Paolo Polvani è nato nel 1951 a Barletta, dove vive. Ha pubblicato i seguenti libri di poesia:
Nuvole balene, Antico mercato saraceno, Treviso 1998; La via del pane, Oceano, Sanremo 1999; Alfabeto delle pietre, La fenice, Senigallia, 1999; Trasporti urbani, Altrimedia, Matera 2006; Compagni di viaggio, Fonema, Perugia 2009; Gli anni delle donne, e-book, edizioni del Calatino, 2012; Un inventario della luce, Helicon 2013; Cucine abitabili, Mreditori, 2014; Una fame chiara, Terra d’ulivi, 2014. Il crollo di via Canosa, e-book La Recherche; Il mondo come un clamoroso errore, Pietre vive editore, 2017,
Sue poesie sono state pubblicate da numerose riviste, tra cui: "Anterem", "Steve", "L’immaginazione", "Il filo rosso", "Atelier", "La Vallisa", "Portofranco", "La corte", "L’area di Broca", "Le voci della luna", "Offerta speciale", "Quinta generazione", "L’ortica"; e su numerosi blog, tra cui: "Carte sensibili", "WSF", "Fili d’aquilone", "Poiein", "Corrente improvvisa", "La presenza di Erato", "Poliscritture", "La bella poesia", "Odysseo".
E’ presente in molte antologie, tra cui: Dentro il mutamento, edito dalla casa editrice Fermenti nel 2011 e in varie antologie tematiche, tra cui Il ricatto del pane, ed. CFR, Rapa nui, ed. CFR, e 100 mila poeti per il cambiamento, Albeggi editore.
Ha vinto diversi premi di poesie. E’ tra i fondatori e redattori della rivista on line "Versante ripido".
Questa campagna esatta e laboriosa tenere tra le braccia,
masticarla piano, assaporare tra i denti una gioia
assoluta e senza credi, diventare lo sguardo fisso delle vigne,
essere i sentieri che corrono a perdifiato tra gli ulivi, vene
che ingurgitano i verbi della luce, la grammatica breve
degli insetti, le vite infinite e sconosciute, le chiome
nebulose dove si frange il volo della gazza, le aperte
geometrie, se potessi questa terra ingoiarla, digerirne
le masserie lucide di calce e di silenzi, essere il brusio
delle finestre, il richiamo misterioso dei pozzi, se potessi
essere la memoria di tutti i fili d'erba, essere io lo sguardo
il suono, il confine del vento.
A certe cattedrali il mare sconfina tra le gambe,
ne sommerge la bocca, le assedia fin dentro il respiro
e loro masticano piano l'azzurro quieto:
le angosce vi si sciolgono, vi affondano le inquietudini.
Certe cattedrali ce l'hanno appeso al collo
l'azzurro del mare, si cuciono sul cuore
le architetture liquide delle meduse, il perimetro
dei calamari, lo sguardo immobile dei pesci.
Risplendono della gloria eterna delle bifore,
dello squinternarsi delle campane, dei campanili
che si sollevano sulle punte per specchiarsi nell'acqua.
Verrò in via delle vigne quattordici a passarti
l’ultima delle mie caramelle, è lì che abita
in forma di zucchero l’orto di tua madre
e si gonfiano di rosso i pomodori nel cerchio
delle alpi e l’insalata
ha il suono familiare di una porta che sbatte.
Gli autunni vengono con passo leggero e io
mi arrampicherò sul tuo accento di montagna,
sulle gutturali che sono rocce aspre, su certe
consonanti che imitano il tumultuoso gorgoglio
dei torrenti. Le tue mani forse mi cercavano,
tentavano un approdo, ma tu lo sai
che il nostro sole è la solitudine
e la promessa di non vederci più
è già nei nostri passi.
L’ho visto il gatto, e quella lunga scia di tristezza.
Ho visto la fabbrica e la fretta dei viaggi.
Le mani si cercavano e ridevi di un riso
notturno e c’era la pioggia e il buio
e il momento era perfetto per perdersi,
per scivolare via come un addio.
Sono felici le mie amiche ? Sono metafore
lo sventolio degli orecchini, i rossetti,
ci sono di mezzo brani musicali,
a volte l'amore per i gatti maschera una fragilità ?
Se penso ai loro occhi vedo fasi lunari
ma anche scatole di detersivo perché
sono leggere come arcobaleni
ma hanno affinato una propensione al pragmatismo.
Sono pittrici, poete, terapeute
dell'anima, il vento libero
che circola nei versi non contempla
di mettersi al servizio di mariti.
Abitano sole, in luoghi dove tocchi i tetti
e i gatti sono ostaggio di nomi letterari.
Nessun uomo pare all'altezza di quelle terrazze.
Se abitano ai margini di un bosco la città
resta lontana, acquitrino di luci e di rumori.
Forse non sono felici, per questo
ricorrono a scialli estivi,
però sono maestre di vino e di cous cous
e se coltivano infelicità conoscono i rimedi giusti.
Ridono così bene e non ti negano parole di
velluto.
Io non so se le mie amiche sono felici.
Chi eri quel giorno d'ottobre ?
Nell'esteso sbadiglio dei campi
tu, nel gran sonno d'autunno,
aprivi una parentesi.
Tu, mera ipotesi,
tu congettura
nuova al mondo.
Tu, chimera futura
strappata al nulla,
al vuoto in cui ti dibattevi
come in un mare di silenzio.
Il tuo vagito era un giovane
vento, distoglieva la terra
dal sonno.
Senti gattaccia, portami a Casalecchio,
alla chiusa del Reno, sulla tua Punto blu.
Ci penserà la primavera a far dimenticare
quello che meglio è dimenticare.
Guarderemo l’acqua che scorre, ti terrò la mano
stretta dentro la mia, dimenticherò
che passerai, che passerò, che ci saranno
lacrime, che ci disperderà, seminati altrove.
La primavera s’incaricherà dei sorrisi, forse
ci saranno baci, di certo parole luminose,
abbracci
forti come promesse. Ci penserà la primavera.
Ma ora fermo tutto qui, prima che passi, prima
che scompaia, prima che la tua mano esca dalla
mia.
Vieni, diceva con la voce intinta
nel più profondo miele, vieni che ti
sbrino il cuore, ti sciolgo
questi ghiacci eterni, ti lancio
l’autostima in orbita, in eccesso
di erezione l’ego, ti titillo
la vanità. E intanto pregustava
il sangue come un trofeo di caccia,
uno stendardo, e affilava la lama.
Perché l’amore non è faccenda
per gente sana, t’insinua l’illusione
della felicità da bere a sorsi
ma poi ti atterra, ti divora a morsi.
Il tema della recita è il cordoglio. In una nuvola
d'incenso il vescovo canta. L'ora del crollo:
dodici e ventidue. La città riscopre
l'ululato delle sirene, il tufo
dei poveri. E' una mattina giovane.
La sorpresa è il tonfo che germoglia
e i morti che d'improvviso hanno fame,
sussurrano parole indecifrabili.
I fotografi sbatacchiano ai piedi dell'altare.
I flash rincorrono. Le ruspe
arrugginiscono in silenzio.
Un'afasia nel brivido
delle navate, un balbettio sommesso,
ma chi è che farfuglia, perché
non stanno zitti i morti ? vogliono parlare
ma non c'è tempo, si sono udite le promesse,
le minacce a tutti quelli che.
Il vescovo è nella bocca del canto, in una nuvola
d'incenso. Il sindaco ha la fascia.
Di fuori le rondini schiamazzano.
L'autunno è troppo acerbo per partire.
Dal campanile partono i rintocchi.
Il sangue raggrumato. Le foto sui giornali. Tutti
dicono amen.
Ma che hanno ancora da parlare, hanno
le loro bare, il cordoglio,
ma perché
i morti non se ne stanno zitti ?
Aspetto il minuto diciotto della sinfonia Titano,
signor
Gustav Mahler, è lì che il tumulto s’impenna,
imbizzarrisce, disarciona, è lì che l’impeto delle
mani,
è lì che il corpo asseconda un vento, una furia,
l’invisibile
assalto. Signor Gustav Mahler io non so dire
la bellezza. Ci sono le stagioni. Ci sono deserti
in attesa di un perdono, le infinite acque che ci
restituiscono
migliori, ci sono gli esempi, le melagrane,
l’azzurro del respiro,
ci sono le parole, gli scarabocchi degli uccelli, e
c’è
quel minuto diciotto della sinfonia, sul quale mi
piace
arrampicarmi, issarmi, sporgermi, precipitare.
Vedi ? decisamente non sono un condottiero
dell'amore, mi scoraggio,
ai primi ostacoli m'inceppo, incespico, barcollo,
sgominato dall'orgoglio chino la testa e scappo,
incatenato
alla chimera del possesso, all'idea che sia il sesso
che ci salva
e ci riscatta. Tu strappami tutte le medaglie, non
le merito, vedi ?
però tramite te io imparo, cerco un altro me, tento i
l salto con l'asta
oltre i miei limiti, provo a liberare, a librare
l'amore oltre le nubi, oltre
un ristretto orizzonte. Chiederò ai tuoi santi un
consulto, una dritta
per amarti davvero, per amarti di più, amarti oltre
ogni sconfitta.