Giorgia Delsoldato - Spartenze e chemineaux o la strada come intervento, come destino

 

 

In questo scritto si parla di partenze che segnano destini, di cammini e di strade, di opere e di biografie, interrogando le ragioni, gli snodi e le forze che preparano e votano al cambiamento, radicale, iniziatico e definitivo. Come? Percorrendo vite immersi nella letteratura contemporanea, nelle sue interpretazioni e vicinanze, vicini a persone – personaggi – eroi che lo incarnano e lo connotano nel modo di pensare e di agire. Nomi e cognomi, atti e parole che entrano nel nostro potere d’immaginazione senza bisogno di evocarli, cui possiamo sentire di assomigliare senza manipolazioni, con i tratti che ci caratterizzano e i caratteri che ci contraddistinguono, con le radici di cui siamo portatori, i legami e le identità che ci riconosciamo; con la paura di pronunciare parole sconosciute e lontane, come cammino, come destino.

Può essere auspicabile in particolare per una classe di ragazzi del terzo millennio agli ultimi anni di scuola superiore vivere insieme questa paura, scoperchiare il mito, appropriarsene, nutrirsene, rimanendo consapevolmente sganciati da qualsiasi cornice teleologica e dentro una sfera di dialogo aperta nella dimensione interculturale, forti del fatto di stare nella poesia, nel cinema e nelle vite di donne e uomini in carne ed ossa.

Cominciando, se si vuole, con un dilemma.

C’è fin dall’inizio in alcuni esseri umani qualcosa che si accumula e ad un certo punto di saturazione spinge inesorabilmente a cambiare strada, a cambiare vita? O, invece, accade all’improvviso un fatto estemporaneo che inaspettatamente e radicalmente fa prendere la decisione di rifiutare lo status quo e migrare verso l’altrove?

Oppure, ancora, si tratta di una combinazione particolare, dal tempismo fortuito e preciso, tra le due leve, una predisposizione innata e una congiuntura puntuale, che innesca la scintilla definitiva?

Pensare ad una predisposizione innata aiuterebbe a rendere conto dell’entità del cambiamento e soprattutto della natura della rivolta necessaria a compierlo. L’evento estemporaneo potrebbe in ogni caso aggiungere elementi circa il carattere definitivo e finanche irreversibile della decisione messa in atto. 

Un carattere-destino, ad esempio, per restare nel paradigma innatista, come lo evoca Solmi nel Saggio su Rimbaud,[1] aiuterebbe moltissimo e di fatto permette di arrivare alla versione più elegante del nostro bisogno di immedesimarci e capire chi si rivolta davvero e cambia la propria vita per sempre.

Resta un alone di mistero attorno a chi smette di restare mentre pensa di partire, e invece parte.

Se esiste una poetica del cambiamento, nella sua simbologia, un topos costitutivo è senz’altro la partenza.

La partenza è già un cambiamento in sé e al tempo stesso predispone ed espone al cambiamento, incarnandone il movimento e le conseguenze. È una decisione concreta, fisica, che interagisce con la dimensione del tempo e dello spazio, provocando una scissione, una cesura, una fine e un inizio.

Parliamo di partenza definitiva, assoluta, senza ritorno o senza tornare indietro, che stabilisce l’impossibilità di alterare la differenza tra il prima e il dopo.

Che cosa spinge ad una partenza assoluta?

Alberga nell’uomo la lotta tra istinti contrari di continuità e cambiamento. Persino nella partenza e con la partenza si cercano punti di riferimento, si forgiano piccole abitudini, si adottano rituali quotidiani, e i pensieri appena nuovi cominciano molto presto a ricorrere.

La partenza è l’atto creativo del viaggio, che si staglia tra separazione e incertezza, tra un addio certo e un incognito domani.

 

I

 

Il 10 marzo 1947 io e tutta la mia famiglia lasciammo la bella Italia: la prima attraversata a trentotto anni di età, lasciando la misera e cruda terra siciliana per andare nei Stati Uniti d’America il giorno 12 marzo 1947, distaccandomi dalla mia famiglia, lasciando i miei amorosi genitori, fratelli e figlio, colpendomi fortemente il dolore della mia mamma e figlio, con un cuore straziande che non voleva distaccarsi da me, con le lacrimi che le regavano la faccia.[2]

 

La spartenza, con «la s- ulteriormente separativa di un sostantivo che indica separazione»[3] è il titolo del libro autobiografico di Tommaso Bordonaro, nato a Bolognetta, paesino in provincia di Palermo nel 1909, emigrato negli Stati Uniti nel 1947 in cerca di una vita diversa per sé e i suoi figli, anche se, com’egli dichiara, in Italia non gli mancava niente poiché apparteneva alla classe borghese.[4] Al di là dell’interesse intrinseco di questo diario-testimonianza che Mengaldo inserisce nella sua antologia come esempio di italiano cosiddetto popolare o dei semi-colti, il titolo colpisce per la spontaneità con cui il protagonista si impossessa della parola, caricandola visceralmente del corpo del suo vissuto, con il risultato di umanizzarla fino all’estremo, di renderla universale e iconica.

 

Link_1_ Bordonaro

 

Nel presente scritto si parla di spartenze, senza che volgere al plurale questo sostantivo posseduto dal portatore possa in nessun modo scarnificarlo o disanimarlo, anzi. Ci occupiamo di una spartenza dopo l’altra, umanissimamente, come spettatori empatici e ferventi, alla ricerca, proprio, di una ecologia della (s)partenza.

 

Il viaggio assume su di sé le valenze epiche del coraggio, della tenacia, della forza d’animo, della solitudine incommensurabile, tipiche dell’eroe o dell’antieroe, secondo le visioni del mondo. E, sfidando il tempo comune e mortale, cattura la dimensione della memoria: fin dal principio si colora dell’aggettivo indimenticabile.

Nutriti nella nostra identità materiale dai viaggi omerici e come lui in primis dal viaggio virgiliano, qui rievocati senza nessuna inclinazione all’attualizzazione, abbiamo per secoli seguito Dante nell’inferno della sua persona, in quello del suo personaggio, della sua città e del suo tempo, ma soprattutto nel suo viaggio che ha tracciato per sempre la rotta di chi parte senza sapere, di chi da se stesso è costretto ad una partenza assoluta, come purgatorio o liberazione, come fine o come inizio, come condanna, o come speranza sublime e umana, terrena e celeste insieme.

Nel solco di questa grande tradizione poetica, possiamo definire la partenza come un atto politico. Lo è per Enea, che ri-fonderà in un altro luogo la ‘polis’ perduta; lo è per Dante, che cerca la ‘città di Dio’, da contrapporre a quella degli uomini. Il viaggio può essere la fuga dalla pervasività di un potere che non necessariamente ha il volto dispotico del tiranno, ma quello anonimo e massificante della folla, che Alexis de Toqueville ha descritto già nei primi decenni dell’Ottocento.

 

Inviato dal governo francese negli Stati Uniti per studiarne il sistema penitenziario, Tocqueville osserva la nascente democrazia americana e vi intravede quella dittatura morbida della maggioranza che non si impone con la forza, ma con l’omologazione dei pensieri e dei comportamenti. In De la Démocratie en Amérique, apparso in due volumi nel 1835 e nel 1840, opera capitale del pensiero politico ottocentesco, Toqueville traccia i natali, i fatti e le derive delle moderne democrazie, quasi antivedendone il destino.

 

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A poco più di trent’anni dalle testimonianze di Toqueville vive Rimbaud il malaise etico e sociale che, come Ivos Margoni[5] riconosce, si pone alla base della presa di coscienza del poeta e degli artisti e intellettuali suoi contemporanei della nuova società borghese e industriale, che nega ogni spazio a chi non si è immesso nell’ingranaggio produttivo di beni materiali, imperniato sulla logica del profitto, che la scienza e la tecnica contemporanee hanno abbracciato.

In una delle ultime Illuminations, considerate l’opera finale del poeta e il suo capolavoro (Solmi, p. 95), Démocratie, la prosa è virgolettata - a differenza di tutte le altre della raccolta, e dà voce allo sdegno senza più speranza nei confronti del mostruoso sfruttamento industriale e militare che riduce in condizioni estreme i paesi poveri e massacra quelle che il poeta chiama «le rivolte logiche», lascia gli uomini ignoranti rispetto alla scienza, avidi e furbi nella ricerca dei vantaggi materiali. Tutti intruppati, come ingenui soldati in marcia, verso un destino di morte.

 

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Nel carattere-destino di Rimbaud c’è la sua ricerca di un mondo incontaminato in grado di restituire la purezza e l’incanto della prima infanzia, c’è lo spirito comunardo forte, ispido, autentico, rimasto nelle istanze riversate sulle carte anche dopo averlo archiviato e separato dal corpo dell’esistenza. C’è l’odio beffardo e pungente per le proprie origini di provincia, ma una nostalgia incurabile per le mura del giardino chiuso dei giochi antichi; il rifiuto dell’austera e rigida vita borghese della famiglia e il richiamo del suo primo costume di enfant prodige d’élite, diligente e desideroso di riconoscimenti codificati. C’è, infine, la drammaticità di relazioni umane fragili che rispecchiano la fragilità instabile del poeta-comunardo-mercante sulle rotte d’Africa, nel suo viaggio accanito eterno e irreversibile.

 

Importanti suggestioni ci vengono ancora dalle pagine di Sergio Solmi nel Saggio su Rimbaud:

           

«Alla radice della vita – e della poesia – di Rimbaud, c’è qualcosa che può definirsi una crisi di adattamento, e ne costituisce insieme, il segreto e la chiave. Sulle soglie dell’adolescenza, al momento della separazione dell’io dal mondo e della loro immancabile opposizione, in luogo dei faticosi ma salutari compromessi, dev’essersi compiuta, per lui, una frattura insanabile». (p.3).

 

Bellissima, intensa e intensamente letteraria l’esperienza di lettura del saggio del grande critico (1899-1981), che pone e indaga il tema della crisi di adattamento del poeta adolescente alla realtà circostante nel momento cruciale del compimento della formazione della propria identità, crisi che determina una frattura insanabile, un allontanamento definitivo che qualche decennio dopo si sarebbe chiamato esistenziale. Questo divario intimo irriducibile tra sé e il proprio universo familiare e sociale, in contrasto con il legame assoluto del poeta di Charleville con i luoghi e i riti della sua infanzia, suo Eden perduto, è compreso quale fattore chiave per la genesi  della sua poesia.

 

Cogliendo il nesso profondo tra la frattura (l’allontanamento e, in ultima istanza, la partenza) e la poetica di Rimbaud, Solmi richiama alcuni passaggi fondamentali delle due «lettres du voyant» del 13 e 15 maggio 1871: il poeta in quanto tale era chiamato a definire «la quantité d’inconnu s’éveillant en son temps en l’âme universelle» per mezzo di un sistematico e attivo «dérèglement» di tutti i sensi, capace di provocare un’estasi visionaria, che, come Solmi torna a dire (p.13), fa ricordare i procedimenti dei mistici.

Consustanziale al bisogno di visione è quello di movimento, di spostamento: Rimbaud era come si legge in Thibaudet (Solmi: p. 34) un «chemineau, un vagabondo, per cui la vita per gran tempo consistette nell’andare indefinitamente a piedi per le vie maestre. E in questo modo percorse gran parte dell’Europa e dell’Africa».

Alla fine, è quella di «mistico allo stato selvaggio», la definizione di Claudel che Solmi identifica come sostanzialmente esatta. (p.37).

Molto puntuale, per l’homme aux semelles de vent, si rivela la distinzione tra piano della biografia e piano del destino che per Solmi va mantenuta ferma. Intrecciare dati biografici e opera è sempre pertinente al regno dell’incertezza se non dell’arbitrarietà; restare sul piano del destino significa restare dentro l’opera che dialoga e si interpenetra con la Storia, riconoscendo innanzitutto alla dimensione del destino - così come dell’opera che ne è forma, la sua irrevocabilità.

Rimbaud vuole posséder la vérité dans une âme et un corps, carpire il segreto che può cambiare la vita, pressé de trouver le lieu e la formule per restituire a sé e al mondo lo stato primitivo di figlio del sole. (p.47).

Prendendo ancora dallo studio di Thibaudet, Solmi ne rievoca la definizione de le Illuminations, come «il libro della strada», emanazione dei tratti psicologici e fisiologici della personalità di Rimbaud, anche se proprio nelle Illuminations il marcheur pare più immerso nella contemplazione: dopo la Saison en enfer, opera centrale in cui troviamo il tema della partenza e dell’addio nell’«Assez vu…assez eu...assez connu» (p.81), nelle Illuminations il tema sociale si fa pervasivo e il poeta, conscio che non si avrà alcuna rivelazione di misteri, si affida a una raison merveilleuse e imprévue, che sola potrà cambiare la nostra sorte di schiavi… distruggere i flagelli…iniziare la nouvelle harmonie». (Solmi p.82).

 

Per un approfondimento sull’attività critica di Solmi si veda: 

https://www.doppiozero.com/materiali/sergio-solmi-letteratura-e-destino

 

II

 

Nell’istintività dell’idealismo giovanile ci sono tortuosità naturali attraenti e pericolose che ognuno di noi da adulto fatto riconosce e difficilmente dimentica. Spesso anche chi è colpito da gravi malattie senili ricorda perfettamente e magari solamente la collezione di attimi e istinti vitali della propria gioventù. Sembra molto più socialmente e culturalmente radicata la predisposizione al perdono dei giovani, che sono i primi, di norma, invece, a condannare il mondo e se stessi.

Un secolo e quindici anni dopo, circa, poco prima che l’era di Internet si affermasse sul pianeta, un ragazzo scrive in una lettera:

 

«C’è tanta gente infelice che tuttavia non prende l’iniziativa di cambiare la propria situazione perché è condizionata dalla sicurezza, dal conformismo, dal tradizionalismo, tutte cose che sembrano assicurare la pace dello spirito, ma in realtà per l’animo avventuroso di un uomo non esiste nulla di più devastante di un futuro certo…»

(Dalla lettera di McCandless scritta all’amico Ronald Franz – pseudonimo)

 

La citazione è tratta dal film Into the Wild, Nelle terre selvagge, che racconta la storia vera di Christopher McCandless, ispirata all’omonimo libro di Jon Krakauer (sull’opera dello scrittore/giornalista statunitense vd. anche, su questo sito: C. Varotti, Vette sublimi e spazi selvaggi, in “Griselda/sez didatica – n. 2, [giugno 2021]).

In una delle scene iniziali che compare anche nel trailer italiano si assiste a questo dialogo al ristorante, presente la famiglia di Chris, intenta a celebrare il brillante compimento dei suoi studi all’università di Emory:

 

(Padre di Chris): «Vogliamo comprarti un’auto nuova».

(Chris): «Che bisogno c’è di un’auto nuova? La Dutsun va benissimo. Io non voglio cose»

(Padre di Chris): «è sempre tutto così difficile»

 

In una delle scene successive, Christopher abbandonerà anche la Dutsun, tagliando le carte bancarie e bruciando i dollari che gli restano e che non gli sono strettamente necessari alla sopravvivenza.

L’attore protagonista Emile Hirsch ha dovuto attraversare una forte trasformazione fisica per testimoniare la morte per fame di Chris. Di questa tragedia e in essa, il regista e sceneggiatore Sean Penn ha visto la riuscita del viaggio spirituale del giovane Chris, che in due anni ha raggiunto la propria rinascita, ha esplorato tutti gli aspetti della giovinezza portandoli a maturazione nel ponte verso l’età adulta e, nel momento in cui si è trovato ad affrontare la morte, si è dato modo e tempo di accettare e capire e ha raggiunto lo scopo della sua ricerca, il fine del suo viaggio. Penn ritiene che questo sia il conseguimento di un tipo di saggezza e di pace che si matura da anziani, in completo contrasto col corpo giovane di Emile/Christopher, che ha lasciato tutta una serie di chiavi autentiche: il suo diario, i suoi appunti, le sue iscrizioni. Un altro punto controverso riguarda il fatto che Chris non avesse con sé una mappa: questo ha indotto molti a corroborare l’ipotesi della volontà del ragazzo di perdersi e di non poter tornare più indietro. Superando questo ordine di considerazioni, il regista torna sul tipo di bisogno umano che ha guidato il giovane Chris nel suo viaggio. Riferendo il sostanziale accordo di Krakauer su questo punto, sottolinea come ormai tutto è mappato, ogni territorio è tracciato e presente sulle cartine, quindi per chi desidera cercare l’inesplorato, il non battuto, l’eremo estremo, il selvaggio senza condizioni, una strada possibile è quella di non seguire un sentiero già percorso, già delineato, smentendo ogni disegno già pronto, ogni cammino già codificato, ogni strada d’altri. Secondo il padre di Chris, lui non voleva distruggere il mondo, ma congedarlo, smetterlo. [6]

 

Seguono alcune brevi battute, tratte dalla versione italiana del film:

 

(Chris): «Ho solo un progetto: me ne vado in Alaska!».

(Wayne, datore di lavoro): «Alaska Alaska, o la città di Alaska?»

(Chris) «Lassù, dritto, nel bel mezzo della natura»

(Wayne, datore di lavoro): «Cosa fai quando sei là, quando sei in mezzo alla natura?»

(Chris): «Cosa fai? Vivi, amico.»

 

Interviste e testimonianze degli autori del libro e del suo adattamento cinematografico si propongono qui di seguito.

 

Link_4_Krakauer, Senn, Vedder

 

Nel vecchio autobus, accanto al cadavere, furono ritrovati numerosi appunti scritti da Christopher, accanto ad alcuni oggetti e libri di Tolstoj, London e Thoreau. Dalla fine degli anni 1990 il Magic Bus dove Christopher aveva vissuto negli ultimi mesi diventò meta di "pellegrinaggio" da parte di coloro che erano rimasti affascinati dalla scelta di vita di questo ragazzo, tanto che nel giugno 2020 l'autobus venne rimosso dal parco, dopo la morte di alcuni sfortunati ammiratori avventuratisi nelle terre estreme.

Tra gli appunti lasciati da Christopher nel Magic Bus è stato rinvenuto questo: «Ho avuto una vita felice e ringrazio il Signore. Addio e che Dio vi benedica!» Lo pseudonimo di Christopher McCandless è Alexander Supertramp, un altro uomo dalle suole di vento.

A meno di una decade dalla morte di Christopher, in rotta ciclistica per altre terre pochi anni prima devastate dalla guerra civile, Paolo Rumiz, ha scritto:

 

La strada racconta…. In questo mondo in transito il luogo comunitario per eccellenza non è la piazza, l’agorà mediterranea, ma la strada. La strada è il luogo dove tutto diventa visibile: l’immaginario e la superstizione, le relazioni umane e le ostentazioni sociali. La strada è lo stomaco della società. Ne offre uno spaccato perfetto (p.165)

 

In Nomadland del 2020, uscito tra i primi film nelle sale di nuovo accessibili dopo la lunga chiusura dovuta alla pandemia, della pluripremiata Chloé Zhao, l’attrice, anch’essa pluripremiata, Frances McDormand interpreta Fern, una donna di sessant’anni che ha perso il marito a causa di una lunga malattia, dopo che entrambi avevano perso la casa e il lavoro. In preda al dolore per la morte dell’amato marito e compagno di una vita, per prima cosa, cerca un’occupazione; all’ufficio di collocamento le dicono che sono tempi difficili per lavorare e che, forse, potrebbe chiedere una pensione anticipata, ma Fern, priva di diritti economici e sociali e sola, vuole lavorare e ne ha bisogno. Ha pochi soldi, potrebbe accettare l’aiuto della sorella che vive una vita agiata. Ma lo rifiuta. Si mette in strada con un vecchio furgone e diventa una nomade. Percorre gli Stati Uniti Occidentali spostandosi, a seconda del lavoro che riesce a procacciarsi, per estesi paesaggi e agglomerati di città industriali svuotate, in mezzo alla neve, al freddo e in mezzo al deserto, distese sempre piatte che ospitano le nuove povertà. Fa tutta una serie di lavori brevi, come pelapatate, addetta alla cucina, lavora per Amazon, insieme a diversi altri nomadi come lei. Dorme in parcheggi gelidi e porta avanti il suo viaggio con dignità e abnegazione.

Sulla strada, incontra Linda May, Bob Wells e Swankie, tre nomadi veri e anche Fern entra in contatto con la grande comunità che li unisce, in cui si incontrano, si scambiano gli oggetti, condividono le tappe dei loro viaggi, interrompendo per un tratto le loro solitudini.

Due dialoghi del trailer originale e in italiano:

 

(anziana signora) You’re one of those lucky people that can travel anywhere (tu sei tra i fortunati che possono viaggiare ovunque)

(Fern) Yes, madame, I am (Sì signora, lo so)

(anziana signora) And sometimes they call you nomads. (e a volte vi chiamano nomadi)

 

(ragazza) Mum says that you’re homeless, is that true? (mia madre dice che lei è una senzatetto, è vero?)

(Fern) No, I am not homeless, I am just houseless, not the same thing, right? (no, non sono una senzatetto, sono senza casa, non è la stessa cosa, giusto?)

(ragazza) No.

 

Anche in questo film, è centrale il tema del nostro rapporto con i luoghi, con le case in cui abbiamo vissuto, con le persone che hanno fatto parte di quei luoghi e che ci costituiscono.

Il van di Fern, che lei ha chiamato Vangard è malridotto, ma nell’interno la protagonista ne ha curato i particolari, nel rispetto e nella celebrazione dei propri ricordi.

Nel corso del suo viaggio Fern incontra un uomo, la possibilità di una relazione e di essere accolta nella sua famiglia serena e riunita in una grande casa per il giorno del Ringraziamento. Ma Fern, dopo una breve visita in cui lo condivide con loro, riprende il suo cammino.

Il film ha un taglio quasi documentaristico, sul solco dell’articolo dalla giornalista americana Jessica Bruder pubblicato su Harper’s Magazine  dal titolo “La fine della pensione: quando non puoi permetterti di smettere di lavorare”, che raccontava la storia di alcune persone – in particolare della sopra nominata Linda May – dalla vita nomade, che si spostavano da un posto all’altro a bordo di veicoli in cui vivevano anche, per risparmiare mentre facevano lavori spesso stagionali. Da quell’articolo Bruder sviluppò poi un libro: Nomadland: Surviving America in the Twenty-First Century, pubblicato nel 2017 e in Italia nel 2020, frutto di diversi mesi vissuti in un furgoncino e di oltre quindicimila chilometri percorsi sulle strade statunitensi, in cui la giornalista ha raccolto le testimonianze di decine di “nomadi”, indagando i motivi che li avevano portati a quel tipo di vita, che in molti casi avevano a che fare con le gravi conseguenze della recessione iniziata nel 2008.

 

III

 

Molto probabilmente queste persone tendono a sfuggire anche ai più attenti rilevamenti statistici, ma non smentiscono, anzi confermano una moderna eroicità del viaggio inteso come cambiamento di vita, di fatto riservato a pochi tra gli esseri umani.

Secondo i numeri di cui oggi abbiamo sempre più conto, infatti, contrariamente alla percezione imperante e soprattutto politicamente connotata, la percentuale di persone che vive fuori dal proprio Paese d’origine è nel mondo oggi pari al 3,6 per cento.[7]

Ancor più significativo alla luce di questo numero, che, pur segnando una tendenza in costante aumento e riportando immani tragedie umane cui ‘videoassistiamo’ ogni giorno, sorprende per la sua esiguità, pensare che il cambio di vita, lo spostamento implica di per sé un cammino verso un diverso significato delle parole: i passi in avanti scardinano in chi si è messo in viaggio il valore delle parole, ormai nascosto e persino alterato nel ciclo di vita chiuso nel borgo natio, comprese, probabilmente, quelle che Natalia Ginzburg chiamò le “parole cadavere”, di cui già aveva detto Wittgenstein, frasi fatte, etichette vuote che ormai hanno solo un suono, perlopiù sgradevole, e minano o appesantiscono quella libertà linguistica che connota il libero cittadino e che preserva la magia del linguaggio. Perché, come ha dichiarato una volta la grande narratrice [Elsa Morante][8] «è l’esercizio della verità che porta all’invenzione del linguaggio, e non viceversa».

Solmi scrive: «Il valore magico della parola è sempre stato un elemento costitutivo dell’esperienza mistica di ogni tempo» (p.36), e riporta il convincimento profondo di Rimbaud secondo il quale a ogni essere sono dovute più vie (p.80).

Stando ai numeri della geografia umana contemporanea, la cultura del cambiamento è molto più parlata che agita. Si nutre più di mito che di realtà.

Sono le commistioni tra vita e mito che ne alimentano la vitalità.

 

IV

 

Ai giorni che stiamo vivendo appartiene un’eroina che ha marcato e ormai regolarmente si prepone all’attualità delle piazze di protesta in occasione dei summit dei leader globali grazie all’inattualità dei suoi gesti e delle sue iniziative di cambiamento individuale radicale che si sono riversate simbolicamente, mediaticamente e nei fatti, nell’urlo giovanile internazionale e interculturale contro il cambiamento climatico per la salvezza del nostro pianeta. Greta Thunberg ha disertato prima la scuola a 15 anni per fare sit-in da sola davanti al Parlamento svedese con il suo cartello con scritto “Sciopero dalla scuola per il clima”, posizione poi  ripetuta e mantenuta ogni venerdì, diventati tramite i social i Fridays for future. Con più di trecentomila follower su Facebook nel marzo 2019, 3 milioni due anni e mezzo dopo, e 13 milioni su Instagram, Greta ha rinunciato ai viaggi in aereo per contribuire a ridurre il consumo di CO2, decidendo di spostarsi in treno. Supportata da genitori famosi e facoltosi, autodefinitasi su Twitter “l’attivista del clima con l’Asperger”, un disturbo dello spettro autistico ad alto funzionamento, a Greta sono state mosse anche critiche a vario titolo e livello in termini di manipolazione da parte di attori più grandi di lei. Al di là dei retroscena e di eventuali strumentalizzazioni, sempre attuali, la realtà vede Greta e il movimento da lei ispirato ben presente sulla scena o meglio davanti alla scena del decision-making globale, in compagna di miti viventi. Ad esempio Barack Obama, scivolato nel mirino dell’establishment del bla bla bla, onomatopea immediatamente divenuta slogan con cui Greta stessa ha definito il dialogo ufficiale in atto. L’accusa diretta è quella di immobilismo dei fatti agli occhi di almeno una parte dei giovani del mondo rappresentati dagli attivisti cui è stata data voce, e riflettori, in occasione della COP26, la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici 2021 svoltasi a Glasgow dal 31 ottobre al 12 novembre.

La partenza di Greta, il cambiamento, si è realizzato, anch’esso, a partire da un rifiuto, in cui lo spostamento è avvenuto in maniera, come già evocato, inattuale: stando ferma, da giovanissima, e poi viaggiando in modalità contraria alla massa, parlando con un linguaggio diretto e informale ai Capi di Stato e di governo, fuori etichetta e vicino alla gente, opposto al linguaggio burocratizzante e criptico della politica quotidiana così come a quello spesso dilatorio della diplomazia internazionale. Un viaggio mondano senza sprechi né retorica come un pellegrinaggio laico, moltiplicato e moltiplicantesi nei proseliti di una generazione.

 

 

15 febbraio 2022

 


[1] Sergio Solmi, Saggio su Rimbaud, 1974, Torino, Einaudi, capitolo quarto.

[2] https://www.idiariraccontano.org/estratti/la-straziante-partenza/

[3] Pier Vincenzo Mengaldo, Storia dell’italiano nel Novecento, Il Mulino, Bologna, 1994, 20142, p. 299.

[4] Tommaso Bordonaro, La spartenza, a cura di Santo Lombino, prefazione di Goffredo Fofi, Navarra Editore, 2013

[5] Ivos Margoni, Arthur Rimbaud, Opere, UEF, Milano, 1964. Ottava edizione 2018, p. XX.

[6] Intervista a Eddie Vedder & Sean Penn: Into The Wild (Charlie Rose, 9/21/2007)

https://www.youtube.com/watch?v=c5xeDNQFCFY, cui ci si riferisce più estesamente nel link dedicato.

[7] XXX Rapporto immigrazione 2021 di Caritas Italiana e Fondazione Migrantes, p.2 (dati 2020). https://inmigration.caritas.it/sites/default/files/documenti_eventi/2021-10/Sintesi%20Rapporto%20Immigrazione.pdf

[8] NdR, citata in P.V. Mengaldo, cit. p. 167.