Un viaggio nel mondo della moda 𝘁𝗿𝗮 𝗽𝗿𝗼𝗺𝗲𝘀𝘀𝗲 𝗴𝗿𝗲𝗲𝗻 𝗲 𝗿𝗲𝗮𝗹𝘁à: scopri come il settore affronta la sfida della sostenibilità, tra innovazioni autentiche e rischi di greenwashing.
Pubblicato il 08 luglio 2024 | Comunicazione Ambientale
Tutti i giorni ormai sentiamo un vocabolo usato sempre più spesso, nei telegiornali, all’interno di programmi televisivi e radiofonici: sostenibilità.
Il termine sostenibilità (forse spesso abusato), concerne il nostro modo di vivere a tutto tondo, il cosiddetto “stile di vita”. Si potrebbe aprire una parentesi infinita riguardo questo tema, ma oggi vorrei soffermarmi sul settore della moda.
Sentiamo spesso parlare di “moda sostenibile”, ma cos’è veramente?
Facciamo un po’ di chiarezza!
Si parla di moda sostenibile quando l’intera filiera di produzione mira ad instaurare un rapporto armonioso nel rispetto dell’ambiente e dei lavoratori, utilizzando materie prime certificate e garantendo adeguate condizioni di lavoro ed un’equa retribuzione.
Partendo dai materiali, l’eco sostenibilità in quest’ambito, prende in considerazione il materiale di cui il prodotto è composto (per esempio se viene usato cotone organico), il processo di tintura del materiale (se viene eseguito con prodotti chimici oppure con coloranti naturali come per esempio attraverso verdure) ed infine la quantità d’acqua utilizzata per la realizzazione del tessuto.
Alcuni materiali sostenibili sono:
– Econyl, ossia nylon rigenerato dalle reti da pesca ed altri materiali recuperati in mare;
– Cotone organico, cotone coltivato in modo biologico;
– Repreve, fibra realizzata attraverso il riciclo di bottiglie di plastica;
– Lyocell e Modal, ossia due tessuti artificiali di origine naturale, estratti da piante di Eucalipto il primo e di Faggio il secondo, la cui produzione è certificata dal marchio Tencel.
Le materie prime provenienti da coltivazioni che non utilizzano pesticidi, fertilizzanti sintetici, OGM, o altri prodotti chimici, vengono definiti organici.
Il settore tessile con i suoi 1,2 bilioni di tonnellate annuali di co2 supera la somma delle emissioni dovute al trasporto aereo e marittimo, inoltre è una delle cause principali del riscaldamento globale ( dati attestati su un articolo pubblicato dal sito iodonna.it in data 20 novembre 2019); quindi la scelta di fibre che rispettino il pianeta è un ottimo punto di partenza. Parlando invece di consumi, il carbonio è una scorciatoia per tutti i gas serra, che assorbono ed emettono energia radiante che aumenta la temperatura della superficie terrestre e contribuisce al cambiamento climatico. Un’azienda eco sostenibile dovrebbe mirare all’eliminazione di tutte le emissioni di carbonio dalla propria catena di fornitura.
Per quanto concerne la filiera di produzione, si parla di cruelty free, ossia privo di crudeltà, quando le aziende durante la produzione non hanno né ferito né ucciso in nessun luogo e non hanno testato ingredienti e/o prodotti sugli animali. Solitamente chi soddisfa questi standard, lo attesta inserendo nei prodotti un simbolo a cuore; mentre si parla di prodotti vegani quando non utilizzano alcun derivato di origine animale.
Per quanto attiene alla parte “umana” del concetto di sostenibilità, il crollo della fabbrica tessile Rana Plaza in Bangladesh ha portato l’attenzione sulle infernali condizioni in cui i dipendenti erano costretti a lavorare.
In quel palazzo lavoravano più di 3000 persone, pagati meno di 30 euro al mese per cucire 12 ore al giorno (dati attestati da un articolo pubblicato nel sito Ansa.it in data 4 dicembre 2019) Da quel momento in poi non fu più possibile tenere chiusi gli occhi su cosa sta dietro il capo che compriamo. Controllare l’intera filiera produttiva è una delle sfide principali che ha la moda davanti a sé se davvero vuole essere etica; questo discorso vale sia per le firme costose che per il basso costo.
Assieme al concetto di “moda sostenibile”, spesso si accompagna quello di “Fast Fashion”, ossia un tipo di abbigliamento prodotto in modo economico e rapido; è una moda di bassa qualità, con tendenze stagionali o settimanali, a basso costo per quanto riguarda sia la vendita che i salari. Questo tipo di moda ha ovviamente un negativo impatto ambientale.
Al lato opposto troviamo invece la “Slow Fashion”, ossia attraverso l’acquisto di ciò di cui si ha veramente bisogno o destinato a durare nel tempo; in questo caso si parla di consapevolezza d’acquisto, di che impatto avrà a livello di sostenibilità ambientale ed umana.
Ultimamente molti noti marchi di abbigliamento stanno pubblicizzando il loro essere green e sostenibili, ma attenzione. Lo sono veramente? Come fa un capo a costare molto poco ed essere sostenibile? Potrebbe avere effettivamente una linea di prodotti sostenibile, ad esempio una linea di magliette biologiche, ma questo non vuol dire che il marchio lo sia nel suo complesso. Cercano in questo modo, attraverso una sola linea di fare apparire tutto il brand come attento alla sostenibilità.
Si parla quindi di un’azione di Greenwashing, termine usato molto nel mondo del marketing che indica ciò che succede quando una grande azienda da una falsa impressione riguardo i suoi sforzi nell’essere sostenibile, che associa la propria immagine alle tematiche ambientali, per cercare di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalle responsabilità che derivano dall’inquinamento causato dalle proprie attività produttive.
Per concludere, si dovrebbe prestare un po’ più di attenzione durante la fase d’acquisto, perdere qualche minuto in più per capire che storia può esserci dietro quel capo; prediligere qualcosa che magari costa un po’ di più ma che dura più nel tempo e, soprattutto, aiutare e voler bene al nostro pianeta.
Alessia Vivian