Carlo Varotti - Il canone… e se ci dessimo un taglio?

(ovvero: perché continuare a parlare del canone fa male alla scuola)

 

Di canone, esplicitamente o implicitamente, si è sempre parlato. Ma da circa tre decenni (il libro di Bloom, Western Canon, che ha rilanciato tema e parola, è del 1994) le riflessioni sul canone ritornano con ricorrente frequenza. Da ultimo si segnala l’iniziativa lanciata da Luisa Mirone sul sito “La letteratura e noi”, che ha già coinvolto diversi studiosi (nel momento in cui scrivo, otto - e tutti prestigiosi), chiamati a rispondere a tre domande sul ‘canone’ (e a indicare, nella terza, una propria proposta, che comprenda 15 nomi).

Un momento particolarmente intenso del dibattito coincise con il passaggio del secolo che, nel caso, corrispondeva a un passaggio di millennio (e fu in fondo naturale che la riflessione divenisse, un po’ pomposamente, quella di un ‘canone per il terzo millennio…’).

C’era un merito significativo in quel dibattito, in quel momento: il merito di ricordare che il secolo più denso di miracoli e di orrori, di splendore e di buio, il XX, si chiudeva (si era chiuso addirittura undici anni prima, secondo qualcuno…), ma ancora nella scuola italiana solo alcuni docenti (pochi, e meritoriamente arditi) si avventuravano tra le pagine di un Calvino (ma spesso limitandosi al Calvino ‘resistenziale’ del Sentiero dei nidi di ragno, uscito nel 1947) o di un Pasolini (ma anche qui fermandosi poco prima dei Sessanta tra Ragazzi di vita e Una vita violenta – con una puntatina tutt’al più su qualche scritto ‘corsaro’); i più continuando a chiudere l’anno tra le coccole aulenti dannunziane e i lacrimevoli simbolismi pascoliani (autori già esplicitamente raccomandati da Gentile nel testo della sua Riforma: tra il 1923 e il 1924), o con la lirica di Ungaretti e di Montale (ma, beninteso, dell’Allegria e degli Ossi – dunque tra i Dieci e i Venti del secolo). Una ‘potenziale’ fuga in avanti, infine, con Svevo, il cui capolavoro è sì del 1923, ma fa intravedere tematiche vertiginosamente moderne (ah! il complesso di Edipo; la ‘figura’ paterna…). Mi fermo qui, perché enumerare esempi e fare ironia è tristemente facile (e l’avverbio conta di più dell’aggettivo).

In quel contesto, dunque, parlare di canone aveva una funzione anche polemica vitale e propositiva. E infatti il focus del ragionamento non era il ‘canone’ tout court, ma il ‘canone’ del Novecento (penso, tra gli altri, a un fortunato libro a cura di Ugo Olivieri [Bruno Mondadori, 2001] che sottotitolava: Testi e problemi per lo studio del Novecento): con il sottinteso parenetico che di Novecento, finalmente, a scuola si cominciasse a parlare. E in effetti, parlare di ‘canone’ in Italia vuol dire unicamente porsi un problema ‘scolastico’ (come è noto non era così per Bloom, il cui citatissimo, e giustamente criticatissimo, Canon era una polemica tutta accademica contro i cultural studies e il loro crescente peso nelle università americane). E infatti è solo di scuola che vogliamo parlare, e degli effetti che l’idea stessa di ‘canone’ esercita sulla concreta attività didattica, con le sue scelte e le sue procedure.

Ma arriviamo a una prima, necessaria, precisazione. Ovvia, per altro, ma forse non sempre chiarita. E cioè: di cosa parliamo quando parliamo di ‘canone’? Di cosa parliamo quando cioè ci proponiamo di definire una lista di autori irrinunciabili (perché eccelsi? perché costruttori della nostra identità?) per la formazione del futuro cittadino?

In altri termini, se la domanda riguarda il canone degli scrittori maggiori della nostra letteratura, dalle origini alle soglie del Novecento, allora la domanda – semplicemente – non ha senso. Il canone c’è già ed è quello costituito dai nomi che tutti sappiamo (Dantepetrarcaboccaccio; Ariostomachiavellitasso: Galileo, soletto nell’’inutile’ Seicento; e infine Foscololeopardimanzoni), che ci porta a dieci autori, anche solo fermandosi all’unità d’Italia, ben prima dunque di quei D’Annunzio e Pascoli che già per Giovanni Gentile erano ‘canone’ (un canone di contemporanei: uno morto da poco, l’altro vivo e vegeto). Con i quali due si arriva a dodici (a condizione di non conteggiare Goldoni, Alfieri e Parini – con i quali si sarebbe già a 15 nomi, e tanti saluti). Il che significa – per portare avanti il gioco – che tutto il Novecento lascerebbe spazio a tre soli autori ‘canonici’.

Ma se di gioco si tratta (del genere: chi si butta dalla torre?), allora ci sarebbe spazio per la burla, e magari proporre un canone in cui Sacchetti prenda il posto di Boccaccio; Cieco da Ferrara quello di Ariosto e Tommaseo quello di Manzoni…. Ma, appunto, non sarebbe una cosa seria.

Una precisazione. Trovo perfettamente lecito che un insegnante, seguendo un suo particolare percorso didattico, decida di leggere in classe Sacchetti e non Boccaccio; o Fede e bellezza e non i Promessi sposi. Lo trovo perfettamente lecito, ma in questo caso il nostro docente non avrebbe proposto un ‘canone’ alternativo: avrebbe, semplicemente, deciso di ignorare il canone. Ecco perché, dicevo, qualsiasi proposta di canoni alternativi a quello, consolidatissimo, a tutti noto, non sarebbe che un gioco di società, più o meno brillante (dello stesso genere per cui tra i grandissimi del Novecento decido di mettere non F. D. Roosevelt, ma Mickey Mouse).

Diverso è il discorso se invece parliamo di un canone del Novecento; se il riferimento è cioè a un’epoca e a un periodo in cui ci siano delle scelte e delle alternative ancora possibili (Fenoglio sì/Vittorini no? Gadda sì/Pasolini no? e via dilemmando). Anche se, ovvio dirlo, allo stato attuale della concreta pratica didattica, un dibattito di questo genere risulta quasi surreale; giacché il ‘secolo breve’, nella corrente interpretazione scolastica italiana, è tanto breve da durare, se va bene, quattro decenni.

Ma da qualcosa bisogna partire. E non possiamo non farlo da un testo ufficiale, quelle Indicazioni nazionali riguardanti gli obiettivi specifici di apprendimento concernenti le attività e gli insegnamenti compresi nei piani degli studi previsti per i percorsi liceali, emanate nel 2011, che della scuola secondaria attuale sono, a tutti gli effetti (e, si badi, contro l’intenzione del legislatore) i ‘programmi’. A proposito dell’insegnamento della Letteratura italiana nel quinto anno degli istituti superiori di secondo grado (Licei) si legge (p. 76 del docmento della G. U.):

 

Al centro del percorso saranno gli autori e i testi che più hanno marcato l’innovazione profonda delle forme e dei generi, prodottasi nel passaggio cruciale fra Ottocento e Novecento, segnando le strade lungo le quali la poesia e la prosa ridefiniranno i propri statuti nel corso del XX secolo. Da questo profilo, le vicende della lirica, meno che mai riducibili ai confini nazionali, non potranno che muovere da Baudelaire e dalla ricezione italiana della stagione simbolista europea che da quello s’inaugura. L’incidenza lungo tutto il Novecento delle voci di Pascoli e d’Annunzio ne rende imprescindibile lo studio; così come, sul versante della narrativa, la rappresentazione del “vero” in Verga e la scomposizione delle forme del romanzo in Pirandello e Svevo costituiscono altrettanti momenti non eludibili del costituirsi della “tradizione del Novecento”. Dentro il secolo XX e fino alle soglie dell’attuale, il percorso della poesia, che esordirà con le esperienze decisive di Ungaretti, Saba e Montale, contemplerà un’adeguata conoscenza di testi scelti tra quelli di autori della lirica coeva e successiva (per esempio Rebora, Campana, Luzi, Sereni, Caproni, Zanzotto, …). Il percorso della narrativa, dalla stagione neorealistica ad oggi, comprenderà letture da autori significativi come Gadda, Fenoglio, Calvino, P. Levi e potrà essere integrato da altri autori (per esempio Pavese, Pasolini, Morante, Meneghello…). Raccomandabile infine la lettura di pagine della migliore prosa saggistica, giornalistica e memorialistica.

 

Niente meno! Letto così vengono le vertigini. Sono nominati 23 (ventitré) autori (per i due anni precedenti, tra Dante e Manzoni i nomi esplicitati sono solo 11). La assenze sono apparentemente macroscopiche (perché non citare Bacchelli, Cecchi, Alvaro, Vittorini, Carlo Levi, Bassani, Sciascia, Eco, Vassalli, Bianciardi, Flaiano, Parise, Ginzburg, Celati?). Ma, appunto, sono assenze solo apparenti. Le due liste poste tra parentesi (quella dei poeti e quella dei prosatori) sono infatti concluse da puntini di sospensione che indicano un’apertura virtualmente infinita e completabile ad libitum.

In altri termini, una e una sola è l’indicazione che, riguardo il Novecento, viene dalle Indicazioni: che non esiste un canone, né, quindi, esiste alcunché di rapportabile a un ‘programma’ determinato.

Non c’è un canone e non c’è un programma. Ma c’è, in compenso, un terreno di caccia enorme in cui i docenti sarebbero lasciati liberi di costruire percorsi di lettura – e magari incrociare tra loro arti e media, tra cinema, televisione, fumetto ecc.. Ma…

Ma c’è nella realtà dei fatti il ‘canone’ – quella cosa per cui lo studio della Letteratura italiana è un percorso a tappe. Una tabella di autori da ‘fare’ (è il dialogo più frequente in tutte le sale docenti delle scuole italiane: “Hai già fatto Foscolo?”; “No, ma quest’anno riesco a fare un po’ meglio Alfieri. Foscolo lo comincio la prossima settimana”…).

Parlando di una Letteratura iniziata otto secoli fa - e iniziata con un botto stordente come Dante – capiamo che le gambe sono troppo lunghe per una coperta troppo corta. Di qui il palliativo (non so se più grottesco o patetico), di anticipare lo studio delle origini agli ultimi mesi del secondo anno di studio. Quando si dice: una soluzione che guarda lontano!

Siamo insomma alla follia di ridurre lo spazio che il biennio delle secondarie di secondo grado può dedicare a un approccio sano e ‘naturale’ alla letteratura: quando l’insegnante ha davvero la possibilità di gettare i fondamenti di una pratica consapevole della lettura, costruendo percorsi liberi, capaci di generare nel contempo competenze, curiosità e piacere (a condizione, beninteso, che non si ritenga che per fornire i fondamenti letterari a un quindicenne sia utile fargli dividere in sequenze alcuni capitoli dei Promessi sposi: pratica per la quale andrebbe fissato per legge un solido programma di rieducazione del/la docente…).

Ma a rendere grottesco e miope il palliativo è il ritenere che quella miniera di cultura, idee e passioni che hanno riempito la letteratura (e il cinema; il teatro; la musica ecc.) del secolo trascorso possa essere ‘fatta’ (c’è poco da fare: a scuola gli scrittori si ‘fanno’) avendo a disposizione quattro mesi, recuperati mettendo dei quindicenni a contatto con quella ‘alterità’ radicale (linguistica, ideologica, religiosa e culturale) rappresentata dalle origini della nostra letteratura. Quattro mesi per andare dove? E che faremo quando tra i possibili nomi di un ‘canone’ novecentesco ci saranno anche Tondelli, Baricco, Maggiani, Saviano…?

Possibile che sia tutta una questione di ‘spazi’ e di tempo scolastico? O forse non è davvero il momento di ripensare radicalmente cosa vogliamo insegnare quando insegniamo Letteratura italiana?

 

Mi sembra evidente che nello studio della Letteratura a scuola si prospettano due possibilità: o rivedere alcune inveterate abitudini o morire, magari lentamente (ma nutro qualche dubbio sull’avverbio), ma morire. E come vecchi attori ormai cotti riproporre uno stanco copione che scivola via sulle menti distratte dei nostri studenti, per i quali la Letteratura italiana sarà sempre più una pratica insensata; roba da eccentrici di altri tempi, che non scrivevano libri che dovevano essere letti, ma che (temo che questa immagine agli occhi di un ragazzo non sia poi tanto iperbolica) scrivevano per finire dritti dritti nelle antologie.

Del resto, come stupirsi? L’idea che la Letteratura italiana sia semplicemente ‘materia di scuola’, prima che una esperienza umana e conoscitiva vera, capace di mettere in moto quel complesso processo di proiezioni di sé, identificazioni, sollecitazioni e attese che danno senso a una esperienza ‘estetica’ (e questo e non altro deve essere la letteratura: se no, che muoia la letteratura); quella idea, dicevo, si ha a volte l’impressione che sia introiettata da tanti insegnanti. Quanti insegnanti leggono l’Orlando furioso, non in quanto strumento di lavoro (che per molti sarà limitato ai soliti brani presenti nelle antologie), ma in quanto ‘libro’ vero, portatore di un’avventura emotiva e conoscitiva?

Sono sempre stato colpito da un paradosso. Parlando delle letture preferite con amici e in particolare con amici che insegnano, possono venire fuori i nomi di Philip Roth o Kafka, di Proust o Stendhal – più di tutti ‘tira’ Dostoevskij – ma mai, dico mai, qualcuno dice che alla sera si commuove sulle ottave di Tasso o medita sulle pungenti riflessioni di Guicciardini. Figuriamoci quale praticabilità stimolante di lettura può essere trasmessa, in queste condizioni, a uno studente liceale.

Dunque? Dunque parlare di canone a scuola è controproducente. Perché se c’è una cosa che è necessario fare, subito, è proprio mandare all’aria il canone.

E questo nel caso, beninteso, che ‘canone’ non indichi la ‘classifica dei migliori’, ma suggerisca una lista di autori assolutamente da ‘fare’: quella lista dei nomi che vanno spuntati lungo un percorso storicamente determinato (esattamente come si spuntano le cose da comprare nella lista della spesa).

E il canone (nel senso appena indicato) è il primo idolum scholae che va cancellato, perché è il principale veicolo di un rapporto tra Letteratura italiana della tradizione e scuola che fa della Letteratura italiana qualcosa di artificiale ed estraneo.

Come potrebbe essere diversamente? Giacché è proprio quel canone, che pretende di essere ‘programma’ (successione ineludibile di monumenti inaggirabili, fino a diventare rigoroso ‘cronoprogramma’) - giacché, è proprio quella idea di ‘canone’ che veicola quel senso di artificiosità che accompagna lo studio della Letteratura italiana in Italia.

Mi spiego. Si lamenta spesso il paradosso per cui in nessun paese del mondo, come in Italia, si dedica a scuola tanto spazio allo studio della letteratura, eppure gli indici di lettura rimangono da noi (rispetto a paesi omologhi per reddito, tradizione culturale ecc.) desolatamente bassi.

Non vedo, in fondo, perché stupirsi. L’amore per la lettura potrebbe mai passare attraverso quell’insieme di operazioni artificiali che si chiama lo studio della Letteratura italiana nel triennio superiore (dilatato ora con geniale soluzione a un triennio e mezzo)?

 Ma, parlando di lettura, che cos’è ‘naturale’?

1. E’ ‘naturale’ prendere un libro in biblioteca o in libreria (incuriositi da un titolo, dal risvolto di copertina; o consigliati da una persona verso la quale si nutre fiducia…).

2. E’ ‘naturale’ che quel libro sia fornito di un titolo plausibile (I promessi sposi; Il barone rampante; Lo scudo di Talos ecc.), sia diviso in capitoli, scritto in genere con lo stesso font dall’inizio alla fine, con inchiostro nero su sfondo bianco (qualcosa di molto lontano dalle arlecchinate che, a fare dal 2000 circa, sembrano la forma obbligatoria di un libro di testo…). Che racconti una storia (un viaggio di dieci anni nel Mediterraneo, prima di arrivare a casa; la soluzione di alcuni delitti consumati in un’abbazia dell’Italia settentrionale, nel 1327) o parli di qualcosa di ben definito e circoscritto (la seconda guerra mondiale; la costituzione italiana; la crisi dei subprimes…).

3. E’ naturale che l’approccio di un lettore sia con un libro, con quel libro. Certo, si può essere appassionati di un autore (e chiedere l’ultimo libro di Jo Nesbø o di Ammanniti, a prescindere), ma l’oggetto mediatore è sempre il singolo libro – e nessuno chiederebbe l’ultimo libro di Jo Nesbø se precedentemente non avesse apprezzato un libro, determinato e preciso, di quell’autore.

Nessuna di queste tre condizioni sembra presente nella letteratura praticata abitualmente a scuola.

Si parla dunque dell’abitudine alla lettura come fine principale dello studio letterario a scuola. Ma, curiosamente, proprio lo strumento al quale gli studenti dovrebbero essere indirizzati, il libro, è un oggetto in qualche modo negato a scuola.

E’ invece ‘artificiale’ un libro che taglia una fetta, cronologicamente definita, di qualcosa, facendo uno spezzatino di autori e opere: dieci piattini di Giovanni Verga; altrettanti di Pascoli e D’Annunzio; un assaggino di De Roberto. L’artificialità è in fondo sottolineata da un banale dato merceologico. Provate ad andare a comperare un’antologia scolastica in una libreria dopo il 20 ottobre. Non la troverete neanche a piangere: perché passate le settimane delle adozioni quel prodotto ricomincia ad essere quello che (non) è, riacquista cioè lo statuto di non-libro, e in quanto tale risulta legittimamente assente nei luoghi deputati allo smercio dei libri.

Lamentarsi che gli italiani non leggono (non frequentano abitualmente biblioteche o librerie – salvo entrarci a Natale per regalare l’ultimo libro del personaggio televisivo) è come pretendere di appassionare qualcuno al tennis regalandogli una mazza da hockey. Forse non diventerà comunque bravo come Berrettini, ma almeno che gli si metta in mano lo strumento giusto…

Paradossale? Eppure è esattamente quello che si fa abitualmente a scuola. Si pretende di appassionare alla letteratura negando quello che della letteratura è la principale fascinazione: il racconto di una storia, che ha un contenuto riconoscibile (abbastanza da incuriosire), che ha un inizio, uno sviluppo e una fine.

Tralascio infine il fatto che non esista ormai testo che rifletta sulla utilità della Letteratura (triste genere letterario, quello che deve difendere ciò che dovrebbe essere una componente ovvia dell’esperienza di ognuno) che non accenni al riconoscimento che le neuroscienze fanno della narratività come fattore peculiare della conoscenza umana e della stessa percezione che di sé ha l’individuo; o che ricordi la centralità del ‘narrativo’ (di ’narrative turn’ si è cominciato a parlare negli anni Settanta) nel determinare la coscienza stessa della verità storica e i prodotti delle scienze sociali. Eppure, è proprio l’approccio narrativo – come modalità di accesso percettivo e di riordino della realtà – che sembra essere negato da una pratica scolastica della letteratura che nega la complessità narrativa (figure, situazioni e parole inserite in strutture di senso), nebulizzandola in una parcellizzazione, in cui lacerti di testo sono cuciti insieme da cappelli introduttivi e da ‘schede riassuntive’.

A volte mi chiedo cosa appare nella testa di uno studente al quale si nomina un libro intitolato La coscienza di Zeno? Cosa c’è di strano se poi, chiedendogli del capolavoro di Svevo, quello studente non parlerà di cose, di personaggi, o della fulminante ironia del testo. No: vi dirà che La coscienza di Zeno documenta (documenta!) la crisi e la destrutturazione del personaggio. E nel momento che il libro diventerà ‘canonico’, sempre più - secondo la logica intrinseca al canone sub specie scholae – non sarà sé stesso; ma proprio in quanto ‘canonico’ servirà a documentare uno stadio, una fase, un passaggio, un’epoca di crisi (sì, perché si sa che nella pratica scolastica tutte le epoche sono ‘di crisi’…).

Un primo significativo accostamento alle reali ‘pratiche’ della lettura sarebbe – se proprio vogliamo attenerci alla successione rigida di un ‘canone italiano’ – quella di sostituire il canone degli autori con un canone delle opere: non Machiavelli ma Il principe; non Boccaccio ma il Decameron. Ribaltando la tendenza a concepire l’autore come una costellazione di brani (in antologia), al quale eventualmente affiancare un’opera integrale; ma partendo invece da un ‘libro’, letto nell’orizzonte dell’integralità. Il che vuol dire che posso anche rinunciare a leggere integralmente l’Orlando furioso (ho scelto volutamente un caso estremo: ma si può leggere benissimo per intero La bottega del caffè o il Saul; la Vita nuova o l’Ortis); ma posso leggere Calvino che racconta l’Orlando furioso (antologizzandolo rispettandone storia e intreccio), e arricchire la già cospicua scelta di Calvino (cospicua, intendo, rispetto ai 4 brani in croce proposti dalle antologie in commercio, sempre gli stessi, soffocati dal solito debordante apparato di analisi del testo e verifiche) con la lettura integrale di alcuni canti del romanzo.

Non si proporrebbe cioè, come abitualmente si fa, un discorso storico/critico su un’epoca, affidando alle sparute paginette dei grandi autori il compito di illustrare la correttezza del discorso precedentemente fatto. Si comincerebbe magari a ribaltare il procedimento: un’antologia leggera di testi potrebbe anche essere affiancata al testo classico ‘canonico’, con la legittima e utile funzione di approfondimento o di inquadramento storico. Per riprendere lo Svevo ricordato sopra. Si legge La coscienza di Zeno, ed eventualmente l’insegnante potrà affiancare qualche testo in antologia: per approfondire un aspetto dell’autore; o per sollecitare riflessioni e stimoli, che siano un mezzo per far parlare in modo più vivo il testo stesso. Per intenderci. Non parlerò della psicanalisi come visione radicalmente nuova della psiche umana. leggendo poi un pezzetto della Coscienza, ma leggerò la Coscienza, e magari, se sarà il caso e al momento, affiancherò un episodio letto a una pagina tratta dall’Introduzione alla psicanalisi di Freud (ce ne sono tante di luminosa chiarezza).

Ma in questo modo si dedica un mese intero a leggere un solo testo con qualche approfondimento (se è La bottega del caffè o la Madragola). E due mesi e più per leggere la Coscienza di Zeno?

Ovviamente. Ed è questo il motivo per cui è necessario scardinate il canone’ – accettando l’idea che possiamo tranquillamente finirla di ‘far finta di leggere tutto’. Una finzione, appunto: che si risolve spesso in veloci approcci agli autori (quasi fossero un cartellino da timbrare; o una figurina da appiccicare sull’album). Un procedimento la cui colpa minore è quella di produrre immagini parziali e falsificate di un autore (di cui si nominano testi che nella mente dello studente corrispondono al nulla); mentre la colpa più grave è quella di creare un solco incolmabile tra la scuola e la pratica della letteratura.

Dunque, si parli pure di canone, ma che il canone non sia la guida prevalente, se non unica, nella costruzione dei percorsi di lettura di un docente.

Rifiutare questo approccio scolastico al canone non significa rifiutare l’idea stessa di autore (o di opera), sostituendola con percorsi e approfondimenti tematici. Rimedio che sarebbe anche peggiore del male: riproponendo la logica dello spezzatino. Con l’aggravante che sarebbe uno spezzatino ancora più artificiale e arbitrario, addirittura negando quella figura dell’autore la cui esistenza costituisce per lo meno un dato concreto: fosse pure quello di un Leopardi fisicamente disgraziato che brama le grazie di Silvia (che Silvia fosse la sua ‘fidanzata’ è convinzione della maggioranza degli italiani…) o di un Ariosto pantofolone che si diverte con i suoi giochi di ruolo…

Un approccio tematico può essere sì – pensiamo – una guida efficace. In fondo il ‘tema’ è un dato che appartiene concretamente alla vita: e non c’è bisogno di giustificare a un adolescente il fatto di occuparsi di avventura, tradimento, eroismo, amore, soldi ecc. Un poco più difficile è giustificargli l’impiego di energia e fatica con argomenti tipo ‘Manzoni e il romanzo’; ‘Petrarca e la lirica’; cose bellissime, naturalmente, ma la cui motivazione deriva da un processo culturale complesso e pre-strutturato, argomentabile con argomenti tanto validi quanto inefficaci per un adolescente (qualcosa che abbia a che fare con ‘le alte vette dello spirito umano’ o con i ‘grandi costruttori della nostra identità nazionale’).

Ma un tema – una volta definito e proposto – può davvero essere una linea generale: non qualcosa che costruisce percorsi antologici, spezzettati e nebulizzati, ma che raccorda opere da leggere (o guardare) integralmente. Opere, finalmente, ‘da leggere’ – ognuna inquadrata nel suo tempo e nel suo mondo – ma liberandosi dalla tirannia di un percorso che deve essere rigorosamente cronologico; e che costringe l’insegnante a procedere, passo passo, fino ad ‘arrivare’, dopo tre anni di lavoro, a Svevo e a Montale.

 

Concludiamo con un ultimo punto, che è anche una confusione indebita ma, ahimé, molto frequente. Quella che tende a sovrapporre l’idea che ‘storicizzare’ sia sinonimo di fare ‘Storia della letteratura’. E che comporta il falso dilemma per cui, o si fa ‘storia della letteratura’ o si propongono testi che appaiono collocati in una sorta di spazio incerto, fluttuanti come in assenza di gravità, senza agganci con le epoche e i contesti.

Siano tutti d’accordo che capiamo ben poco se ci accostiamo a un testo antico (e so bene che ‘antico’ per un adolescente può mettere insieme non solo Petrarca e D’Annunzio, ma forse anche Calvino) come se ci accostassimo a un testo scritto nei nostri giorni. E nessuno può sensatamente negare l’importanza di (ri)costruire il senso della profondità storica. E’ il dovere di ogni sistema formativo, non ci sono dubbi. E poiché ogni scopo formativo deve agire laddove i bisogni e le carenze sono più forti, è naturale che il dovere della ‘storicizzazione’ sia tanto più imperativo in un mondo in cui ogni senso della ‘verticalità’ storica è diluito in una comunicazione orizzontale, che uniforma in un presente indistinto ogni sfumatura, dissonanza e diversità di epoche e generazioni. Detto (e sottoscritto pienamente) ciò, ecco il punto: inserire un testo e il suo autore nella sua epoca non implica la necessità di fare ‘storia della letteratura’.

Accennavo prima alle preferenze di lettura di molti miei amici e colleghi. Per molti l’autore più amato è Dostoevskij (come dare loro torto?). Non credo che leggano L’idiota e Delitto e castigo come se fossero testi contemporanei a Gadda o a De Lillo. I più avvertiti e curiosi avranno anche letto una monografia sul grande scrittore russo (ne segnalo una molto bella e recente, di Maria Candida Ghidini), e probabilmente hanno letto le introduzioni dei singoli romanzi; ma tutti troverebbero piuttosto curiosa una domanda del genere: “Ma come puoi avere letto Dostoevskij senza prima conoscere Gogol e Leskov?”. E potremmo spingerci oltre, pretendendo che il lettore di Dostoevkij avesse almeno frequentato Lermontov e la (irrinunciabile) Nadežna Dmitrievna Chvoščinskaja – Zaiončkovskaja. Non si fa la stessa cosa avvicinando gli studenti a Leopardi solo dopo un apprendistato che passa per Foscolo e, tenetevi forti, Berchet? Si impone così di affrontare lo studio della letteratura a scuola come una successione di tappe (una rigida roadmap) cui è sottesa l’idea che non si possa capire, che so io, l’Ottocento, se non si sono lette le liriche dello Stilnovo.

Con esiti a volte paradossali; o di vera e propria teratologia storicistico-letteraria. Non ho ancora conosciuto uno studente dell’ultimo anno di liceo che non avesse letto la paginetta di Berchet sui Parigini e gli Ottentotti, dalla Lettera semiseria di Giovanni Grisostomo a suo figlio. Un testo oggettivamente marginale (in quegli anni stavano scrivendo signori come i coniugi Shelley e Goethe), ma utilissimo per far quadrare i conti di un facile didascalismo: testo emblematicamente ‘italoromantico’, cioè utile a illustrare il progetto socio-culturale del Romanticismo italiano. Testo, dunque, immancabilmente letto, come si conviene a qualcosa che bene esprime un meccanismo pavloviano dell’insegnamento letterario in Italia: la narrazione di un processo storico-culturale, e la messa in vetrina delle paginette che quel processo illustrano con sufficiente efficacia e con lapalissiana chiarezza.

Ma lo statuto ontologico di ‘storia della letteratura’ è, di per sé, piuttosto evanescente. E pour cause.

La ‘storia’ presuppone una linea (certamente fatta di continuità e scarti) in cui tra i vari eventi esistono dei nessi ineludibili. Ovviamente (salvo vederla come Agostino, o Dante Alighieri) nella storia nulla avviene mai per una superiore ‘necessità’ che impone che le cose vadano in un certo modo. Non era scolpito nel destino che Hitler invadesse la Polonia scatenando la reazione francese e inglese; ma tra quella politica aggressiva e l’ideologia della rivincita tedesca, dopo l’umiliazione della pace di Versailles e l’ascesa del nazismo, c’è un rapporto logico (che, ripeto, non vuol dire ‘necessario’): c’è insomma un prima che ha reso ‘possibili’ le scelte fatte dopo. Se la Germania avesse vinto la Ia Guerra mondiale difficilmente sarebbe nato il Nazismo. O forse sarebbe nato, ma semplicemente non avrebbe potuto avere quella forma, né usare quegli argomenti per ottenere il consenso dei tedeschi.

Ovviamente la storia della letteratura non può costruire nulla del genere.

E’ chiaro che la letteratura è un ‘sistema’, e che ogni autore dialoga con qualche altro autore e si misura con una lingua in qualche modo ‘compromessa’, ma sono meccanismi che non hanno un diretto legame cronologico necessario. Se il secondo Settecento europeo ha recuperato una certa idea di ‘primitivo’ (leggendo con occhi diversi la Bibbia e Omero e inventandosi Ossian, che tanto piaceva ad Alfieri) non ci è arrivato per una serie di ‘necessarie’ (nel senso detto sopra) concatenazioni (qualcosa, per intenderci, che renderebbe impensabile il primitivismo preromantico se non ci fossero stati Racine e Metastasio).

E arriviamo a una seconda sovrapposizione illegittima di concetti e temi non sovrapponibili. L’idea cioè che ‘canone’ e ‘storia della letteratura’ coincidano, e che è la ‘storia’ della letteratura costituisce un essenziale fattore di identità.

Non che non sia possibile fare una ‘storia’ della letteratura, naturalmente, costruendo una successione coerente di elementi che si dispongono secondo una linea ben riconoscibile. De Sanctis c’è riuscito benissimo; anzi, ha scritto un vero capolavoro. Ma è un capolavoro che ha tutte le caratteristiche del ‘romanzo’, così come si scrivevano romanzi nell’Ottocento: con una fortissima istanza di ordine, per cui la congerie caotica degli eventi e le modalità stesse di percezione del reale (come ci ha insegnato Umberto Eco: la vita assomiglia molto di più a Ulisse di Joyce, che al Conte di Montecristo) vengono strutturati da un laicissimo ‘logos’ che, per prima cosa, costruisce ‘mondi piccoli’: in cui si racconta cioè solo quello che importa ai fini della storia (proverbialmente: se compare un chiodo su un muro, prima o poi un personaggio vi si impicca…). E appunto un ‘mondo piccolo’ è la Storia della letteratura italiana di De Sanctis: la storia di pochi eroi (Dante e Machiavelli; a seguire Galilei, Parini e qualche altro) qualche genio ahinoi troppo ‘letterato’ (per primo, Petrarca); diverse comparse. E’ un mondo tanto ‘piccolo’, quello di De Sanctis, in cui tout se tient, che 650 anni di storia letteraria nazionale possono stare in poche centinaia di pagine; mentre il povero Tiraboschi, per la sua Storia della letteratura italiana (il titolo è il medesimo) ha avuto bisogno di otto ponderosissimi volumi. Ovviamente, del resto. Per De Sanctis la Storia della letteratura nazionale era un bellissimo racconto: per Tiraboschi, la Storia era un contenitore: tante scatole da riempire, una per secolo, mettendoci dentro vite e opere via via apparse.

Ma ecco il punto.

Quando a scuola si parla di ‘canone’, immancabilmente si chiama in causa De Sanctis e il progetto di ‘identità nazionale’ che aveva guidato il grande critico. Ma dov’è il modello De Sanctis a scuola? Dov’è il racconto identitario che possa essere credibilmente proposto alle giovani generazioni?

Ma soprattutto: dov’è il ‘racconto’?

In realtà a scuola non si propone il modello De Sanctis, cioè un racconto ‘forte’, parziale quanto si vuole, ma efficace, strutturato nella stringente coerenza (artificiale certo: ma quale narrazione non lo è?) di un ‘mondo piccolo’.

A scuola si propone invece il modello Tiraboschi: cioè una storia che non è una storia, ma un contenitore di cose (vite, nomi, titoli). Ovviamente un contenitore relativamente povero di oggetti (il tempo è tiranno…), ma un contenitore di esempi che, per sineddoche, siano una proiezione del tutto.

Ne deriva insomma una sorta di scimmiottatura erudita sostanzialmente frustrata: lo studente impara dal manuale che Leopardi ha scritto il canto Ad Angelo Mai, ma è un dato che galleggia sul nulla, è che è destinato presto a svanire, staccato come è da un oggetto/testo concreto.

Se la ‘storia della letteratura’ deve essere un elemento di costruzione identitaria della nazione; allora ‘torniamo pure a De Sanctis’ (mi sembra di averla già sentita…). Ma torniamoci davvero, in modo radicale: raccontando il bellissimo romanzo della nostra letteratura, e condensandolo in 200 pagine (60/70 per ogni anno scolastico, non di più). Un racconto minimo ed essenziale, che ci dice il romanzo dell’italianità per via letteraria; e che nel contempo fornisce agli studenti l’enciclopedia minimale ed essenziale: quella – lo ricordava Umberto Eco in una sua ‘bustina’, diversi anni fa – per cui se devo cercare Parini, o Manzoni, o Cecco Angiolieri, vado subito nello scaffale giusto!

Ma soprattutto. Cosa si intende per ‘identità’ nazionale da costruire per via storico-letteraria? Ammesso che quella della letteratura sia la strada da percorrere; come possiamo pretendere di ‘costruire’ un senso di appartenenza nazionale leggendo Boccaccio o Ariosto, e tralasciando completamente quanto la letteratura ha espresso in termini di sogni, attese, speranze, illusioni, utopie, negli anni in cui l’Italia di oggi si costruiva? Ariosto va benissimo, naturalmente, ma che nella ‘costruzione della propria identità nazionale’ lo studente incontri la selva di Ariosto e mai, dico mai, la poeticissima periferia di Marcovaldo o i poveri sogni patinati dello Sceicco bianco e lo stordente bianco e nero di Accattone (perché c’è anche il cinema…), mi sembra davvero bizzarro.

 

15 febbraio 2022