Canio Mancuso (Melfi, 1971). Cresciuto a San Severo, attualmente vive a Omegna. Nel 2004 fonda il mensile umoristico “Za!”. Dal 2005 al 2006 è redattore del periodico “Sguardi”. Ha scritto o scrive per i periodici “Fermenti”, “Le reti di Dedalus” e “Christianitas”, e per i quotidiani “L’Attacco”, “Capitanata.it” e “Zeroventiquattro.it”. È citato nel volume Letteratura del Novecento in Puglia (Progedit, Bari 2009 e 2010), a cura di Ettore Catalano. Alcune sue poesie sono apparse su antologie e riviste, tra cui: “Fermenti”, “Gradiva”, “Poliscritture”, “Poetarum Silva”, sulla rivista spagnola “Ómnibus” e sulla francese “Lichen”. Nel 2015, insieme a Raffaele Niro, cura l’antologia Sotto il più largo cielo del mondo. Trenta poeti dauni, numero speciale dei “Quaderni dell’Orsa” (Besa Editrice). Nel marzo 2016, ancora con Besa, pubblica la raccolta di poesie Fiammiferi, tradotta in francese e prossimamente in uscita con Hippocampe éditions. Nel 2018 pubblica Il lato destro dell’armadio (Giuliano Ladolfi Editore).
La luce dell’inverno
che nell’androne
cancella i nostri passi
annebbia la moviola
e non chiede elemosine
di carezze e abbandoni.
Cerchiamo riparo nella sua occhiata
scambiamo frasi che rintoccano
a vuoto: a domani a presto a mai.
Se avesse il senso della realtà, pensi.
Se avesse i denti un po’ meno larghi, penso.
È facile nella foschia confondere
l’aldilà con il nostro primo incontro,
il ricordo si sbriciola
senza un lamento.
Ciò che a volte siamo stati,
ciò che a volte abbiamo amato
ci chiama indietro e si allontana
senza fare rumore. Per questo
rigiro nella tasca
rotta della memoria
le parole dimenticabili
che dicevamo allora.
Mio padre fabbricava
navi di fiammiferi
navi con troppe vele
e con troppi cannoni
belle perché non erano
metafora di niente.
Stava seduto a terra
con il broncio sospeso
sul docile cantiere
della sua arte sghemba
massacrando fiammiferi
che asciugava e incollava
a uno scheletro d’aria.
Come era contento
di soffiare il respiro
negli ossi di una nave
priva di oceani da immaginare.
Mio padre distratto dalle rondini
smarrisce le carte del congedo.
Conosce la morte degli animali
così esatta e disinvolta
ma ha dimenticato la sua
sul comodino coi documenti.
Mio padre chiedeva una canzone allegra
e ha avuto un silenzio imperfetto:
ero io nascosto in una stanza
tra gli a capo sonnolenti dei libri.
Voleva un figlio dallo sguardo aperto
un figlio maschio che dormisse poco
e ne ha avuto uno che rimane sveglio
per godersi il riposo degli inconcludenti.
Sulla gigantografia del santo
che azzittiva la vallata
le rondini costruivano i nidi.
Mio padre seduto su una panchina
me li mostrò un pomeriggio
di settembre quei nidi
che io non avevo mai guardato.
Vuoi ancora parlarmi di Dio
con tutta la tua stanchezza insonne,
intrecci parole e melodie che non ricordi
sgrani il solito rosario
di nomi, i miei amici
che non hanno smarrito la strada
e hanno pure preso la laurea.
Non è un problema di fede:
crederei anche solo
per farti compagnia
ma basta un soffio di inquietudine
a prosciugare le vene a un abbraccio,
che sia per te o per Cristo non importa.
Ripeto, non c’entrano la salvezza
la redenzione, il conto da saldare
al camiciaio che rinvia la consegna
(sai che rispetto chi lavora piano).
Non dimentico i miracoli dell’acqua
che mi facevi bere per ripulire
le viscere e i pensieri.
È che mi manca il respiro pietoso
di chi ama il sentiero in ogni orma –
non dico il sollievo dell’ascolto –
e non ho mai imparato la bellezza
del tuo paese chiaro, necessario
dove il buio è il peccato più grande.
Quando la pazzia ti sfiorò la spalla
stavi pregando, fiato e ventre e linfa
in ascolto, il corpo nudo a mollo
nell’avemaria. Un dottore parlò
di crisi mistica, lui che non era
un dottore della chiesa. Una piccola
estasi fatta in casa, durò
mezza stagione ma ti lasciò un pegno.
Pregavi ancora sotto le lenzuola
e sorridevi sbirciando dal cuscino
l’inverno in silenzio sulla soglia.
In un anfratto del sonno
sento un rumore di passi.
Lo riconosco
mi specchio in lui:
è il mio avversario
che sbaraglia ambizioni in pigiama
dall’altra parte della vita
mi osserva, fa l’occhiolino
e si addormenta
con un talento che io non ho.
L’amen della ragazza
inginocchiata davanti all’altare
cade dal polpastrello,
scivola tra i bottoni.
La ragazza né brutta né bella
parla alla Madonna e ai santi
e parlando ascolta il suo sangue
che bisbiglia non so cosa
nelle calze a rete.
…la morte pigra che non fa ponti / e indossa
sempre le stesse mutande.
Teofilo Sinedeo
Siamo d’accordo: morire è necessario
non voglio essere frainteso,
ma la cantilena sciatta
che i morti sanno a memoria
è paccottiglia da robivecchi
non riesco più ad ascoltarla
con la curiosità di una volta.
Mai che si muoia a sproposito
mai che succeda senza un disciplinato
rapporto tra causa e effetto.
E poi il ciclo naturale irrevocabile
il cerchio che scade il tempo che si chiude
- cambierebbe qualcosa usare i verbi giusti? -
e noi che fingiamo di sorprenderci
davanti a una scomparsa
come davanti a un giochetto di prestigio.
Scomparire scomparsa scomparso:
certe parole scivolano sulle labbra
e predispongono meglio all’evento:
almeno sai che lo ha organizzato un altro.
Lo scomparso, si sa, è un po’ meno morto
del deceduto, scomparire
un morire incompleto che evoca
luoghi abitabili con l’opzione
incorporata del ritorno.
Tuttavia si deve fare in fretta
qui c’è appena il tempo per tradire
l’idea il credo la moglie l’azienda
per affilare il tatto se precipitiamo
con i denti le lingue negli orecchi
la cispa la carie il moccio lo smegma
la foia a nanna tra le cosce arrese
i sonni scaldati al tepore dei seni
i fiumi le piene le bottiglie i cocci
dei poeti le glorie fiacche dell’autunno
i figli del seme e del riflusso
i respiri clorosi delle corsie
le gengive viola delle zie in amore
i nomi gridati in caserma e a scuola
le mani cariche di ciliegie
il verme Charlot che ci assaggia la suola
e ancora qualcosa che non ricordo.
Insomma accomodarsi nella morte
contrattempo che pare inevitabile
con i suoi paradossi scontati la sua
iconografia ingenua e le banalità
da psicodramma: l’uscita di scena
la mossa il colpo a effetto
e il corredo di commenti a margine:
era innamorato della vita
aveva tanto da dire da fare
che voglia aveva di rompere i coglioni
aveva progettato una strage:
si è limitato a farne il disegno.
Cose che casualmente
addomesticano la nostra piccola
fine mentre le cresciamo dentro.
Il tuo nome fai fatica a starci dentro,
vedi la mezza luna quasi piena
della lettera con cui comincia:
ti illudi di riposarci la schiena
tanto è rotonda e morbida la sua promessa,
invece è la consonante
inopportuna di "Come?" "Cosa?"
Quando senti pronunciare il tuo nome
riconosci dall’abbrivio spaventoso
l’invito della guardia di confine
a dichiararle qualcosa.
Qualcosa… giusto il tuo nome;
l’espressione eretica delle impiegate
che se lo passano rimpicciolito
di bocca in bocca per credere a una parola,
ti scrutano in agguato tra le ciglia
ti chiedono di esibire le prove
della tua inconsistenza terrena.
Le prove, sigillate nel nome.
Non ci stai dentro tutto nel tuo nome
spunta sempre un pezzetto
anche solo un piede che dondola dal bordo
ma non è un’amaca, non ci puoi stare comodo
rimanere in silenzio, farti aspettare:
è un punteruolo per entrarti nel fianco
grattare la vernice, la chiamano così,
dell’essere-apparire
raschiare quel po’ di colore
che somiglia a un sorriso,
ed è un suono di due sillabe
che dà il via allo scavo:
chi ti chiama per nome
vuole impararti, saperti controvoglia
occuparti un centimetro alla volta
o peggio tutto insieme, da radice a radice,
da quella dei capelli a quella dei respiri.
Chi ti nomina ti ribalta
senza chiederti il permesso,
e tu speri che il tuo nome
ti nasconda in un cappuccio
a quelli che hai davanti
e intorno, tutti con lo stesso nome
diverso dal tuo, così disabitato
che suona come quello di un indiano pellerossa
(sai gli uomini che si accigliano e sono nuvole
o fanno la guerra e sono lampi notturni
o falconi insonni, il nome personale,
a ciascuno il suo, quel nome
fatto di un pane che non si condivide.)
Ti capita di morire
e allora il nome ti si scioglie addosso
sbrilluccica come un barattolo
legato alla marmitta di un’auto senza sposo
e tu rimani lì da dove sei partito.
Lo incidono sul legno, sulla targa
che illumina il tuo vuoto
e tu dall’uovo in cui sei rientrato
con l’anima mischiata alle frattaglie
da dietro al guscio in cui te ne stai composto
nel tuo corpo nuovo
con le tue unghie liquide
non riesci a cancellarlo
il nome che continua a schiarirsi la voce
sotto la luna e sotto il sole
anche se ti ha dimenticato.
Le prime a cadere sono state le piante,
non per volontà del tempo o del destino
ma del finto giardiniere
che le aveva ficcate nella terra.
Messe lì per dominare sulla voragine
del cortile erano ridicole, uno sbuffo verde
intorno al grigio su quattro righe di terra
macilenta, quattro aiuole fallite,
con un po’ di impegno tombe di passeri,
neanche i vermi ci dormivano comodi.
Affacciate sull’asfalto in coda alle automobili
parevano sfottere non si sa cosa:
la natura, la tecnica, l’arte dell’equilibrio.
Ma erano vere piante, con vera linfa e foglie
che cadevano davvero e rinnovavano
il cerchio dell’esistenza, i suoi disegni,
trattandosi di alberi, sempre concentrici.
Gli uccelli che ci stavano al riparo
erano veri uccelli con le piume e il becco
e anche le cicale d’estate facevano
le loro pernacchie ascellari che sentivi
fino allo sconquasso del cuore
nel sonno pomeridiano.
Ma erano piante vere, avevano
radici che spaccavano l’asfalto
formavano crepe sulla superficie
come quelle sulla crosta del pane.
Perciò decisero di abbatterle
a una a una, le piccole e le grandi
il pino di quindici metri, il più alto del quartiere,
e la pianta di rose aggrappata al cancello
(ogni tanto una mano giallastra
ne prendeva una per portarla in chiesa
e io che non sapevo i nomi dei fiori
odiavo quella mano perché
sporcava la morte delle rose, o così credevo).
Ma quella pianta forse era già marcita
in un fosso prima del massacro.
Poi è stata la volta degli animali
gli occhi notturni della casa,
una bastardina ermafrodita
mezza chihuahua, mezza tina pica
un’idea storta a forma di cane,
abbaiava per dimostrare al mondo
di non essere un’invenzione messicana
ma con un’ottava più alta, incarognita
che pensavi ai rimproveri ululati
dalla nonna catarrosa ubriaca
di vino e acqua a cui il nipote
straniero rubava i giocattoli.
Aveva tanto coraggio quella nonna-cane
finché ti restava in braccio, e da lì
sfidava gli eserciti e i camorristi,
e che schifo aveva dei suoi simili,
cani senza rimedio, e del sesso
miserabile che le offrivano.
Femmina disponibile e cialtrona
nel tête-à-tête col cibo,
l’unico maschio che non la spaventasse.
Vederla morire nell’agonia di una notte
la traccia sempre più debole del fiato
che le increspava il labbro sopra il dente
a fondo nella paralisi degli occhi
sbarrati dalla sorpresa “Dio cane, sto morendo” –
fu quasi un allenamento alle altre veglie.
E una coppia di gatti, vissuti more uxorio
(tradendosi il giusto da buoni borghesi),
lui con la faccia napoletana
scavata sotto gli zigomi, i lineamenti mobili
del comico, ci leggevi la gioia, il dolore,
la noia del niente di nuovo nel deserto
mai visto prima un gatto così trasparente
nei suoi pensieri, così impoetico;
lei gonfia come un enorme bignè tigrato
per via di un’operazione,
lei gatta-moglie-madre, lui gatto-ragazzo
in pantofole con poche opinioni
e nessun segreto. Lui morì per primo
lei tre mesi dopo, schiantata dal lutto
della vedova, come Giulietta e Sandra.
I gatti ti insegnano a morire:
basta guardarli scherzare sullo sprofondo
abbuffarsi e fare debiti l’ultimo giorno
seguire la curva fino all’impatto
col moralista che arriva contromano.
Infine è toccato agli uomini
quello che aveva piantato
gli alberi e le rose, il finto giardiniere
competente almeno una volta
chi aveva allattato i figli dei gatti
e portato a spasso il cane sgorbio ermafrodito,
il sesso che chiedeva l’ultima confidenza
della lingua, il corpo sgonfiato del padre
senza rifugio tra le lenzuola bianche oscene
il ventre della madre posata su un tavolaccio
e anche lì, in quelle morti tanto umane
non ci vedevi la volontà del tempo
e del destino ma un’altra che non era
quella che strappava le rose
e neanche quella sottintesa di Dio,
nessun distacco, nessuna morale
nessun commiato, nessuna pace
nemmeno una schiuma di eternità
solo un contraddirsi per sparire meglio
di tutto ciò che nasce e fa rumore
uomini animali piante
occhi bocche parole versi
e la loro maldestra inclinazione all’assenza.