Anita Piscazzi, pianista, poeta e dottore di ricerca si occupa di studi etnomusicologici e didattico-musicali. Ha pubblicato le raccolte poetiche: In lumen splendor (Oceano Ed., Sanremo 1999), Amal (Palomar, Bari 2007), Maremàje (Campanotto, Udine 2012). Sue poesie sono presenti in diverse antologie tra cui “Umana, troppo umana” (Aragno, Torino 2016) e blog letterari come “Centro cultural Tina Modotti Caracas”, “InternoPoesia”, “Poetarumsilva”. Autrice di due monografie musicali e numerosi saggi è stata recensita da Maurizio Cucchi su «Specchio» de «La Stampa», da Nazzareno Carusi nella rubrica «Perle di classica» di «Libero» e da Giuseppina La Face Bianconi per «TeatroLaFenice». Tradotta in spagnolo da Emilio Coco in (Poesìa de ida y vuelta/Poesie di andata e ritorno, Prosa Amerian Editores, Argentina 2013). È premio Isabella Morra 2017. Collabora con le riviste poetico-letterarie «La Vallisa», «Incroci», «CittàdiVita» e «ClanDestino». È caporedattrice della rivista di poesia «Marsia. Variazioni poetiche».
Nata d’inverno
forse per questo il tuo cuore
di neve è fermo lì
a quando ti hanno detto
basta!
D’inverno
si nasce per essere
limpidi e per amare
gli alberi spogli.
Nascere d’inverno
forse non sai
è un po’ vivere come il ghiaccio
si è puri e facilmente spaccati
dalla superficie degli uomini
Amal, Palomar, Bari 2007, collana Spiragli, sezione Aria
Indosso un vestito nuovo
tessuto da mano imperatrice.
Mi domanderai dov’è finita
la mia aderenza al caos.
Perdute le sembianze
del mio corpo
sarò per te
un ramo fiorito
un frutto voluttuoso
un destino già visto.
Ricomincio la tela
e al contrario sfilo
perle di clessidra.
E’ finito il tremore di te
sono salva
sguscio via
creatura evanescente
volo di butterfly
e oggi
indosso un vestito nuovo
Amal, Palomar, Bari 2007, collana Spiragli, sezione Fuoco
Questa terra agnello
nell’ora della Passione
erkete o paska
teste di morti zuccherate
per le feste sugli altari
buccia secca leccata dal mare
quel mare che ce la fa alla fine del tutto
a consolare Armida.
Questa terra che finisce
nell’ora della Pentecoste
nei grembiali di prefiche
dalle braccia di panno
piegate a scaldare il pane
piche sirno apànn-mu.
Questa terra che cade a pezzi
incidente della storia
come può riconoscermi?
Fiore di cartapesta
sotto una cupola di tufo.
Questa terra sudario di corvi e di nodi ai piedi
sangue di olive strizzate alle lune nuove
o fengo mavro
terra di diavoli in processione
al venerdì santo
che battono colpi
a case sonnacchiose.
Maremàje, Campanotto Ed., Udine 2012, da Tellurica-TELA PRIMA
Quando verrai in questo sud
resta
resta e racconta
di anziani
cortecce d’ulivo ai bordi di una panchina
sotto una cassa armonica
ossario di agrifogli
nell’ora del giudizio.
Resta e racconta di loro
pesca di speranza
Aremu sti tálassa mavro
Ruote di biciclette storte
come i denti che masticano l’aria
e le schiene curve
nella luce che arranca.
Dove potrai sentire pianto più forte?
Di madri dei sette dolori,
lamentatrici di morte
troiane convulse a battersi il petto
a cantilenare lo stesso ritornello
Érkete o tànato ti e’rrespettèi
Quando verrai in questo sud
siediti
e ascolta il canto della figghia
de lu rre che porta lu fiuru
in segno di buona ventura
e di una Madonna che l’accompagni.
Maremàje, Campanotto Ed., Udine 2012, da Tellurica-TELA PRIMA
Qui sono nata
per essere la ferita che butta sangue
al verso mutilo di sillabe
di un idem diverso assaporato a digiuno
e a mente fresca.
Qui sono nata
colta nella bacinella in faccia al mare
col fianco a terra
in quale pietra fosso o rigagnolo
muto di tempo ti avrò cantato?
Io orfana di luna
nella solitudine del sale
e del gelso per darti
un volto per dare un semitono
al canto del merlo
oh òria mu òria mu janomeni
o bella bella mia fanciulla
ti su jalizzi o muso sa ccerasi
che ti risplende il viso come ciliegia
emì jennisimosto anomeni
noi siamo nati assieme.
Qui sono nata
nell’ossessione ossessa della tua malìa
col petto bianco e le ali nere.
Maremàje, Campanotto Ed., Udine 2012, da Tellurica-TELA PRIMA
Quando rimani nuda sotto la copertina
del blu patinato dritta con le braccia
al cielo a chiederti:“è questo che davvero volevo?”
Quando ti volti al flash dello stupore e si
contano perle tra i denti mandorle gli occhi
Quando addosso la taglia dell’inquietudine
è perfetta e la polvere della crisalide ti sbianca
un’altra notte stropiccia la fodera rosata tra le gambe
agli sbuffi di asfalto.
Hai avuto spalle da dove scendevano
gli dei ogni estate sapevi di curve e carne
che svelano i segreti del mondo
nel tuo astuccio d’ombra hai rinchiuso te stessa e la tua
bright star. E nell’oblio crudo degli uomini tremi.
Corda d’arpa. Esplosivo o sotto vuoto? Vita o feretro?
Rimarrai per sempre rondine che ha deciso
di scendere all’inferno
da Umana, troppo umana. Poesie per Marilyn Monroe,
a cura di Fabrizio Cavallaro e Alessandro Fo, Aragno Editore, Torino 2016.
Mi consumo ai flute della notte con ghiaccio.
Sulla strada a bocca umida lui mi guarda
ha i denti bianchissimi e gli occhi
dell’oceano.
In una terra che non ha età distesa sui fumi neri
nessun’altra voce sento se non i corvi che staccano
i brani sopra la testa.
Davanti solo ebano di schiene
nei cavilli di mangrovia
confondo lo schianto dei clacson alla polvere
e rinasco nelle radici del “pane degli affamati”
Ho cambiato serratura
nei polsi non più che una bestia schiuma
negli occhi i primi passi del mondo.
Inedito
Il fresco odore della notte soffoca fin sotto la nuca.
Ti guardavo
chiuso nel semicerchio del mandorlo rupestre
perso, assorto nel tuo dire invocante:
Vergine madre, figlia del tuo figlio
L’ultimo Bernardo sfiancato dietro un sigaro frusto.
Ma la luce dell’occhio rimane quando mi hai detto:
Sei radice e lampo. La lingua crepa.
È questo che mi condanna.
Sono nuda!
A questo mi sono ridotta.
Trascina via il pensiero delle mie oscure vicende
non so vincere l’ingenuità che mi toglie prestigio
non c’è ragione
non c’è omertà
ma solo alberi sconosciuti e sogni.
Inedito
Cucimi gli occhi
fammi rimanere in una via di mezzo
dove le scarpe non hanno piedi e
il tremore dell’orecchio attacca
il nervo.
Un ammasso di spilli il budello
lo stomaco uno scarto laccato
ho incollato l’insonnia al soffitto
Chi siamo?
Mi vesto di fiori e rido nella bocca
di un’altra che mi sta di fronte
di lei è la notte, i miei passi di nessuno.
È umido stasera
leggo il tuo corpo alle manovre
dell’altra.
Il nome che ti ho dato un tempo
non è più radice.
Esco da te confusa nella visione
ho perso il narciso tatuato sulla nuca.
Dei tuoi accessi
solo poche frasi distaccate.
Accosto il piede al cancello e mi accorgo
di aver aspettato un fiume contrario.
Spegnimi adesso non sono che la mia polvere.
Inedito
Ti aspetto nell’ora degli alberi
conto i passi che farai nel tuo camminare
tremo quando arrivi
dimmelo
che se anche al mondo
ci saranno mille albe sempre
uguali a se stesse nessuna distoglierà
lo sguardo che segue la primavera
Dovrei rinascere per raggiungerti
incontrarti nelle piazze tenerti la testa
prima che rimescoli il vuoto inventare
di tempo in tempo, il sogno
perché nessuno sappia
perché nessuno capisca
Il torpore di te nel corpo al limitare
della luce sotto la calma del mattino
quanto poco fuoco
Io seduta in un treno in sosta infinita
e tu di fretta in un tram verso aprile.
Inedito