La società in cui viviamo affonda le sue più profonde radici nella civiltà della Roma antica, l’Urbe eterna che conquistò il mondo con le sue armate e lo resse per parecchî secoli con la forza di un diritto straordinariamente evoluto e raffinato.
Tanto che lo Ius romanum sopravvisse alla stessa Roma caput mundi. Nei secoli bui e sanguinosi seguiti alla caduta dell’impero d’occidente, le popolazioni germaniche che si erano via via insediate negli antichi territorî di Roma introdussero, naturalmente, nella società le loro più rozze consuetudini ma ‒ legate al principio della cosiddetta personalità del diritto, secondo cui la legge che si applicava nelle controversie era quella che ogni uomo aveva acquisito per nascita e non una legge individuata "per territorio" ‒ non cancellarono il diritto dei vinti. Anzi, ne riconobbero sempre più una sorta di superiorità morale e di validità universale (lex mundialis era già definito il diritto romano al Concilio di Siviglia dell’anno 612), mano a mano che si radicalizzava il processo di cristianizzazione di quelle genti barbare e pagane. La Chiesa di Roma, infatti, era divenuta ‒ un po’ per scelta, un po’ per necessità contingente ‒ depositaria dell’enorme legato culturale e della civiltà romana e italica, ed aveva fatto suo il diritto che aveva ereditato. Proprio dallo studio di queste prime leggi cosiddette romano-barbariche, parte l’indagine della storia del diritto, che ha poi il suo centro focale nell’eta dello Ius Commune ‒ il diritto comune del rinato Impero Romano, ora divenuto anche Sacro e Cristiano (ma anche Germanico) ‒, formidabile costruzione giurisprudenziale innalzata a partire dalla fine del secolo Undecimo dai giuristi attivi presso lo Studium (l’odierna Università) di Bologna, sulla base del monumentale corpo delle leggi romane promulgate nel VI secolo d.C. dall’imperatore di Bisanzio, Giustiniano. Con l’avvento dell’Umanesimo (XVI secolo), e delle nuove necessità di un approccio maggiormente storicistico e filologico da esso apportate, la struttura giuridica medievale, tutta fondata sull’autorità dei giuristi, cominciò a mostrare le prime incrinature; che divennero, col tempo, delle crepe sempre più larghe fino a crollare sotto i colpi dell’Illuminismo e delle rivoluzioni sociali che ‒ alla fine del Settecento ‒ portarono alla caduta dell’Ancien Régime. Si era aperta l’Età delle Codificazioni, caratterizzata da un diritto codificato e "positivo", fondato sul principio della "certezza della legge" e slegato da promesse metafisiche, fondantesi su una certo fascinosa, ma poco afferrabile e definibile, aequitas.
Dunque, “se il diritto è compagno di ogni società umana, occuparsi della sua storia è occuparsi dei prodotti che scaturiscono dall'autocoscienza di singoli e comunità, fin dove – oltre i millenni – può spingersi il nostro sguardo indagatore. I ricercatori inquadrati nel CIRSFID si occupano prevalentemente della storia del diritto medievale e protomoderno: dunque dalla redazione del Corpus Iuris Civilis di Giustiniano fino al secolo XVIII. In tale arco di tempo, ma soprattutto tra XI e XVI secolo, il diritto è stato riconosciuto come una delle espressioni più alte dello spirito. In quanto forma degli atti umani, esso fu visto, allora, come lo strumento atto a conferire armonia al mondo. “Hominis ad hominem proportio” (Dante), la norma giuridica produce bellezza: né può essere diversamente, perché – come dice Boncompagno da Signa – la sua origine è nei cieli. Calata nel mondo si fa diritto naturale che – guidando l'anima verso il bello, il vero e il buono – produce per continue approssimazioni il diritto positivo. Fare storia del diritto non può dunque essere altro che storia di uomini; ancor meglio, storia del pensiero giuridico, non di cose che ne costituiscono, appunto, il prodotto oppure di accadimenti esterni, che solo mettono alla prova le energie spirituali. Così concepita, la storia giuridica va studiata e compresa nelle relazioni che la scienza del diritto ha stabilito, nei secoli, con la filosofia, la teologia e la letteratura ad essa contemporanee”.