Carmelo Panebianco

Nato a Catania nel 1951, vive a Zafferana Etnea, dove ha insegnato  materie  letterarie.  Dopo la plaquette di esordio dal titolo Nostalgie e trasfigurazioni (Catania, Ed. Radar, 1983) e Apparizioni (Venezia, Rebellato, 1986), ha pubblicato per le Edizioni Amadeus (Montebelluna, Treviso, 1992) il libro  di  poesia Angelo dei gigli, presentato  da  Giuseppe  Conte,  cui  ha  fatto  seguito,  nel  2007, Giardino celeste, edito nella collana “Palinuro” dell’Editore Salvatore Sciascia di Catanissetta, diretta da Aldo Gerbino,  con prefazione di Giorgio Ficara.  
Ha scritto articoli di critica cinematografica e pubblicato su riviste letterarie. È coautore di  spettacoli multimediali tra i quali Maravigliosamente un amor mi distringe (1995), In latitudine di luce (1996), I canti del Gebel (1996). Alcuni suoi testi tradotti in spagnolo sono apparsi su «Palavreiros» nel 2004 e su «La fuente de las siete vìrgenes» nel 2006.

Navigatori di Alexia

 

Salpammo in una notte illune.
Non ci guidò la lucente coda 
del carro né il verde puro 
delle alghe. Presto la nebbia
cancellò le coste dei padri.


In balìa della bonaccia
felici contemplammo sirene
navigare veloci verso approdi inattesi.
Immobili apprendemmo 
plausibili sagome di viaggi 
misteri di un incantesimo.


Dalle isole udimmo un canto:


Abbraccia Yera  il fondo, 
il fondo del mare.
Abbraccia Yera i remi,
i remi d'argento. 
Tintinnano cimbali,
cimbali regali
nel pozzo.
Ti salverà Demetros,
Demetros il brigante.


Felici vagavano chimere
nei liquidi celesti.


Ritos navigatore d'Alexia 
ricordò il pianto della madre 
e i baci della sposa.
Ricordò i vicoli e le sete
le taverne traboccanti di carezze,
ricordò le capre e i meriggi.


E la solitudine.



Kostas il nostro nocchiero
fiero cedro del Libano ammonì
la ciurma immersa nei ricordi.


Non lasciarmi mio sposo, 
mio gioiello mio eroe,
non lasciare queste sponde sicure.
Presto giungeranno neri corvi
dal mare.
Non lasciarmi mio sposo, 
mio sentiero falò mio.
A chi donerò i miei sospiri
di mirto? A chi?
Presto dal mare giungeranno 
corvi neri.


Estasiati c'immergemmo 
nel volo alessandrino 
degli aironi.

 


Tratti da Angelo dei gigli

(da Giardino celeste - I)


Non altro che il sogno del giardino 
l'ultimo, l'estremo, il primo
non altro sogno che l'Eden.


Verde moresca ombra 
l'arco congiunge il giunco
al cordaio nella danza della fune 
ospita la preghiera del toro.
Il gelo dell'ortica profana
la lama vellutata della vittima.


E' l'ulivo che dona mestizia
al santo, voli al cervo.
II tappeto ha raccolto l'oro
dei millenni, la fragranza
del narciso. La ruota del fiume
inonda il tessuto mattutino
recide il velo umido del melo.


Verde moresca ombra
la fonte argina le dune
il cobra tra i canneti bacia
la figlia dell'arcobaleno.


Nel giardino la veglia del fuggiasco.


Tratta da Giardino celeste

(da Giardino celeste - X)


Ondeggia nuda Ofelia morta
nel fondale con le ortensie.


Lo scorgemmo principe del dubbio
una notte d'inverno ai margini
del giardino antico a ridosso
d'alberi innevati. Borbottava
ai pochi passeri rimasti:


Bello e confortevole è il silenzio
nell'orto vecchio delle attese
rimanere dentro questi stracci
lasciare la maschera le veglie
tornare di nuovo verso l'alito
ascoltare il canto dei palmizi
e spezzare la clessidra
assaporare la nebbia la salsedine
scendere nei cunicoli del battito
sprofondare nella luce del recinto.


Morta Ofelia nuda ondeggia
con le ortensie nel fondale.


Tratta da Giardino celeste

(da Giardino celeste - III)


Volteggiano calendule
adolescenti di Jerusalem.


Tu conoscenza mia essenza
i tuoi cincinni baita di nibbio


tu campanula amica mia sapienza
corbezzoli acerbi i tuoi capezzoli


cinomio della prateria roderò
la tua ampolla di rugiada


ad una ad una mieterò mio recinto
tutte le spighe nere del Kutik


raccoglierò ad una ad una
tutte le gocce del Dittan.


Bagnati prediletto accaldato
nella brina del mio incavo


sfamati pannocchia penetrante
nel chiostro chiuso del mio favo.


Volteggiano calendule
adolescenti di Jerusalem.


Tratta da Giardino celeste

La discesa oscura

 

Che siano chiare le stagioni 
della tua erranza pellegrino 
lieto l'istante del ritorno.


Dimenticati gli accordi 
mute fronde d'alloro 
depositano armonie, polline 
incerto tra ferite foreste.


Tutti i canti t'attendono 
tutti i suoni del mondo
le smarrite armonie ai confini 
del giorno estenuanti.


Si sgretolano sassi 
fossati s'inquietano   
il vento il verbo 
svelano diroccate 
rocche innocenti 
ammutoliscono ombre 
di regni senza gloria.


Inorriditi si celano 
ai mortali i celesti 
velati da brume
nelle dimore alte dei cirri 
più non rivelano ai viandanti
indicibile la natura dell'incanto 
la leggenda primaverile.


Impauriti ingenui 
devoti placano    
con canti con danze 
con sacrifici cruenti 
l'ira infinita del dio.


Ampio nel cielo il volo 
disteso del nibbio indica
il corso oscuro della discesa 
nostra necessaria.


Avvizziscono asfodeli 
nella piana degli Hybles.

 


tratti da Preghiera del ritorno (inedito)

Viaggio mattutino

 

a Candido

Si schiusero le palpebre 
precipitose tenebre a nascondersi 
e furono luminose colline.


L'iride si riversò azzurra
tra le canne palustri degli Hybles.


Palme impaurite scesero ombre 
sulla terra nera, immobile il ramarro 
si specchiò nel pozzo dell'insidia.


Privi di padre Chadid ci guidò 
lungo sentieri d'erba alla meta 
alle mattutine contrade.


Superato l'emporio devozione
di viaggiatori e ladroni oltre il crocicchio   
la polvere coprì la nostra memoria 
vedemmo steli bruciare carcasse spolpate… 
storditi precipitammo in labirinti di tufo...


"... terrorizzavo un tempo occhio 
caprino le greggi imbiancate 
percorrevo ubriaco queste distese 
pescavo contento le carpe sulle rive 
del Dittan, custodivo le valli
gli stagni i bivieri gli invasi
teneri agnelli cacciavo caste fanciulle...


presi dal panico avete prosciugato    
le fonti avete allontanato le ninfe 
incenerite le selve, impauriti   
m'avete sepolto in caverne ammuffite 
avete gridato la mia fine precoce...


quando le tre figlie della raganella 
prenderanno danzando possesso dell'aia 
ancora una volta apparirò risorgerò 
prima d'abbracciare l'epidermide del sole 
e il capro rimarrà dio per l'eternità....".


Il volo del colombo lacerò l'orizzonte
lasciò una ferita celeste tra le colline.


Esausti ci colse il tramonto.



tratti da Preghiera del ritorno (inedito)

Salmo del dolore e dell’ oblio


a Rosaria

Tu che sai, Jahweh, che puoi tutto 
strappa i chiodi dal cuore

dona oblio alla sua mente
tu che tutto sai e puoi, Jahweh.


No, non voglio dormire 
non voglio dimenticare 
voglio ricordare e patire 
non posso amare l’oblio.


Apritemi le palpebre    
con tenaglie roventi 
tagliatemi le vene stanotte 
così vasta così oscura
nutro desiderio di guardare 
il suo letto nudo.


Che duri eterna questa veglia 
che sia senza fine la notte 
che mai sorga la melodia 
di un giorno senza lumi.


Ghepardo strozzato le viscere 
strappata a morsi la carne 
mozzate le mani trafitto il capo 
con spine, lacerato il costato.


Hanno versato cera rovente 
nelle ferite, nelle gambe malferme 
insidiato il mio nido.


Sulle spalle porto la tua croce
di fuoco patisco nel fondo il digiuno 
del padre, oh Jahweh occultato.


Tu che tutto conosci, ascolto 
non prestare alle parole
di una madre annullata 
tu che tutto sai Jahweh.


Non nasconderti Jahweh
non sottrarti alla lama 
del mio furore spietato 
tu cieco padrone
del mio fato infelice.


No, il tuo libero arbitrio 
non lo giustifico, cacciatore 
crudele, Jahweh, di vittime 
innocenti inermi.


Il tuo silenzio è duro 
troppo lontana la dimora 
molto lutto hai versato  
dal tuo cielo inviolabile 
un drappo viola sgualcito 
ricopre membra di marmo 
nel tuo tempio terreste.


Vetro tagliente il lamento 
sudario svuotato il mare 
lucerna priva di ali 
nello scintillio dello sparo
assassino, Jahweh esiliato.


Tu che sei padre e figlio 
scendi dalle vette dona miele 
e ambra alla sua lontananza
dona la grazia del riposo, Jahweh.


No, no che non sono più madre 
per te bimbo amatissimo, no 
non voglio dormire ora che niente 
sono più per me per te per tutti
quale ghirlanda fluttua nell'iniquo 
singhiozzo del tuo viso devastato 
Jahweh che mi hai tolto pietà e pianto 
preferisca l'arido sguardo delle steppe 
all'abbraccio di rigogliosi giardini   
le strade notturne alle insidie d'estate.


Dona il sonno Jahweh l'illusione 
alle sue estenuanti giornate     
senza stelle, senza verità, Jahweh. 
La sua retina è barriera forata 
acquitrino d'abisso, rivelati Jahweh 
muto colloquio di sepolti percorsi.


Facci luce del tuo togliere o dare


Su quale sia occulta necessità 
che ti spinge a recidere, Jahweh 
teneri racedi innocenti.


Pietà, Jahweh abbi pietà 
perché lei non è più lei    
ma cerimonia dolente   
d'un enigma mai svelato.


tratti da Preghiera del ritorno (inedito)

Compieta

 

a Antonio

Mesti risuonano i passi brevi 
nell'aria opaca di questa notte afosa...   
l’umile stradina muta ci conduce   
alla meta di una seconda nascita 
passeggiata nei tepori invernali
del camino agognata.


Dal porto jonico il faro scandisce 
le parole del nostro colloquio
i comuni intenti la distillata età 
dell'oro il vino che si fa spirito 
e sangue i quartieri d'inverno  
le risalite sofferte dal fondale  
le contrade fluviali dell'infanzia 
le discese agli inferi di violate
fanciulle le nostalgie gli dei esiliati...


Tradito l'orto del vicino un tempo 
ricco d'odorosi frutti è terra nuda 
ora privilegio per vermi e ratti.
Avvolge il fumo l’essere noi
altri nell'abbraccio fraterno che unisce 
e intanto scivola l'ora delle chiese 
intorno, ringhiano i cani pastori 
allarmati a vuoto da due erranti 
artigiani modesti di parole 
offerte con orgoglio al nido accogliente
del sagrato...
                      pellegrinaggio devoto 
nella compieta amica prima del riposo.



tratti da Preghiera del ritorno (inedito)

Sirene


Tendono incantevoli inganni    
suoni suadenti mortali Zaris e Sama 
sirene inaccessibili degli Hybles 
nude nuotano nella trasparenza 
della Gorna nei fondali volubili
del Dittan attirano ingenui viaggiatori 
nella suggestione delle voci di miele.


Lascia le sterili zolle, lo sterco 
fumante degli ovini, il raccolto 
fradicio dei campi, lascia le sponde 
le intemperie i fossati le anse
gli orizzonti sfioriti di zagara.


Atzur, ragazzo dei cavalli 
oltrepassa i valichi le onde 
le torri crollate le fortezze
i capanni del gregge i precipizi 
mortali del cuore le aride alture 
dell'ovest e prendi l'azzurra 
via delle sorgenti segui le tracce 
primaverili del gabbiano
non tapparti le orecchie con cere 
incandescenti e ascolta le nenie 
delle creature dei fiumi.


Giù... giù... - canta l'ondina — 
in questi gorghi luccicanti 
abbraccia le carpe le dalie nere 
dei giardini sottomarini
bacia la mia fiumara infinita
il corallo delle mie cosce fluviali 
l'ombra rilucente del mio ventre 
carezza le alghe del mio seno     
inoltrati nei gorghi dei miei lombi 
nelle voragini purpuree dei miei fianchi 
nella melodia estrema del mio verso              
e annullerai il peso greve dell’esistere 
sublime fanciullo puro dei cavalli.


Noi non sappiamo se il lamento 
che udimmo all'improvviso 
quando dall'agave hyblea 
pallida apparve la luna

fosse grido urlo straziato di belva
o rantolo sacrificale di ragazzo felice.
Raccontano i vecchi del Kutik


ogni anno nell’orto dei morti 
riappare Atzur fanciullo dei cavalli
a rammentarci la libertà dei naufragi 
il cerchio giallo del lauro, la semina 
faticosa del grano simeto.


tratti da Preghiera del ritorno (inedito)

Le sette balze del cielo

 

Ho piantato la tenda al centro 
del borgo ho contato le gocce 
ho visto nebulose colline lunari 
gli arcobaleni dalle sette balze
del cielo l’infinito respiro dei deserti.


Ho pregato la talpa, l'aquila madre
la cicogna superba, gli insetti i ramarri.


Mi sono innalzato illuminato     
da ceri nella regione riservata  
alle nuvole e ho carpito il mistero 
ai demoni osceni del sacro.


tratti da Preghiera del ritorno (inedito)