Valerio Grutt

Valerio Grutt è nato a Napoli nel 1983. Ha pubblicato Una città chiamata le sei di mattina (Edizioni della Meridiana, 2009), Qualcuno dica buonanotte (Alla chiara fonte editore, 2013), Andiamo (Edizioni Pulcinoelefante, 2013), e Però qualcosa chiama – Poema del Cristo velato (Edizioni Alos, 2014) in seguito interpretato da Marco D’Amore all’interno del museo Cappella Sansevero di Napoli. Alcune sue poesie sono state pubblicate nell’antologia Poeti italiani underground (Ed. Il saggiatore, 2006) e nell’ebook I 4 elementi (Subway Edizioni, 2014). È stato direttore editoriale della rivista Popcorner, direttore artistico del festival Lyrics – Autori di Canzoni e cofondatore del Centro Internazionale della Canzone d’Autore. Dirige il Centro di poesia contemporanea dell’Università di Bologna e la Piccola collana di poesia Heket.

Foto di Irene Bellini

(un giorno tornerai a Ischia)

 

Un giorno tornerai a Ischia lucente
isola sola, lontana mille anni dal mare.
L’abbronzatura all’oro degli anni
che brilla di notte al gelato d’agosto

e scale di case dall’aria salata
che increspa i capelli, e salite e discese dagli occhi.
A lui chiederai i capelli a cavatappi,
e di pettinarti giornate strappate all’abbraccio

della madre larga e del padre fascista
che ti compra le scarpe per camminare in campagna
e t’adotta alla zia che ti lascia una corda
per attaccare il sole a una sedia sul balcone.

Mamma che sfogli settimane enigmistiche,
e t’accendi al divano per le corde che stridono
dell’ascensore che mi porta al quarto piano.
Figlia di un marito scorpione e parrucchiere,

che giocava nella vita da angelo, tirato giù da un albero
a bere dagli spigoli le cose felici, tendeva una mano
al tuo sonno cattivo e tre figli, ti baciava sereno
come se non esistesse la pioggia ed il buio.

Tornerà la gioia del primo giradischi
la scoperta di cose naufragate nell’ombra.
Le ali aperte dei figli tuffati, alla buona pazienza
del cuore, di piazze, di auto al casello,

del respiro, vacanze, di sere finite
alla noia beata dell’essere soli.
Verrò a mangiare melanzane a funghetti,
all’alba del tuo sorriso preso a bellezza dei salti di uccelli.


da “Una città chiamata le sei di mattina” (Edizioni della Meridiana, 2009)

(quel giorno avevano chiuso agosto)

 

                                             a mio padre che sarà tra forbici e stelle


Quel giorno avevano chiuso agosto
con i limoni sugli occhi

non sapevo ancora niente
degli aperitivi e dei film di Burton

giocavo a pallone
con la maglia del portiere

al centro del grande zabaione
dove Napoli galleggia

nella sala d’attesa
tolsero l’acqua al pesce rosso

il dottor temporale disse di chiudere le porte rimaste socchiuse
ci caricarono il buio alla nuca e spararono

era un elefante con le gambe secche
e non ci volle molto a cadere

era l’ultima via Santa Lucia
che se ne andava timida dal golfo

hanno visto alzarsi in volo uno stormo
dalla piazza fredda del letto di mia madre

hanno tolto l’uomo
hanno sradicato le sue mani dalle mie

quando tornerà sarà davanti agli occhi di Antonio
e tra le braccia di Maria come il figlio che non ha

quando tornerà non sarà buio il corridoio
si siederà a tavola e dirà: “perché avete aspettato tanto…

potevate cominciare”.


da “Una città chiamata le sei di mattina” (Edizioni della Meridiana, 2009)

(ero nell’albero pesante)

 

Ero nell’albero pesante che mio padre ha strizzato
prima dei giorni girati di spalle.
La barella non entra nell’ascensore,  
lo portarono via per le scale
e portarono via le scale, la strada con le luci
e i sorrisi, fecero un pacchetto con tutto il cielo,
i palazzi e le cose finite sul fondo dei pensieri
e me lo nascosero in tasca.

Poi sono venute le ore senza i gesti dell’amore
a prendermi a scuola, a stendermi il braccio
per prendere piatti su mensole troppo alte.
E mi alzo ancora sulle punte, sfioro le mani
delle donne che raccolgono fiori sul soffitto.
Vado figlio di mia madre, figlia delle prugne mature
e della pioggia trasversale. Amico dei cani
chiamati ombra, verso albe distrutte, sradicate.


da “Una città chiamata le sei di mattina” (Edizioni della Meridiana, 2009)

(sono in bilico sul balcone storto)

 

Sono in bilico sul balcone storto
e vieni tu con l’anima a tracolla

non sai bene cosa dire
vieni da dove gli uccelli giocano alla lotteria

con le ali prese in prestito
vieni e dici: non c’è tempo

ho già buttato la pasta
amore mio.


da “Una città chiamata le sei di mattina” (Edizioni della Meridiana, 2009)

(facevo il portiere da pulcino)

 

Facevo il portiere da pulcino
e un giorno mi tuffai in un’arancia aperta

poi per settimane ho inseguito il dopobarba di mio padre
sedendomi sui braccioli dei divani in penombra

ho abbracciato mia madre in cucina
bloccandole le braccia davanti ai fornelli
                                     in un arcobaleno di presine

erano settimane con il fiore
mentre i miei giocattoli si facevano la guerra

la magia, l’angelo assonnato, he-man
voglio vivere in una città chiamata le sei di mattina.


da “Una città chiamata le sei di mattina” (Edizioni della Meridiana, 2009)

(farei l’alba)

 

Farei l’alba e le linee del cielo
con i segni lasciati dal cuscino
sul tuo volto appena sveglia, meraviglia
che ti togli dal sonno e vieni come gli uccelli
di giorno, la tua risata è chiamare il bene
per nome, alzi le reti dei fiori con lo sguardo.
Il fuoco e i confini, le sere gialle hanno la brezza
del tuo respiro, io ti sento esistere nel vento
che piega gli ombrelli, nel petto aperto
contro la notte che si abbassa addosso.
Voglio essere con te l’onda che s’alza
e si fa nuvola, fare come il polline chiaro
sui campi e la luce che libera gli angoli.


da “Una città chiamata le sei di mattina” (Edizioni della Meridiana, 2009)

(qualcuno dica buonanotte)

 

Qualcuno dica buonanotte
ai ragazzi che parlano sottovoce
al buio, mentre il mondo li capovolge.
Qualcuno dica buonanotte
a chi non ti saluta per paura
che tu non ne abbia voglia.
A chi si gira e rigira per la rabbia,
per la guerra col pensiero,
per il nero o per la pioggia.

Buonanotte, si sentano scaldare
i campi di ferro arrugginito,
i palazzi senza balconi, il fiume
soffiato, la vedova e il suo Gesù.
Qualcuno dica buonanotte
e spinga il sipario su questo giorno
fuori dal binario, sulla spiaggia
dove sono caduti gli uccelli.
Qualcuno sussurri, fedele
all’orecchio dei cani che dolce
sarà la notte, il riposo, il dopo.


da “Qualcuno dica buonanotte” (Alla chiara fonte editore, 2013)

(buonanotte, il buio spesso prende alle spalle)

 

Buonanotte, il buio spesso
prende alle spalle, striscia
sotto mobili di case stanche.
Quello nostro è buio aperto,
così denso di respiro
e se ne frega della malinconia.
Tutto il mare del mondo
è musica, è pianto,
è verità in sostanza.
Tu colmi la distanza,
ogni albero ha le tue braccia
quando lo muove il vento,
quando è sulla terra, è dentro,
come ogni cosa che, precisa,
prepara l’universo. 


da “Qualcuno dica buonanotte” (Alla chiara fonte editore, 2013)

(questo cuore aperto)

 

Questo cuore aperto
può accogliere di tutto:
vetri di bottiglie, diluvio,
radici di albero, intere autostrade,
colate di cemento, costellazioni.
Ci passi senza abbassare la testa
tu e la morte nera, palafitte,
il crollo di una diga.
Questo cuore che aperto
può tenere tutto, trema
come lavatrice nella furia di centrifuga
ed è qui, è tuo.



da “Inediti” (2015)

(sto sull’orlo di un accadere)

 

Sto sull’orlo di un accadere
alla fermata dell’autobus
come potesse crollare la chiesa
col campanile, l’insegna della pizzeria
o spaccarsi il cielo a mostrarci
finalmente lo spettacolo
di un paradiso aperto di fulmini
e angeli. Sto con il telefono in mano
come potesse chiamarmi mia madre
o un’altra voce che non c’è più.
Sto sprofondato con le converse
bucate nel fango dell’attimo
e aspetto ma forse è già successo
è già passato il 14, è già andato
via ogni entusiasmo.
Trema terra, muoviti vento
che io possa alzare la croce
dell’essere e trovare, tra queste macerie,
i frammenti luminosi che componevano,
tra i raggi, lo splendore.


da “Inediti” (2015)