Scopri la tesi di Elena Morrone, che analizza come il giornalismo affronta la 𝘃𝗶𝗼𝗹𝗲𝗻𝘇𝗮 𝗱𝗶 𝗴𝗲𝗻𝗲𝗿𝗲, esplorando l’impatto della narrazione mediatica sulla percezione sociale di questo tema.
Pubblicato il 16 aprile 2021 | Tesi di laurea
Il tema della violenza di genere è uno degli argomenti principali di dibattito nella società odierna. A tal proposito, il modo in cui viene narrata incide particolarmente sulla percezione che i lettori ne hanno. Questo è il tema principale della Tesi di laurea in Media Digitali e Genere di Elena Morrone, neo-laureata ed ex redattrice del nostro blog, che andremo ad analizzare in questo articolo.
Come ci spiega Elena nel suo elaborato, supportato dalle relatriciSaveria Capecchi e Pina Lalli, “la violenza è multiforme: fisica, psicologica, economica, verbale. Essere vittime di violenza di genere significa subire un evento traumatico che può avere conseguenze sul proprio benessere, psicologico e fisico. Una delle forme di questa violenza è non saperla raccontare.”
La questione linguistica assume così una particolare rilevanza nel mondo del giornalismo, che, per definizione, si pone come una mediazione intellettuale tra quanto accade nella realtà e la diffusione della sua esistenza. I professionisti della narrazione hanno la responsabilità sociale di sollecitare i cittadini a prendere conoscenza di tematiche di interesse generale.
Nel nostro Paese, come strumento a supporto del giornalista, vi è il diritto di cronaca. Si tratta della possibilità di raccogliere, elaborare e divulgare informazioni di interesse generale, rispettando la relazione tra quanto accaduto e quanto narrato.
Tuttavia, nel panorama odierno, non è solo il giornalista che tende a dare forma alla realtà, ma ci sono anche altri due attori: i social media, in generale, e gli utenti, in particolare. Strumenti come i siti di social networkingsono canali di distribuzione delle notizie e portano con loro alcune conseguenze come l’information overload – ovvero il sovraccarico informativo dovuto alla diffusione di un elevato numero di notizie che possono anche inibire il processo interpretativo della persona. Anche gli utenti, scrivendo commenti, creano interazioni e aggiungono informazioni, influenzando, in modo diretto o indiretto, il resto dell’opinione pubblica.
Appurati questi ruoli, lo studio di Elena introduce una approfondita ricerca sulla narrazione giornalistica della violenza di genere. L’elaborato prende in considerazione tre casi esemplificativi:
1) La violenza sessuale subita da una diciottenne, per cui è stato accusato Alberto Genovese, nel 2020. Questo caso ha avuto un’ampia risonanza mediatica, nonostante sia il più recente, favorendo l’information overload: molti articoli si sono concentrati sull’analisi della sua vita imprenditoriale e sul suo stile di vita, fornendo particolari irrilevanti e mettendo da parte la versione della vittima. Questa attenzione mediatica è stata confermata anche con l’analisi dei commenti sulle pagine Facebook delle testate giornalistiche che si sono concentrati su aspetti ininfluenti e poco utili all’interpretazione dei fatti. Ciò è avvenuto anche a causa dell’alto profilo dell’accusato che non solo ha scaturito molto interesse, ma si è posto anche, in alcuni casi, come una giustificazione implicita per quanto avvenuto;
2) Il femminicidio di Elisa Pomarelli, nel 2019. Questo caso ha registrato una risonanza mediatica inferiore rispetto agli altri due casi, mostrando anche una certa difficoltà nel descrivere la relazione che c’era tra la vittima e l’accusato. Infatti, la storia è stata narrata sotto forma di “omicidio passionale” dove l’“amore” è stato descritto come un movente per l’assassinio. Inoltre, a pochi giorni dal ritrovamento del cadavere, i giornali hanno pubblicato una notizia sull’orientamento sessuale della ragazza, violando la sua privacy;
3) Il caso di stupro ai danni di due studentesse americane per il quale sono stati condannati due – ora ex – carabinieri, nel 2017. Questo caso ha ricevuto molta attenzione dalla stampa, che ha coinvolto anche personaggi pubblici come il Sindaco di Firenze (luogo della violenza), l’ex Ministro dell’Interno Matteo Salvini e il Comandante dell’Arma dei Carabinieri. In questo modo, la versione delle due vittime è passata in secondo piano ed è stata in dubbio anche a causa della pubblicazione di fake news sul caso. Infatti, la prima riportava che le due ragazze avevano stipulato una polizza antistupro prima della partenza per l’Italia; la seconda riguardava una statistica secondo la quale la maggior parte delle denunce per stupro, da parte di studentesse straniere, fosse falsa. Entrambe le informazioni sono risultate infondate ma i giornali non le hanno rettificate, determinando così, anche su Facebook, numerosi commenti negativi o offensivi nei confronti delle vittime.
Per eseguire la ricerca, Elena ha analizzato una serie di articoli che sono stati pubblicati online da sei testate giornalistiche nazionali da settembre 2017 a dicembre 2020. Sono state analizzate due variabili: la copertura mediatica di ciascun caso e il contenuto di alcuni articoli esemplificativi.
Per la prima variabile, dopo aver raccolto gli articoli dagli archivi delle testate, Elena li ha classificati in base all’argomento (articoli sulla versione dell’accusato, articoli sulla versione della vittima, ecc). Per la seconda variabile, si è occupata di analizzare la titolazione, il campo semantico delle parole e i frames narrativi. In più, per registrare la percezione che gli utenti hanno avuto di questa narrazione, ha analizzato i commenti ai post degli articoli sulle pagine Facebook delle testate.
Come ci spiega Elena, “in generale, i giornali hanno trattato i casi di violenza di genere in modo approssimativo: spesso sono stati utilizzati termini impropri o strategie narrative che hanno incasellato le violenze in frames narrativi inadatti a spiegare quanto avvenuto. In particolare, ci sono stati articoli che hanno fatto un uso massiccio dello storytelling, dando spazio agli elementi narrativi piuttosto che al fatto in sé. Oppure sono stati utilizzati termini sensazionalistici che hanno appagato la mera curiosità del lettore ma non hanno contribuito al processo interpretativo del fatto. In questo modo, si è registrata anche una difficoltà nel collegare il singolo evento al fenomeno più grande e diffuso che è la violenza di genere.”
Per arricchire l’elaborato, Elena ha scelto di intervistare due figure esperte in questo ambito: il Presidente dell’Autorità Garante per la Protezione dei Dati Personali, Pasquale Stanzione, e la Presidente di Giulia – Giornaliste Unite Libere e Autonome, Silvia Garambois. In particolare, il contributo di Stanzione ha chiarito come, nel caso di Elisa Pomarelli, fosse necessario per il giornalista bilanciare il principio del diritto di cronaca con quello dell’essenzialità, allo scopo di preservare i dati personali della vittima. In altre parole, la pubblicazione dell’informazione riguardante la sfera privata della persona deve essere indispensabile per comprendere ciò che era avvenuto. Seguendo questo criterio, la professione giornalistica sceglie quali informazioni personali pubblicare, stabilendo se sono effettivamente necessarie al fine dell’interpretazione del fatto. Per questo motivo, “è tanto importante quanto difficile relazionarsi con questi casi particolari, che divengono per il giornalista una sfida. Tuttavia, ciò non deve trasformarsi né in una strumentalizzazione della privacy della vittima né in una banalizzazione del linguaggio, scegliendo la strada più facile”. La Presidente Garambois, invece, ha sottolineato come vi sia una certa reticenza ad utilizzare determinati termini, come femminicidio, per descrivere la violenza di genere, dovuta anche alla difficoltà per il giornalista di “liberarsi da questa cultura piena di pregiudizi che abbiamo ereditato tutti”.
In conclusione, dalla ricerca effettuata da Elena, possiamo affermare che il giornalista che si approccia alla violenza di genere dovrebbe assumere un atteggiamento analitico, soffermandosi sul racconto delle cause e, soprattutto, riflettendo maggiormente sulle conseguenze che il suo racconto può avere. Si dovrebbe costruire un vero e proprio “puzzle” del fenomeno, evitando qualsiasi forma di pregiudizio o giustificazione, seppure implicita: in questo modo il giornalista non solo sarà in grado di decodificare il fatto per proporlo al lettore, ma contribuirà egli stesso al contrasto della violenza di genere.
Carmine Pisano
Elena Morrone