Giancarlo Alfano - Critica, storia, cultura. Per un ritorno all'interpretazione

La “letteratura” e le altre forme di narrazione / L'istanza di comprensione / Chi ci sta di fronte? / “Solum describere”: dove cade la nostra responsabilità / Dalla descrizione alla discrezione? Una bozza di proposta

«A chi parliamo, quando parliamo di letteratura?»
È forse questa, oggi, la domanda principale che si pongono gli studiosi, i critici e i professori. Una domanda che probabilmente risuona diversamente alle loro orecchie, ma che al tempo stesso sembra armonizzata sulla stessa dominante funebre: “già, a chi parliamo?”.

La “letteratura” e le altre forme di narrazione

 

In verità, la letteratura, di per sé, non parrebbe godere di cattiva salute, nonostante le riflessioni più o meno pessimistiche che si sono succedute negli ultimi decenni. La letteratura, o come qualcuno preferisce dire l’“arte del discorso” (rimando al saggio di Gabriele Frasca, La lettera che muore, Meltemi, 2005), resiste piuttosto bene all’usura dei linguaggi tradizionali. Non perché si leggano romanzi o poesia quanto lo si faceva uno o due secoli fa. Ma perché le strutture della narrazione, la stessa funzione narrativa, pur assorbita in parte da altre forme d’espressione e d’intrattenimento (in ispecie i video-giochi), sono antropologicamente connesse all’affabulazione, a una sonorità che verrebbe da dire primaria. Certo, oggi i sistemi di comunicazione, piuttosto che affidarsi alle forme tradizionali di lettura, sono per lo più indirizzate a sollecitare la parte occipitale del cervello, lì dove risiede il primato della vista, che oggi prevale per ragioni culturali e per ragioni di economia fisiologica (è infatti la zona più arcaica del cervello e dunque quella che attiva un minor numero di connessioni, col risultato che facciamo meno fatica, ma in compenso realizziamo una performance meno ricca). E tuttavia l’aggancio immaginativo, il salto dal percepito all’allucinato, che è proprio dell’arte, e dell’arte verbale in particolare, non smette di essere necessario nella vita degli esseri umani, occidentali o globali che siano.

L’istanza di comprensione

 

Altra questione riguarda invece l’istanza di comprensione della letteratura, la sollecitazione epistemica intorno al funzionamento della letteratura. Questa sembra infatti aver cambiato natura, passando da richiesta di uno strumento per capire il mondo attraverso la letteratura, a richiesta di una “semplice” comprensione tecnica, che si richiuda al più sulla stessa testualità letteraria. Lo mostra il successo delle scuole di scrittura creativa, dei manuali di scrittura, dei premi letterari, e ancor più di un «Torneo letterario» come Ioscrittore. In fin dei conti, la cosa non dovrebbe poi tanto stupire gli studiosi, esperti di storia della retorica e delle sue istituzioni pedagogiche: è del tutto normale, nella storia dell’Occidente almeno, che l’arte del discorso preveda il predominio degli “artisti” rispetto ai teorici, o insomma che alla conoscenza generale (il discorso pubblico la definisce però “astratta”) si preferisca la conoscenza particolare (il discorso pubblico la chiama però “la pratica”). Tanto meglio poi se questa conoscenza è veicolata nella forma dell’esperienza e della parità: è anche, senz’altro, un problema di ideologia inconsapevole, ma è evidente che il lavoro diretto e di prima mano su di un proprio testo letterario presenta una commistione di impegno intellettuale e di soddisfazione narcisistica che può risultare piuttosto coinvolgente.
Se è lecito raccontare un episodio autobiografico, ciò è quanto mi capitò di verificare alcuni anni fa quando partecipai all’organizzazione di un seminario che aveva per sottotitolo “Imparare a scrivere per imparare a leggere” (il luogo era l’Università di Napoli, non ricordo se già intitolata a Federico II; gli altri organizzatori furono: Stefano Jossa, Andrea Mazzucchi e Paolo Trama). Si trattava di una serie di incontri protrattisi per circa sette mesi (novembre 1995-maggio 1996), in cui un gruppetto di dottori e dottorandi, di cui nessuno ancora trentenne, sollecitava gli iscritti a riscrivere secondo diverse contraintes alcuni testi narrativi della tradizione, proponendo volta per volta questioni teoriche e problemi tecnici della scrittura letteraria. Come si può facilmente intendere, fu un’occasione piuttosto divertente, per quanto stancante, di cui i coordinatori furono forse i primi a trarre vantaggio, e che consentì di discutere in termini piuttosto inconsueti di rapporto inizio/fine, di livelli della narrazione, di funzione delle descrizioni, e d’altro. Ovviamente il fine era didattico, e lo scopo esplicito, e pervicacemente ricercato, restava solo quello di “insegnare a leggere”, senza alcuna pretesa di fornire strumenti a dei nuovi potenziali scrittori. In verità, uno scrittore poi emerse da quell’esperienza, uno scrittore oggi anche di notevole successo,. Ma di certo non fu merito nostro; né fu nostra la colpa.
Se evoco questo piccolo episodio di volontariato intellettuale giovanile è per insistere sulla domanda di apertura: «a chi parliamo?» In quel seminario si parlava a degli studenti di Lettere, studenti a noi sconosciuti per lo più, coi quali saremmo poi diventati amici, semmai, ma che all’inizio costituivano il tipico pubblico anonimo delle affollatissime lezioni dei corsi di Lettere dei grandi atenei (ci furono più di 100 iscrizioni, la normalizzazione a 30 frequentanti avvenne solo dopo le vacanze natalizie: cioè dopo ben 3 diverse riscritture della novella di Landolfo Rufolo...). Certo, avevamo dalla nostra la giovane età (solo di poco superiore a quella dei frequentanti), un grande desiderio di trasmettere, una forte vocazione alla riflessione teorica (il che comportò interminabili discussioni notturne mentre leggevamo e “giudicavamo” le riscritture realizzate in aula). Ma la vera particolarità era l’applicazione sul corpo vivo dei testi. Lo strategemma della “riscrittura”, e dunque il coinvolgimento della personalità creatrice dei frequentanti, risultò utile per avviare le attività (e per darci la necessaria soddisfazione iniziale), ma restò uno stratagemma, un espediente, un piège per catturare una richiesta implicita che eravamo convinti fosse la ragione prima di chi si era iscritto a un corso di Lettere: capire la letteratura; capire, in generale.
In un recente intervento (Tre cerchi. Critica e teoria, in «il verri», n° 45, febbraio 2011, pp. 17-31), Daniele Giglioli ha osservato, con Bruno Latour, che oggi, «alla tipica profferta del teorico: ti raccontano favole, ora ti spiego come stanno veramente le cose, si sente sempre più spesso rispondere: grazie, preferirei di no». La difficoltà, è evidente, non è dunque solo del critico, dello studioso, del professore; la difficoltà è di chiunque si presenti in un contesto pubblico rivendicando una forte istanza epistemica, conoscitiva, disvelatrice. Di chi, insomma, si propone di contribuire a una critica dell’ideologia, a una critica del pensiero comune, del buon senso.

Chi ci sta di fronte?

 

In questo senso, non si dovrebbe parlare, per spiegare l’oggi, di mutazione antropologica, che è espressione forse azzardata, se è vero, con Lévi-Strauss, che di mutazioni, in tutta l’esistenza dell’homo sapiens ce ne sarebbero state solo due: con la scoperta del fuoco e con la rivoluzione industriale. Si dovrebbe invece parlare di mutazione sociologica: chi proveniva dalla piccola borghesia, i figli degli operai, degli impiegati di concetto e degli insegnanti (tutti più o meno con lo stesso stipendio) che si iscrivevano a Lettere erano ancora spinti da una richiesta di trasformazione individuale, di ascesa sociale (spesso figurata e raccontata nei modi della rivoluzione collettiva), che li portava a un continuo esercizio critico nei confronti dei linguaggi dominanti e dei dominatori. Ai nostri giorni, invece, i figli dell’ultima generazione che abbia ancora conosciuto la certezza lavorativa, o almeno la chiarezza dei percorsi che vanno dal mondo della formazione al mercato del lavoro, portano una richiesta di assimilazione e di integrazione alla società: vogliono saperci fare, possedere gli strumenti; oppure, come minimo surrogato, desiderano avere un sogno condiviso, una eccezionalità normalizzata. Capire i linguaggi e i meccanismi sociali sembra più importante che demistificarli o contestarli. Da ciò, la richiesta di descrizioni, piuttosto che di spiegazioni.
Lungi da me l’idea di giustificare l’invalsa pigrizia di critici, studiosi e professori, i quali negli ultimi anni si sono per lo più dedicati alla descrizione piuttosto che impegnarsi a fornire spiegazioni, interpretazioni, quadri d’insieme. Ci tornerò poco più avanti. Quel che però, preliminarmente, m’interessa è ipotizzare un identikit dell’ascoltatore anonimo, del lettore anonimo, del “contattante” dei blog letterari (anch’egli “anonimo”, ma, ahimè, appassionato digitatore e “postatore”). Avere voce, ottenere ascolto, intervenire: la pratica diretta (action directe per riprendere una sigla politica famosa al tempo dei fattacci di Genova 2001) è ciò che assicura la presenza, e dunque, ma solo fantasmaticamente, purtroppo, l’esperienza: e così si passa dal generale (l’astratto, dicono) al particolare (il concreto, dicono). L’esperienza pratica, però, significa innanzitutto omologazione, assoggettamento all’identico. E ciò nella tipica modalità subdola dell’illusione di collaborare, di portare il proprio tassello al bene collettivo. In fin dei conti, ecco là wikipedia, che dimostra la bellezza del kolchoz contemporaneo (e anche l’efficacia: se è vero che vi sono in media meno errori che nelle enciclopedie tradizionali). Solo che il General Intellekt è di per sé quanto di più astratto esista; è il meccanismo che consente l’equivalenza universale del capitale (cioè: tutto è merce, anche io mentre sto scrivendo, e tu mentre stai leggendo). Insomma, chi ci ascolta o legge (quando arriva a farlo) ha innanzitutto una richiesta di rappresentatività sociale, di riconoscimento della propria esistenza nel mondo.
Che cosa fa il critico, lo studioso, il professore, il critico per avallare quella richiesta? Nel migliore dei casi, la boccia. È un suo preciso dovere, peraltro. È il dovere di chi, consapevole della logica dei linguaggi sociali, trasmette l’attitudine del disvelamento, della critica delle ideologie. Ma è socialmente apprezzabile una tale attitudine? La difficoltà è concreta, e riguarda la necessità da parte delle figure di cui stiamo parlando di proporre in maniera differente la propria funzione a quei giovani che, in astratto, sarebbero portatori sulla scena del mondo della loro aggressività e della loro spinta al mutamento, ma che in concreto, almeno qui in Italia, non trovano altro spazio (di azione e di rappresentazione) che non sia quello della dipendenza. Non è un fatto di carattere personale (l’ossequio di questo o quel giovane: anzi, è probabile che questa condizione possa realizzarsi addirittura in contrasto con le precedenti forme di subordinazione simbolica). È un fatto di carattere sociale: essere “uno”, oggi, è davvero essere “come un altro”.

“Solum describere”: dove cade la nostra responsabilità

 

Detto ciò, mi sembra tuttavia che non si possa ignorare questa richiesta di presenza, di partecipazione, di valorizzazione del proprio vissuto. Non certo, l’abbiamo già detto, per avallarlo ideologicamente. Ma per indirizzarlo opportunamente verso l’acquisizione di strumenti, di metodi, di attitudini inquisitive, se l’espressione non suona troppo da commissario di polizia: e allora diciamo: di conoscenza.
È per questo, dal mio punto di vista, che l’indebolimento del lavoro critico in Italia è da imputare innanzitutto a critici, studiosi e professori. Perché l’attitudine inquisitiva e problematica sarebbe per natura specifica di quelle tre figure. Altrove (Fare cose con i testi, in «il verri», LVI, n. 46, giugno 2011, pp. 27-42) ho provato a dire che in realtà chi si occupa di letteratura da dentro le istituzioni appartiene a uno strano partito che è al tempo stesso “di lotta” e “di governo”, in quanto deve “governare” la continuità col passato (cioè la trasmissione dei valori acquisiti e delle identità collettive condivise: è un gesto conservatore, per eccellenza, per quanto, per eccellenza, necessario) e al tempo stesso deve spingere alla trasformazione “rivoluzionaria”, all’apprezzamento dell’individuum, del fatto d’arte, di ciò che è socialmente ingovernabile perché rientra nello sfera dell’estetico (non in senso percettivo, ma come congiuntura cognitivo-emozionale). Ebbene, non solo i professori vivono in questa difficile contraddizione, ma anche gli studiosi (che devono ragionare tanto sulla eccezionalità quanto sull’orizzonte di riferimento che è la “normalità”), nonché i critici, i quali, occupandosi del concetto di “valore”, devono sempre aver presente quali siano i “valori condivisi”.
Piuttosto che misurarsi con questa difficile, contraddittoria, a volte imbarazzante condizione, professori studiosi e critici hanno optato piuttosto per la descrizione. Dismettendo il loro tradizionale compito di mediatori e selezionatori (krinein: passare al setaccio, ricordava Battistini con Starobinski nell’incontro di fine gennaio a Bologna), queste tre figure, talvolta uni e trini, si sono indirizzati verso una più comoda posizione agnostica.
E poi c’è, soprattutto nel caso dei critici, la questione della moltiplicazione della produzione letteraria, che secondo alcuni (per es. Alfonso Berardinelli una diecina di anni fa a proposito della scrittura poetica in Italia) rende il campo del tutto impraticabile: non si può più fare critica perché si scrive troppo. È una situazione contraddittoria, non troppo diversa da quel che successe all’imperatore Carlo V il giorno della sua incoronazione a Bologna nel 1530. Pare infatti che fosse usanza dei neo-imperatori presentarsi in pubblico per investire ritualmente del cavalierato chiunque venisse loro incontro. Ebbene, sopraffatto dal tumulto, il già gottosto, benché a stento trentenne Carlo, impose la sua spada a destra e a manca, finché, protetto dalla sua guardia, scappò urlando a più riprese «No puedo más, no puedo más» (“non ne posso più”). Ecco, il critico sembra quasi costretto al gesto dell’imperatore cinquecentesco, cambiando solo formula, da todos caballeros a “tutti scrittori!”

 

Dalla descrizione alla discrezione? Una bozza di proposta

 

Mi scuso per l’attraversamento troppo corsivo di questioni che sono invece del tutto decisive per il nostro lavoro e la nostra identità sociale e che pertanto meritano ulteriori incontri e scambi non solo nel più ristretto circuito di chi si occupa di letteratura in senso professionale, ma anche nel più ampio ambito di tutti coloro che riflettono sullo stato dell’opinione pubblica e sulla formazione dei linguaggi sociali oggi in Italia (e fuori). Un allargamento della discussione di questo tipo potrebbe realizzarsi anche attraverso l’ottimo strumento di griselda on line, che semmai potrebbe diventare un duplice luogo d’incontro, al tempo stesso fisico-concreto (come nel seminario di gennaio a Bologna) e virtuale (on line, appunto). Nello spirito dell’allargamento sarebbe peraltro importante coinvolgere chi proviene da altri settori disciplinari, in particolare storici, sociologi e antropologi. Pur avendo addebitato allo spirito descrittivo parte della nostra responsabilità collettiva, mi pare però necessario aggiungere la necessità di tornare a un lessico ampiamente condiviso e soprattutto ripetibile, trasmissibile, che costituisca lo standard cognitivo di base: per andare oltre la descrizione, ma a partire da descrizioni ben definite (e ben fatte). In questo senso, sono fermamente convinto che la mia generazione, e tanto più le generazioni successive, hanno tutto da guadagnare nel recupero delle categorie provenienti dalla retorica, innanzitutto, e in secondo luogo dall’analisi del racconto. Più dubbi ho invece nei confronti degli elenchi e delle scansioni in cui si accaniscono i metricologi, sebbene abbia una sincera ammirazione per la loro sapienza tecnica (in particolare quando è accompagnata da acuzie interpretativa).
Nella parentesi appena chiusa si annida il mio ulteriore abbozzo di ragionamento, che è poi forse soltanto l’accorato invito a che si torni all’interpretazione. Interpretare è una pratica fondamentale; è quella traduzione o mediazione che ci compete prima di ogni altra. Anche per questo accennavo a un discorso generazionale. Certo non perché mi interessi la prospettiva T-Q (che pure comprendo, ma che non posso condividere del tutto); al contrario, l’interpretazione in quanto pratica è tanto più ricca e promettente quando si presenta come campo nel quale si misurano richieste e istanze diverse, anche dal punto di vista generazionale (al contrario, la verticalità professore-alunni può portare alle declinazioni un po’ coatte su cui si soffermò a suo tempo Stanley Fish: ricordate C’è un testo in questa classe?). Se avanzo un ragionamento che riguarda l’età, la mia età e di alcune delle persone con cui mi confronto è solo per dire che il fatto di essere cresciuti in un’epoca di indebolimento dei modelli teorici forti, in particolare marxismo, strutturalismo e psicoanalisi, può essere stato forse faticoso a suo tempo, quando si apprendevano con fatica concetti e metodi che nel frattempo erano contestati in tutto il mondo occidentale, ma è un paradossale vantaggio oggi, quando ci è possibile valorizzare il nostro eclettismo e adattare i metodi e le prospettive ai testi o alle questioni che più ci interessano.
Gli ultimi due abbozzi di sollecitazioni che mi permetto, forse troppo sfrontatamente, di proporre riguardano in prima istanza i nostri consanguinei, e in seconda i nostri vicini. I primi sono ovviamente i filologi, ai quali è stato attribuito negli ultimi circa venti anni il primato nei nostri ambiti di ricerca e riflessione. Non ho nulla contro la filologia, e addirittura mi possono appassionare la logica stemmatica e le discussioni di teoria ecdotica; ma credo che potremmo finalmente tornare a pensare a quella illustre disciplina come a un’altra delle pratiche interpretative, e non solo come a una rigorosa attività descrittiva. È quel che è stato fatto per troppo tempo, rifugiandosi un po’ tutti nella credenza (che è, appunto, solo una credenza) che manoscritti, edizioni a stampa, grafie e frontespizi siano prodotti sì culturali, che chiedono però innanzitutto la nostra specializzazione tecnica: a me pare invece che, con i suoi strumenti specifici, benintesto, il filologo sia sempre anche un antropologo, e soprattutto un semiologo della cultura, che ragiona per modelli di mondo, per sistemi strutturali, per insiemi di senso; se si limita alla perimetrazione di un unico individuo (testuale), questo, per quanto non ineffabile, come voleva Spitzer, all’orecchio non potrà che sussurrargli poche stente formulette da manuale di storia della letteratura.
I nostri vicini sono invece gli storici. Gli storici positivi. La questione circola da un po’ di tempo tra i letterati, perché un po’ ha bruciato, come un “buffetto” sulla guancia, il fatto che la più recente ricostruzione della letteratura italiana che non abbia solo ambizione scolastica, cioè l’Atlante della letteratura italiana, abbia come co-curatore uno storico, il quale, per quanto eccellente studioso delle sue cose, non aveva specifici meriti nella ricerca letteraria. Non si tratta solo di un problema degli storici della letteratura, anche nel campo della storia del cinema (e in verità spesso facendo guai parecchio più grossi) gli storici “positivi” hanno assunto negli anni un posto di rilievo (e invece, per precedente tradizione, le cattedre di storia del cinema erano ampiamente ricoperte proprio da chi veniva dagli studi letterari...). Il fatto meriterebbe una riflessione seria, ma a me pare di poter dire che, al di là della forza della categoria e del suo radicamento nei mass-media e nell’editoria, gli storici (alcuni storici, beninteso) abbiano oggi tre meriti: 1) di aver continuato a ragionare su categorie ampie; 2) di aver ribadito il valore conoscitivo del loro oggetto e dei loro metodi; 3) di aver sfruttato sagacemente la richiesta di un sapere divulgato e facilmente assimilabile (è il caso dei documentari televisivi, per esempio). Il mio convincimento è che coloro cui parliamo quando parliamo di letteratura desiderino proprio queste tre cose: 1) che la letteratura (l’arte del discorso) sia un modo per accedere a questioni ampie, ancora sentite come vitali (si pensi all’interessante dibattito sul realismo dopo il successo di Gomorra, qualunque sia il nostro giudizio in proposito); 2) che la letteratura costituisca un’occasione di conoscenza, e che pertanto la saggistica, le lezioni, gli articoli critici che ne parlano indirizzino verso una tale conoscenza; 3) che il sapere sulla letteratura sia fruibile anche attraverso canali di più ampio consumo, che però garantiscano l’adeguato livello di competenza (un solo esempio: edizioni di classici che in nota non si limitino a elencare fonti).
Se almeno in parte ho ragione, allora uno dei percorsi che abbiamo innanzi è quello che potrà forse farci passare dallo specialismo troppo ristretto a una forma aggiornata di storia della cultura che legga la letteratura (l’“arte del discorso”) come grande serbatoio e collettore dell’immaginario sociale, nonché come canale di organizzazione, e talvolta addirittura come forma di costruzione, delle emozioni. È un terreno scivoloso, per certi versi, ma che credo dovremmo finalmente deciderci di tornare a praticare; ben equipaggiati certo, e senza abbandonare mai la necessaria descrizione degli aspetti specificamente letterari: ma appunto per impegnarci in maniera consapevole nella nostra prima “missione”: l’interpretazione come mediazione, ossia come uso “discreto” del setaccio.