definisce “custodi del lucignolo spento”.[8]

 

Da una prospettiva simile, Franco Cassano definiva il pensiero meridiano una «mossa teorica» per guardare con altri occhi la cultura dominante, nella prospettiva di un «Illuminismo progressivo»;[9] uno strumento per criticare la falsa neutralità e universalità dei modelli culturali dominanti (quelli capitalistici del libero mercato). Egli individuava alcune parole di riferimento: autonomia - lentezza – durata vs tirannia dell’urgenza/perdita della memoria/empirismo radicale – Mediterraneo – rovine vs rifiuti – misura.

Rinviando alla lettura integrale dell’intenso articolo, che consente anche di risalire al più noto saggio sul pensiero meridiano,[10] mi soffermo solo su alcune di quelle parole:

 

L’assolutizzazione della velocità produce invece una grave mutilazione o deformazione dell’esperienza e una parte di quest’ultima va perduta, oppure viene sostituita da qualcosa che porta ancora lo stesso nome, ma ne costituisce solo una terribile caricatura: l’amore più rapido è quello a pagamento, l’educazione velocizzata presuppone che la digestione del sapere possa essere compressa nel tempo; il sapere preferito è quello che risolve i problemi e lubrifica il motore; il modo più efficiente di mangiare è il fast food, che porta ognuno a farlo senza guardare in faccia gli altri, sommerso dalla solitudine e dalla fretta[11].

 

Leggere con gli studenti un articolo come questo significa chiedersi e chiedere come funzioni quel motore; e, ancor prima, di quale motore si tratti. Cassano assai opportunamente continuava:

 

Il pensiero che mira a contrastare tale tendenza non si propone di edificare un fondamentalismo della lentezza, ma di decostruire l’assolutizzazione della velocità, di rendere evidente che un reale progresso non nasce dalla totalitaria accelerazione di tutte le esperienze, ma dalla possibilità di disporre di una molteplicità di tempi, dalla capacità di vivere in una policronìa.[12]

 

Si potrebbe così tentare di invertire la drammatica tendenza di questo nostro tempo a lasciare solo rifiuti e non rovine. Il passato e il futuro, infatti, sono sempre più avvertiti come entità sospese, in certa misura patogene, e quindi finiscono per prevalere esperienze veloci nell’hic et nunc, mentre le esperienze e le scelte durevoli vengono rinviate sine die. Cito alcuni esempi relativi al nostro attuale ordinamento scolastico: l’istituzione di percorsi quadriennali di scuola secondaria di II grado; gli Esami di Stato conclusivi del secondo ciclo, periodicamente rivisitati con modalità non sempre coerenti, ormai scavalcati dai test per l’accesso ai corsi universitari a numero chiuso (programmato… verso quali obiettivi?) sempre più anticipati nei mesi in cui ancora è in corso l’ultimo anno scolastico; e ancora, la sovrapposizione “affollata” di attività inerenti i cosiddetti PCTO (Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento). Quale senso e segnale veicolano? Tra gli altri, riconosco quello di una corsa inutilmente ad ostacoli verso una meta destinata paradossalmente ad allontanarsi confusamente, anziché diventare più chiara e vicina per i giovani e le loro famiglie. Nel segno di una profonda sfiducia reciproca, per esempio tra Università e Scuola, e secondo una logica ancora una volta economicistica, dall’alto della quale si pretenderebbe di salvare e adeguare la Scuola, e l’Università, ma anche gli assetti statali e persino nostra madre Terra! Anche su questi aspetti gli stati generali della Scuola, cui accennavo, potrebbero rivelarsi utili e, per fare solo un altro esempio, provare ad attribuire un senso più chiaro alla reintroduzione dell’insegnamento dell’Educazione Civica, evitando di trasformarlo nel surrogato di discipline, Diritto e in qualche caso Economia, non previste negli ordinamenti disciplinari di numerose tipologie di scuola superiore di II grado e, forse, non direttamente utili a formare cittadini consapevoli e liberi.

 

Un luogo e un’idea: MEDITERRANEO, occasione di futuro

Ci stiamo dentro. L’Italia tutta. Tanta parte della letteratura e delle nostre letture ce lo ricorda, da Pirandello e Montale a Carlo Levi, Bassani e Morante sino a Pamuk e Leogrande (solo per citare in ordine sparso alcuni nomi del Novecento e degli Anni Duemila). E non nel senso della risentita nostalgia di un passato importante, superato e vinto dalla forza di nuove forme di potere, atlantico e settentrionale (Cassano); bensì nel segno della frontiera che delimita e nel contempo attende di essere varcata.

 

Sul Mediterraneo non si va a cercare la pienezza di un’origine, ma a sperimentare la propria contingenza. Esso illustra il limite dell’Europa e dell’Occidente. È sul Mediterraneo che il mondo del Nord-Ovest incontra il Sud-Est. Ma prendere coscienza di questo contatto delicato e complesso, richiede un modo preciso di guardare il passato, nel quale gli sbarchi degli invasori, le conversioni e le stragi si riscattano nella costruzione di una nuova koiné. Il Mediterraneo è un pluriverso irriducibile, e il suo valore sta proprio in questa irriducibile molteplicità e intersezione delle voci, nessuna delle quali può soffocare l’altra. […] Il nostro “noi” è pieno di altri.[13]

 

Quattro anni dopo Cassano, Alessandro Leogrande rievocava l’immagine reale e approfondiva il valore anche simbolico della frontiera nel testo - saggistico e narrativo insieme - La frontiera.[14] Una delle chiavi di lettura che lo ispirava è esplicitata dall’autore nella parte conclusiva: i viaggiatori, in particolare i protagonisti di viaggi drammatici, imposti dalla miseria e dalle violenze delle guerre, che sanno bene cosa siano dolore e morte, hanno necessità di incontrare altri viaggiatori per continuare a vivere. Infatti, solo un altro viaggiatore può comprendere il senso profondo dei loro racconti. Restare fermi sulla riva non aiuta; occorre «ascoltare le storie di chi ha voglia di raccontarle, come hanno fatto altri viaggiatori fin dalla notte dei tempi»[15].

Anche da qui deriverebbero gli impegni per la giustizia, che riequilibri diseguaglianze sfacciate e non più tollerabili (pandemia e vaccini riservati a ricche minoranze nel mondo docent); la denuncia «dell’epica della rincorsa» a vantaggio della misura e dell’equilibrio. Giustizia e molteplicità di forme di vita devono coesistere grazie ad un lavoro di costruzione e ricostruzione, destinato a non finire mai, nel segno del

 

BENE COMUNE

Lo abbiamo nel nostro DNA politico. Nella Costituzione della Repubblica Italiana l’articolo 3 sancisce:

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

 

Alla Costituzione sembra fare eco uno dei più importanti documenti del Concilio Vaticano II, la Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et Spes:

 

Dall’interdipendenza sempre più stretta a poco a poco estesa al mondo intero deriva che il bene comune – cioè l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono ai gruppi, come ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione in maniera più piena e agevole – oggi diventa sempre più universale, investendo diritti e doveri, che riguardano l’intero genere umano. Pertanto ogni gruppo deve tener conto dei bisogni e delle legittime aspirazioni degli altri gruppi, anzi del bene comune dell’intera famiglia umana.[16]

 

La lettura e lo studio di testi e testimonianze importanti nella storia europea ed italiana, d’altronde, consentono di apprendere e comprendere che le tracce di un’idea di bene comune sono senza dubbio antiche e molteplici; esse attendono di poter ancora offrire linfa vitale alle coscienze di individui e società. Ne cito solo due, lontani tra loro ma idealmente convergenti.

Il primo è tratto dalla tragedia greca Le Fenicie di Euripide (V secolo a.C.). L’irreversibile conflitto tra Eteocle e Polinice, figli di Edipo e Giocasta, determina la guerra tra Tebe e Argo. Il sacerdote Tiresia profetizza che la vittoria sarà dei tebani a patto che venga offerto in sacrificio ad Ares il giovane Meneceo, figlio di Creonte, fratello di Giocasta e re di Tebe. Il padre si rifiuta di acconsentire e incoraggia Meneceo a lasciare la città per mettere in salvo la propria vita: Creonte gli garantirà protezione e risorse. Il giovane, in un drammatico dialogo libera dal timore l’animo del padre promettendo che gli obbedirà, ma poi, rimasto da solo con il Coro delle Fenicie, dice:

 

Donne, sono riuscito molto bene a togliere a mio padre ogni timore. […]

È un vecchio, e si può anche perdonare, ma a me chi lo perdona di farmi traditore della patria da cui sono nato? […]

E ora addio! Mi avvio a fare il dono della mia morte alla città, un dono che non sarà inglorioso, e monderà questa terra del male che l’opprime. Se ciascuno, guardando a quel che può dare di bene, l’offrisse alla patria per l’utile comune, le città potrebbero evitare molti mali e avere anche una sorte migliore.[17]

 

Il finale infausto della vicenda non toglie valore e senso al sacrificio di Meneceo; lo arricchisce piuttosto di ulteriori potenzialità.

Il secondo testo ci porta a Genova, il 24 giugno 1857. Carlo Pisacane, vicino agli ideali mazziniani e rivoluzionari usciti sconfitti dalle vicende del nostro Risorgimento, alla vigilia della partenza per la spedizione che gli sarebbe costata la vita, lascia scritto nel suo testamento politico un importante e mai eludibile appello alla responsabilità individuale:

 

Vi sono delle persone che dicono: la rivoluzione deve essere fatta dal paese. Ciò è incontestabile. Ma il paese è composto di individui, e se attendessero tranquillamente il giorno della rivoluzione senza prepararla con la cospirazione, la rivoluzione non scoppierebbe mai. Se al contrario tutti dicessero: la rivoluzione deve farsi dal paese e siccome io sono parte infinitesimale del paese, così ho io pure la mia parte infinitesimale di dovere da adempiere, e l’adempisse, la rivoluzione sarebbe fatta immediatamente e riuscirebbe invincibile perché immensa.[18]

 

E il pensiero corre alle lettere dei condannati a morte (moltissimi ragazzi o poco più) della Resistenza italiana ed europea,[19] solo per fare ancora un altro straordinario esempio, al quale, nel dialogo vitale tra certo e vero, tra storia, narrazione e scrittura, si può accostare un romanzo come quello di Renata Viganò L’Agnese va a morire,[20] intensa e appassionata ricostruzione di luoghi e fatti, volti e nomi della rivolta partigiana. Vivere la Scuola come ‘organo costituzionale’ (Calamandrei) penso voglia dire anche operare scelte, non sempre comode né accomodanti, di percorsi coerenti di lettura e letture, con l’obiettivo che idee, immagini e parole penetrino in profondità nel pensiero e nei sentimenti dei giovani, e degli adulti che con loro entrano in relazione, sostino per il tempo necessario e poi, quando giunge il momento, risuonino rinnovate perché veramente ereditate, cioè accolte e fatte proprie da e per ognuno.

In tale prospettiva si può riconoscere anche il senso della lettura di un’opera che merita di essere riscoperta nell’ambito di un capitolo fondamentale della nostra storia anche letteraria, quello dedicato all’Illuminismo europeo e italiano, nel caso specifico napoletano:

 

La Logica per i giovanetti del sig. Abbate Antonio Genovesi [21]

L’Autore dedica l’opera ai giovani con un autentico senso del futuro (inteso come l’orizzonte della crescita individuale e sociale), e offre loro gli strumenti per costruire un sapere che dia forma e spessore alla vita, aiutando a scoprirne i significati possibili, gli orientamenti e le responsabilità. Osserva Roberto Mancini:

 

Bisogna capire, infatti, che egli si rivolge ai giovani non nell’ottica paternalista che porta a giudicarli inesperti e bisognosi di indottrinamento, bensì con lo sguardo di chi sa che il giovane è colui che deve fare delle scelte decisive per il futuro e che così contribuisce alla rigenerazione della società.[22]

 

L’opera, divisa in un proemio e cinque libri (Dell’Emendatrice – Dell’Inventrice – Della giudicatrice – Dell’arte ragionatrice – Dell’ordinatrice) e composta entro il dicembre 1765, non può essere considerata alla stregua di un manuale di tecnica del ragionamento e dell’argomentazione orale e scritta. È molto di più, come si può intendere ad ogni capoverso del testo. Per esempio, nel libro V si legge:

 

Tutto è connesso in questo mondo: non vi è perciò cognizione di veruna cosa al mondo che non ci interessi. La metafisica, tutte le scienze fisiche, il calcolo, tutte le parti della geometria e ogni altra scienza contemplatrice, può farci come il più gran bene, così il più gran male secondoché ella sia bene o male maneggiata.[23]

 

L’Illuminismo meridionale dell’abate Genovesi apre la strada all’importante e non ancora esaurito tema della relazionalità universale nella vita come nella società. In siffatta prospettiva l’Autore torna spesso sulla scelta tra bene e male, riconosciuti e affermati non secondo criteri esclusivamente morali, bensì nei modi e con le immagini delle forze fisiche. Infatti l’autore spiega:

 

Sono nel cuore umano, siccome in tutte le sostanze di questo mondo, due forze opposte fra loro. I fisici chiamano quelle centipetra e centrifuga: io chiamerò queste concentriva e diffusiva. Per la forza concentriva (l’amor di noi medesimi) vogliam tutto trarre a noi: per la vita diffusiva tutto dare agli altri. Ciascuna di queste forze, dove opera sola, destrugge l’uomo. La sola concentriva il distacca dalla specie e l’assola; e l’uomo è un animale che non può viver solo. La sola diffusiva lo distacca da sé e l’anienta. Quanti si sacrificano per i figli, per gli amici, per la patria? Quanti per misericordia di qualche infelice per amore? Dunque la felicità dell’uomo è posta nell’armonia di quelle due forze.[24]

 

E prosegue, a proposito dell’economia e della politica:

 

Quella insegna a conoscere il loro Paese e le arti che possono arricchirlo; questa a regolarlo di dentro e di fuori in modo che possa vivere tranquillo e felice. […]

Il primo principio della buona politica è questo: LA POLITICA NON DEE FARE SCHIAVI. Perché la schiavitù spopola e avvilisce; e la politica vuol popolare e dare dello spirito al corpo civile affinché possa avere la massima possibile robustezza e azione. […]

Il secondo principio è: LA POLITICA DEE FAR UOMINI. […]

Il terzo principio della politica è: LA POLITICA DEE DI TUTTE LE PERSONE CHE COMPONGONO LO STATO FARE UN CORPO IL PIÚ DENSO E STRETTO CHE SIA POSSIBILE.[25]

 

Nel III libro Genovesi riconosce e afferma l’importanza dell’ermeneutica; la riferisce innanzitutto ai libri e alla lettura, allargandola poi all’arte di capire bene le cose: «Che si evitino i giudizi troppo frettolosi e precipitevoli, che fanno vedere quel che non è e non vedere quel che è».[26] E la sua consapevolezza della complessità della conoscenza è resa evidente nella valorizzazione della prospettiva e coscienza storica, sulla quale insiste:

 

Come il sapere d’ogni uomo è composto di scienza e di fede, così è fuor di ogni controversia che niun uomo in niun mestiere può esser grand’uomo senza conoscimento alcuno di storia, e principalmente quella naturale: perché niuno può esser gran testa senza molte idee né molte idee si hanno senza storia. Dunque ogni uomo il quale non sia per niente versato in quei tre generi d’istoria debba aver mente corta, bassa, puerile.[27]

 

Insomma, la riflessione di Genovesi si muove sui terreni dell’epistemologia, dell’etica, dell’economia e della politica, dell’educazione e della teologia seguendo «la logica della vita con spirito di integrità, tenendosi ben lontano dallo specialismo astratto e autoreferenziale» (Mancini). Esemplari sono, a riguardo, le osservazioni a proposito della metafisica e della teologia:

 

La metafisica e la teologia debbano adunque studiarsi a rappresentarci la divinità e l’ordine che tiene nel governo di questo mondo per quell’aspetto che può meglio riempirci di virtù, cioè d’amore per il supremo essere e padre di benevolenza per il genere umano, di temperanza in noi medesimi, di fortezza in mezzo ai mali, di speranza nell’esercizio della virtù, di timore all’aspetto dei vizi, di moderazione nell’uso dei beni, di placidezza, di affidabilità, urbanità, pazienza nel tratto; finalmente per quell’aspetto che più o meglio ci unisce e fra noi e con il Sovrano del mondo. Allora queste scienze fanno la felicità degli uomini. […]

Ma se elle operano per il rovescio introducendo opposte divinità o false, rappresentandoci Dio come nemico degli uomini che si delizia nella nostra miseria […] generando sospetti, odi, guerre, persecuzioni e a questo modo disodiando gli uomini, si potrebbe immaginare un veleno più atroce e una più gran causa di mali e di distruzione? Di tanta importanza è adunque il come queste scienze si maneggino.[28]

 

Le considerazioni che la lettura dell’opera ispira sono davvero tante e in questa sede non è possibile neppure evocarle tutte.[29] Mi sembra importante, tuttavia, riconoscere alla base della sua riflessione una questione molto vicina e sentita dai docenti di lingua e letteratura italiana, esattamente quella della lingua. Infatti, nella Nota introduttiva – Al gentile LEGGITORE e amante di sapere – l’Abate scrive:

Finché le scienze non parleranno che una lingua ignota alle nostre madri e balie non è da sperare che il nostro gentil paese, nato a far teste, non si vegga rozzo, squallido, vile, e servo degli stranieri. Se la lingua, in cui si è allevato, è madre, ogni forestiera debba esser matrigna; e le matrigne si curano assai poco dei loro figliastri. Si dirà senza dubbio che la latina è madre della italiana; e che non essendo ancora emancipata la figlia, l’educazione s’appartenga a lei. A questo modo si dovrà devolvere alla avola, che è la Grecia, potendosi di leggieri dimostrare che neppure la latina siasi emancipata, o si possa, dalla Grecia. Questo non pruova, se non che i dottori delle scienze debbano esser ben versati in quelle lingue madre, avola e bisavola, perché l’italiana ne è piena e se ne va riempiendo ogni giorno come la latina era piena di grecismo e la Grecia di parole e frasi orientali; ma sarà egli poi vero che non si possa né debba far sentire ai popoli italiani la forza delle utili conoscenze in quei suoni che loro son naturali?

 

Come non far rifluire questo discorso nel percorso storico della questione della lingua da Dante sino a Pasolini e oltre? E come non condividere sul piano culturale e didattico la questione linguistica nei vari ambiti disciplinari? Un esempio recentissimo può costituire un ulteriore spunto operativo e di riflessione: nel Febbraio 2021 Alessandro De Angelis ha pubblicato i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (1638) di Galileo Galilei per il lettore moderno.[30] Uno strumento assai utile per condurre gli studenti del quarto anno di scuola secondaria di secondo grado in una esperienza di lettura comparata e analisi linguistica non solo tra il testo originario e quello trascritto e ammodernato nell’italiano di oggi, ma anche tra i vettori linguistici, di conoscenza e di senso (De Angelis) negli ambiti storico-letterario-filosofico-artistico e scientifico. In un tempo – il XVII secolo – significativamente vicino al XX come, bene e da tempo, ha spiegato Romano Luperini.

 

Scuola – Lettura – Bene Comune nelle città sognate

Penso sia coerente e utile affidare la conclusione di queste riflessioni, e proposte di lettura, ad uno sguardo diverso e rinnovato dal e sul Sud nella nostra letteratura italiana. È recentissimo il bel saggio di Giuseppe Lupo La Storia senza redenzione.[31] L’autore ripercorre gli ultimi due secoli di storia, di scrittura letteraria meridionale e della interpretazione critica di essa, da Verga e De Roberto a Tomasi di Lampedusa, Nigro e Saviano (sono solo alcuni dei tanti nomi considerati dall’autore). Il giudizio è severo, ma non privo di speranza:

 

Il problema è di scelta ideologica, riguarda cioè la maniera di porsi nei confronti della materia da raccontare e degli obiettivi da raggiungere. Finché si trattava di manifestare un disagio individuale o collettivo, di mettere a nudo le inadempienze, di gridare torti e soprusi, gli scrittori legati al Meridione hanno svolto il compito che si erano assegnati dando prova di essere perfetti testimoni di una precaria condizione umana. Ma il discorso a questo punto non attiene più alla dimensione di non-storia o agli slanci rivoluzionari. Semmai coinvolge gli aspetti somatici della scrittura stessa: ratificare una situazione (e quindi accontentarsi di fare cronaca) oppure lanciarsi nella ricerca di una modernità alternativa al presente, posta sul crinale tra memoria e profezia. Consiste, in altre parole, nell’accettare il ruolo di scriba o avventurarsi nell’azzardo di edificare la polis. […]

Catturati dal bisogno spasmodico di notificare, gli scrittori dimenticano che il Mezzogiorno non è soltanto il mondo oscuro della corruzione e del male, della sporcizia e dell’abuso, ma un territorio dove fa tappa il razionalismo della Storia come ragione del moderno. Questo limite sancisce, a mio avviso, il fallimento dell’intellettualismo meridionale, provocando una sorta di rapporto controverso con la Storia a cui reagire in due modi: o negarla o fuggire nell’utopia.[32]

 

Per Lupo l’utopia è il «sogno della Storia, storia del mondo che verrà»[33] e in questa direzione egli recupera e rilancia lo sguardo propositivo di Elio Vittorini, in particolare nel romanzo Le città del mondo.[34] Quattro coppie di personaggi percorrono le strade della Sicilia seguendo itinerari diversi ma convergenti. La posta in gioco è altissima: riconoscere nelle città e nelle persone i tratti della Città dell’Uomo e degli Uomini.  Il viaggio è faticoso, a tratti inquietante o incomprensibile, fa paura e fa gioire nell’allucinazione o nella speranza, mentre le tracce del cammino si sovrappongono e si rincorrono nella fatica di una ripida salita o nella corsa di una discesa a precipizio. Uno dei protagonisti e testimoni più significativi del romanzo[35] è ancora una volta un giovane, Rosario, un pastore. Con il padre costituisce la prima delle quattro coppie protagoniste del viaggio e a lui l’autore affida il compito e la cura della profezia. Giungono a Scicli (Ragusa):

 

Egli disse infine della città che avevano sotto gli occhi. A giudicare da com’era bella bisognava che la gente vi fosse straordinaria. Egli lo scommetteva. E andò oltre ogni limite di quanto padre e figlio si fossero detto mai, per dire della vita straordinaria che vi si doveva vivere… - Qui ciascuno dev’essere come se fosse un re o un barone. Con tutti che lo chiamano Vossignoria. Con nessuno che può dargli del tu e trattarlo male. Con nemmeno il maresciallo che lo possa sgridare e insultare. Con niente che sia costretto a fare per paura. Invitato alle feste di ogni casa. Accolto dovunque voglia entrare. Con ogni ragazza che lo può prendere per marito anche se è un povero capraio. E poi con un cavallo che può montare invece d’un asino o un mulo, proprio come un re che cavalca anche se è solo un contadino che si reca a zappare… Rosario non si curava più di trattenere la mano del padre. Questi perciò aveva potuto ritirarla, e ora accadde che l’alzò e si strappò di testa il berretto. - Basta! – gridò insieme. E buttò il berretto per terra. – Ma papà… esclamò il ragazzo. – Ma babbo… - Lo guardava con gli occhi pieni della voglia di scoppiare a ridere, e tuttavia anche un po’ sconcertato vedendo che era rosso come quando si arrabbiava sul serio. Si chinò, sempre guardandolo, a raccoglierli il berretto, e disse di nuovo: - Ma babbo… - Poi scrollò il berretto, e lo sbatté, e disse: - Ma insomma… - Poi disse: - Ma che ho detto? – Né si lasciò intimidire da un movimento di stizza che il padre riaccennava. Stava lui pure arrossendo. – Una città non nasce come un cardo, - disse. – O sono gli angioletti che vengono a posarla su una collina? – Aveva ancora gli occhi che volevano ridere, ma la sua voce si alzava sempre di più e diventava stridula. Disse che dunque non era per combinazione se Enna era la nobile Enna e Licata era schifosa. – Che diamine! -. disse. Tutto dipendeva dal modo in cui la gente viveva. […]

Non ho proprio detto, - concluse, - nessuna sciocchezza. E allungò al padre il berretto; con le guance ormai rosse come di bandiere che gli sventolassero dentro.[36]

 

Scrittura e lettura come dovere etico che consenta di unire le due azioni indicate nella prima di queste pagine, ricordare e comprendere, con lo sguardo innalzato verso mete di profezia e di bellezza, per tutti.

 

 

15 febbraio 2022

 


[1] PIERO CALAMANDREI, Discorso al III Congresso dell’Associazione a Difesa della Scuola Nazionale (ADSN), Roma 11 febbraio 1950.

[2] ANTOINE DE SAINT-EXUPÉRY, Il piccolo principe, Milano, Bompiani, 1993, p. 98.

[3] ANNIE ERNAUX, L’evento, Roma, L’orma editore, 2019, p. 110.

[4] MARIAPIA VELADIANO, Oggi c’è scuola, Milano, Solferino, 2021, p. 119.

[5] FRANCO CASSANO, La rotta del Sud. Per spostare il centro del mondo, sta in Lettera internazionale, 108/2011, pp. 2-8. L’articolo è tratto dal testo della conferenza tenuta dall’autore il 20 gennaio 2011 presso l’Istituto Italiano di Cultura a Berlino “Il mondo visto da sud – Die Welt vom Süden aus gesehen: Das mediterrane Denken”.

[6] FRANCO ANTONICELLI, Le letture tendenziose, Roma, edizioni e/o, 2021, p.69.

[7] Dal latino VOLVO – VOLVI – VOLUTUM – VOLVERE (e anche REVOLVO).

[8] F. ANTONICELLI, ivi, p. 69.

[9] THEODOR W. ADORNO, Minima moralia, Torino, Einaudi, 1994, pp. 229-230.

[10] FRANCO CASSANO, Il pensiero meridiano, Roma-Bari, Laterza, 1996.

[11] F. CASSANO, La rotta del Sud, cit., p. 3.

[12] F. CASSANO, ivi, pp. 3-4.

[13] F. CASSANO, ivi, p. 5.

[14] ALESSANDRO LEOGRANDE, La frontiera, Milano, Feltrinelli, 2015.

[15] A. LEOGRANDE, ivi, p. 313.

[16] ENRICO CHIAVACCI (a cura di), Gaudium et Spes, Roma, Studium, 1967, n° 26, p. 105.

[17] EURIPIDE, Le Fenicie, terzo episodio (traduzione di C. Diano) in Il teatro greco, Firenze, Sansoni, 1975, p.900.

[18] ALESSANDRO LEOGRANDE (a cura e con un saggio di), L’altro Risorgimento. Carlo Pisacane, Szczecin, edizioni dell’asino, 2017, p.53. Nel saggio Leogrande ripropone passi tratti da La rivoluzione di Carlo Pisacane e da Carlo Pisacane nel risorgimento italiano di Nello Rosselli, fratello di Carlo Rosselli ucciso in Francia nel 1937 da sicari fascisti. Non a caso: l’autore ricorda infatti che la vicenda personale, intellettuale e politica di Pisacane (1818-1857) fu fonte di riflessione e di ispirazione per tanti partigiani italiani.

[19] Le si può leggere nell’edizione a cura di P. Malvezzi e G. Pirelli, con nota introduttiva di G. Zagrebelsky, Torino, Einaudi, 2002.

[20] Utilissima l’edizione: RENATA VIGANÒ, L’Agnese va a morire, Prefazione e note di S. Vassalli, Torino, Einaudi, 1974. Nel gennaio 2020, alla vigilia inconsapevole del primo confinamento causato dalla pandemia da SARS-CoV2, condividevo in aula con i miei studenti liceali del quarto anno la lettura integrale di questo romanzo del 1949, provando anche a riconoscervi le tracce della stagione del neorealismo italiano. La mattina del 25 aprile del 2020, non più in aula ma da remoto su GMeet, ne ripercorrevo le pagine con quegli stessi studenti e molti dei loro genitori, in una sorta di liturgia laica alla ricerca di possibilità di resistenza e speranza.

[21] ANTONIO GENOVESI, Castiglione del Genovesi 1713 – Napoli 1769. Titolare della prima cattedra di Economia civile in Europa, abate e insegnante.

[22] ROBERTO MANCINI, Antonio Genovesi e la logica della vita, in RICCARDO MILANO (a cura di), La logica del bene comune, Verona, Gabrielli editori, 2020, pp. XXV-XXXI.

[23] ANTONIO GENOVESI, La logica per i giovanetti del sig. Abbate A. Genovesi, V, V, IX, Verona, Gabrielli editori, 2020, p. 203.

[24] A. GENOVESI, ivi, V, IV, XXXIV, pp. 213-214.

[25] A. GENOVESI ivi, V, IV, XLIX-LV, pp.220-222.

[26] A. GENOVESI ivi, III, I, IV, p. 85.

[27] A. GENOVESI Ivi, III, IV, VI, p.97.

[28] A. GENOVESI Ivi, V, V, XII, p. 204.

[29] La lettura della Logichetta potrebbe costituire un filo rosso interdisciplinare di un intero anno scolastico, per esempio il quarto di scuola secondaria di II grado.

[30] ALESSANDRO DE ANGELIS, Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze. Di Galileo Galilei. Per il lettore moderno, Torino, Codice edizioni, 2021. L’autore è docente di Fisica Sperimentale presso le Università di Padova e Lisbona.

[31] GIUSEPPE LUPO, La Storia senza redenzione. Il racconto del Mezzogiorno lungo due secoli, Catanzaro, Rubbettino, 2021. L’autore, scrittore, insegna Letteratura Italiana Contemporanea presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

[32] G. LUPO, ivi, pp. 21-22.

[33] G. LUPO, ivi, p. 268.

[34] ELIO VITTORINI, Le città del mondo, Torino, Einaudi, 1969.

[35] Non compiuto dall’autore e pubblicato prima per frammenti su riviste negli anni Cinquanta del ‘900 e poi, in modo unitario, postumo nel 1969.

[36] E. VITTORINI, ivi, pp. 17-18.