I contenuti e il «contatto»

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Il recente intervento di Settis su un presunto predominio attuale del “come” insegnare a scapito del “cosa” ha un grosso difetto di fondo: non è informato dei fatti e dei dati a disposizione, dicono due docenti universitari. Due docenti universitari rispondono all’articolo di Salvatore Settis uscito il 15 marzo sul «Fatto Quotidiano» e ripreso poi dal blog “Emergenza cultura”, intitolato “Scuola, la catena del sapere spezzata”, in cui l’archeologo sostiene che «Negli ultimi decenni è passato il principio in base al quale si può insegnare solo a patto di sapere come, non che cosa. Così i contenuti si perdono, l’insegnamento diventa un rituale burocratico».

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Gentile prof. Settis,
ci occupiamo da anni di scuola, con vari ruoli; abbiamo insegnato in diversi contesti e fatto ricerca educativa sul campo, raccogliendo dati sulla percezione di insegnanti su vari temi (come la valutazione come forma di controllo, o il rapporto tra conoscenze e competenze); abbiamo lavorato fianco a fianco di molti insegnanti per sperimentare e per controllare gli esiti delle sperimentazioni, per provare a produrre un apprendimento maggiore, migliore, consapevole. Abbiamo lavorato insieme ai dropout, quelli già dati per “persi”, abbiamo ascoltato gli studenti, abbiamo letto colleghi e colleghe, italiane e non, su questi temi. E infine abbiamo letto il suo intervento, e, ritenendoci persone informate dei fatti nonché chiamate in causa, ci permettiamo di risponderle.

Lei si dice preoccupato della burocratizzazione che sta investendo la scuola e l’università. Lo siamo anche noi. Riteniamo, come lei, che per iniziare a contrastarla sia necessaria un’«idea di futuro»; siamo altresì convinti però che tale idea non possa prescindere da un’analisi dei processi in atto nel presente dotata di un minimo di fondamento. Apprezziamo la sua scelta di definire «buoni maestri» quanti «praticano con passione e impegno il proprio mestiere e sanno comunicare ai giovani curiosità, interesse, entusiasmo». E concordiamo sul fatto che la trasmissione di conoscenza debba essere stimolata dall’«appassionata pratica di un sapere e dal conseguente desiderio di trasmetterlo ai più giovani».

C’è tuttavia un passaggio, nel suo pezzo, che ci sembra poco chiaro, ed è il seguente: «la conoscenza si propaga per contatto fra esseri umani, e sono i contenuti che ne assicurano il travaso da una generazione all’altra». Cosa intende per «contatto»? Cosa significa che i contenuti assicurano un «travaso» di conoscenze da una generazione all’altra, come accadrebbe ciò? Quale ruolo ha tale «contatto» rispetto al «propagarsi» della conoscenza? E se questo «contatto», incentrato su una «appassionata pratica del sapere», ha un ruolo in quello che lei definisce «travaso» di conoscenza, possono le scelte che lo riguardano essere considerate marginali?
Gentile professore, cosa significa che i contenuti assicurano un «travaso» di conoscenze da una generazione all’altra, come accadrebbe ciò?Ci pare di capire che la sua risposta in merito sia un  deciso, chiaramente espresso nella sottile domanda retorica che chiude il suo contributo. Secondo lei le modalità relative a tale «contatto» non sono degne di essere oggetto di adeguata formazione. È una risposta che non solo ci appare poco coerente rispetto alle premesse, ma risulta anche frutto di una serie di argomenti basati su contenuti (proprio loro) del tutto inconsistenti. E i contenuti, concorderà sicuramente, hanno una certa rilevanza.
D’altra parte, lei stesso scrive che «anche i migliori esperti non hanno virtù taumaturgiche», dunque ci perdonerà se condividiamo alcune perplessità in merito alle modalità attraverso le quali ha condotto la sua diagnosi, modalità che sembrerebbero non tener conto di obiettivi di «vigilanza intellettuale sulle informazioni ricevute e sulle nozioni correnti», di quel «desiderio di controllare quel che ci vien detto» che, ne conveniamo, rappresentano abiti fondamentali da sviluppare nelle nuove generazioni.

Lei scrive che sarebbe «di moda credere che per insegnare matematica o storia non basta conoscere bene queste discipline, ma è indispensabile praticare qualcos’altro, che le supera e le contiene: la didattica della matematica, la didattica della storia».
Quale pedagogista avrebbe espresso la volontà di sostituire la didattica ai contenuti? A chi si riferisce?Noi riteniamo, è vero, che per insegnare storia o matematica sia necessario conoscere diversi metodi didattici, in modo tale da poter scegliere quello più adatto ai vari contesti. Ma non capiamo come questo possa implicare che la didattica, e dunque il come, superi o contenga il cosa, ovvero la conoscenza della storia o della matematica. Eppure è esattamente questo quello che lei rimprovera alla pedagogia: «Questa perniciosa petitio principii ha infettato le nostre menti, ma anche le circolari ministeriali, i meccanismi di reclutamento e di valutazione. La didattica, o pedagogia che dir si voglia, tende così a diventare non un sapere fra gli altri, bensì una sorta di super-disciplina che pretende di superare o contenere tutte le altre. Di conseguenza, si può insegnare solo a patto di sapere come, non che cosa».

La confusione da lei operata tra didattica e pedagogia tradisce lacune che dovrebbero suggerire una maggiore circospezione nel giudizio, tuttavia qui interessano natura e genesi di tale giudizio. Quale pedagogista avrebbe espresso la volontà di sostituire la didattica ai contenuti? Non abbiamo notizia di colleghi che manifestino ora o abbiano manifestato in passato una pretesa del genere. A chi si riferisce?
Per quel che ne sappiamo, le scienze dell’educazione assegnano alla didattica un ruolo rilevante, considerandola a sua volta oggetto d’insegnamento. Tuttavia, diversamente da quanto lei sostiene, la didattica mai è stata considerata elemento in grado di sostituirsi a un’approfondita conoscenza della disciplina. La pedagogia e la didattica postulano in realtà un rapporto dialettico tra come, cosa, perché e a chi insegnare. Un rapporto molto più complesso della sua contrapposizione tra come e cosa.

Su quali evidenze empiriche basa la sua affermazione relativa alla diffusione di questa visione della didattica come super-disciplina, di questa spasmodica ed esclusiva attenzione al come e non al cosa, secondo cui «si può insegnare solo a patto di sapere come, non che cosa» (corsivo nostro)? Noi abbiamo informazioni diverse, e però, a differenza di quanto fatto da lei, riteniamo corretto condividerle. Una parte di esse è relativa alle prassi, un’altra ai prerequisiti per insegnare.

Prendiamo l’indagine TALIS, una ricerca, ripetuta ogni cinque anni, che ha come principale obiettivo quello di esaminare rilevanti aspetti dell’attività professionale degli insegnanti: i loro orientamenti pedagogici, le loro pratiche didattiche, la loro interazione all’interno della scuola con i colleghi e la dirigenza scolastica. L’indagine in corso1 si sta svolgendo contemporaneamente in più di 45 Paesi in tutto il mondo, ed è giunta al terzo ciclo di attuazione; a emergere sono le opinioni e le esperienze degli insegnanti e dei dirigenti, non di pedagogisti, esperti di didattica, filosofi dell’educazione o sperimentalisti. Una fonte interessante, ai fini del suo e del nostro ragionamento. L’ultima indagine compiuta è quella del 2013; la prossima, relativa al 2017 e 2018, sarà disponibile nel 2019. Vediamo qualche risultato.

I docenti italiani, stando ai dati, ricorrono prevalentemente all’interrogazione davanti a tutta la classe come principale modalità di valutazione degli studenti (80% Italia, 49% Paesi TALIS). Altra differenza rispetto agli insegnanti degli altri paesi è che diffidano della modalità d’insegnamento costruttivista. Gli insegnanti italiani sono per la maggior parte convinti dell’efficacia dei metodi tradizionali d’insegnamento, caratterizzati da lezioni frontali e dalla trasmissione orale delle conoscenze. Le pratiche da loro meno utilizzate sono quelle cosiddette “attive”, come ad esempio l’apprendimento collaborativo e in piccoli gruppi, pratica che risulta (Hattie, 2008; 2011)2 altamente produttiva per attivare negli studenti il conflitto cognitivo3 e la ricerca collettiva di soluzioni ai problemi.

Non è questa la sede per entrare nel dettaglio o esprimere valutazioni su tali prassi, che come tutte le prassi funzionano se applicate in maniera intelligente e consapevole; quel che preme sottolineare è che il rapporto rivela chiaramente come non vi sia stata alcuna rivoluzione metodologica rispetto al passato in questo campo: l’ossessione riguardo al come non è diffusa come da lei paventato.

Non vi è stata alcuna rivoluzione metodologica rispetto al passato in questo campo: l’ossessione riguardo al come non è diffusa come da lei paventato.E ancora: nell’ambito dei 34 Paesi TALIS dell’indagine 2013, l’Italia detiene il primato della classe insegnante più anziana (6 anni in più rispetto alla media TALIS). Alla maggiore anzianità media dovrebbe corrispondere anche un maggior patrimonio di esperienza professionale. In linea con gli altri Paesi, la maggior parte dei nostri docenti ha condotto studi di livello universitario. Ma una quota maggioritaria dei nostri docenti di secondaria di I grado è entrata nell’insegnamento senza aver ricevuto una specifica formazione nella pratica didattica in una o più delle materie insegnate (52% Italia vs 11% Paesi TALIS). Questi dati sconfessano quanto da lei sostenuto in merito a un reclutamento totalmente incentrato sul come e non sui contenuti.

Se facciamo poi riferimento alle modalità di reclutamento più recenti, tanto la SSIS, quanto TFA e FIT prevedevano e prevedono come prerequisito di accesso una qualificazione specifica sul cosa. Al percorso abilitativo per insegnare matematica, ad esempio – e pare scontato dirlo – non entra nessuno che non sia matematico, ovvero che non sia laureato in matematica e/o non abbia superato specifici esami di matematica: così fu per la SSIS, così è stato per il TFA, così sarà per la FIT. Ma i contenuti disciplinari non solo hanno costituito e costituiscono un elemento imprescindibile per accedere a SSIS, TFA e FIT, hanno anche avuto spazio all’interno degli stessi percorsi, giacché tali percorsi non erano e non sono interamente basati su tirocini e insegnamenti legati alla metodologia. E aggiungiamo che chi si occupa di didattica della matematica è un matematico, non un pedagogista: abbiamo l’impressione che a lei sfugga anche questa informazione.

Gentile prof. Settis, quante ricerche di pedagogia o di didattica (visto che per lei sono sinonimi, un po’ come se le dicessimo che l’archeologia classica e la storia antica sono la stessa cosa) ha letto negli ultimi 20 anni? Tra queste, quante ricerche con evidenze (qualitative o quantitative) raccolte sul campo? Quando è stato per l’ultima volta in una classe? Quando in una classe non di liceo? Con quanti studenti ripetenti ha parlato negli ultimi dieci anni? Con quanti studenti non eccellenti ha parlato negli ultimi dieci anni? Le è successo di fare una Gentile professore, quando è stato per l’ultima volta in classe? Conosce la differenza tra conferenza e lezione?lezione, negli ultimi venti anni, a qualcuno che non fosse come minimo un normalista (non parliamo di conferenze, che sono un’altra cosa, ma di lezioni)? Potrebbe raccontarci le scuole che ha visitato, se ha potuto osservare le pratiche didattiche in esse condotte, i libri di testo adottati, se si trattava di licei, di tecnici, di professionali? Ha idea delle percentuali di dispersione scolastica? Lo sa che la dispersione è prevedibile sulla base delle condizioni familiari (socio-economiche e culturali)? Che cosa sa dell’effetto che il reddito e l’istruzione dei genitori hanno sul successo formativo dei figli? Ha insegnato nelle varie SSIS, TFA, PAS, pre-FIT? Ne conosce i criteri e le modalità di accesso?

Il suo intervento ci lascia dunque sgomenti, tanto per cosa sostiene quanto per come lo fa. Lei non cita un solo riferimento teorico o empirico, ma spaccia un’impressione personale per un dato di fatto, liquidando 150 anni di ricerca educativa in poche battute. Cui prodest?
Insomma, diciamocelo: non si è impegnato molto. Per potersi permettere un’opinione così netta e negativa nei confronti di un’intera disciplina bisogna studiare molto di più.

Federico Batini (Università di Perugia)
Cristiano Corsini (Università di Chieti)


NOTE

1. La guida alla lettura con Focus sull’Italia dell’indagine 2013 è disponibile online. L’indagine ha coinvolto 34 paesi mentre la prossima edizione, in elaborazione, comprenderà 45 paesi. Il progetto TALIS è un’indagine periodica, ripetuta ogni cinque anni. Scopo principale dell’indagine è di elaborare un quadro comparativo di indicatori internazionali, utili a sostenere i Paesi nello sviluppo delle loro politiche sull’insegnamento, sull’apprendimento e sui docenti. L’indagine è giunta al terzo ciclo di attuazione e costituisce una preziosa occasione per dare voce al vissuto di dirigenti e insegnanti nella scuola. È una miniera di informazioni che, in un’ottica comparativa internazionale, restituisce ciò che gli insegnanti e i capi d’istituto riferiscono sulla loro formazione e la loro esperienza di lavoro. L’elaborazione dei dati raccolti dall’indagine fornirà, pertanto, indicazioni importanti per orientare le politiche scolastiche e l’offerta formativa delle scuole anche attraverso la comparazione dei dati italiani con quelli rilevati negli altri Paesi partecipanti. L’edizione in corso ha già svolto la fase di field test (nel 2017) e nel 2018 si sta svolgendo la fase di ricerca vera e propria (main study).

2. Hattie, John A. (2008). Visible Learning: A Synthesis of Over 800 Meta-Analyses Relating to Achievement. ISBN 0-415-47618-6; Hattie, John A. (2011). Visible Learning for Teachers: Maximizing Impact on Learning. ISBN 0-415-69015-3.

3. Si tratta di un conflitto intraindividuale che avviene tra la mente e l’ambiente. Per ridurre tale tensione, si mettono in atto strategie specifiche di soluzione che permettono di “integrare” l’ambiente alla mente, raggiungendo così l’equilibrio. Vengono utilizzate funzioni quali l’assimilazione (incorporazione dell’informazione all’interno di schemi già esistenti), e l’accomodamento (modifica dei propri schemi per introdurne dei nuovi). Sarebbero molti altri i termini, i concetti e i costrutti da spiegare ed è per questo che si studiano, tra l’altro, le scienze dell’educazione. Difficile sostenere che un insegnante debba conoscere (e su questo ovviamente concordiamo) i contenuti disciplinari (per usarli come mezzi e non come fini) ma non debba avere idea di quale sia la modalità attraverso la quale i propri studenti apprendono, cosa favorisce il loro apprendimento e cosa lo ostacola… il rischio di una confusione tra insegnante e conferenziere sarebbe alto. Per noi, lo confessiamo, è stato molto faticoso scrivere questa risposta cercando di evitare, il più possibile, termini tecnici, o troppi riferimenti a ricerche italiane e internazionali.

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Cristiano Corsini

è professore ordinario di Pedagogia sperimentale all’Università Roma Tre. Si occupa di valutazione in campo educativo e di indagini nazionali e internazionali sull’efficacia e sull’equità di scuole e sistemi d’istruzione. Tra i suoi lavori: “La valutazione che educa” (2022, in pubblicazione), “Evaluating educational quality” (2021, con C. Tienken e M. Tomarchio ), “Valutare scuole e docenti” (2015), “Il valore aggiunto in educazione” (2009).

Federico Batini

Insegna Metodologia della ricerca educativa, dell’osservazione e della valutazione, Pedagogia sperimentale e Consulenza pedagogica all’Università degli Studi di Perugia. Ha fondato e dirige le associazioni Pratika e Nausika, da cui è data la LaAV. È autore Loescher. federicobatini.wordpress.com

Redazione La Ricerca

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