Alberto Fraccacreta è nato a San Severo nel 1989. È iscritto al terzo anno di Dottorato in Italianistica presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”. Ha pubblicato saggi su Montale, Heaney e Magrelli per riviste specializzate. È presidente dell’Associazione culturale La Resistenza della Poesia. È tra i fondatori del Centro Teatrale Universitario Cesare Questa a Urbino. Collabora con il quotidiano online Succedeoggi, per il quale cura una rubrica di elzeviri. Ha scritto recensioni e interviste per Alias il manifesto e Avvenire. Ha pubblicato, per Raffaelli editore, le sillogi Uscire dalle mura (Finalista Camaiore Giovani, 2012) e Basso Impero (2016). Ha curato, per Raffaelli editore, il cofanetto con poesie di Adam Zagajewski dal titolo Il fuoco eracliteo nel giardino d’inverno (2017) e, per Carocci, Tradurre per la scena. Aulularia di Plauto (ottobre 2017). Ha pubblicato il volume monografico su Mario Luzi, Fisica della parola pura. Il viaggio terrestre e celeste di Simone Martini per Aracne editrice (2017).
Hai portato con te il filo.
Era un modo per depistare le vertigini del labirinto.
Dall’andito delle mura
sale la strada affilata
con i suoi ciuffi di mattoni.
Nessuna collina, nessuna pianura.
Nel cratere c’è dell’acqua — nostra vita che ristagna,
riscaldata da un sole mulinante
e il gelo, su in cima, che bagna.
Da quando poi hai disbrogliato il filo.
Era un segno studiato per non perdersi,
per uscire da queste vie chiuse a vene.
Ci siamo persi negli intrichi dei rinsacchi.
Noi avviluppati dal gomitolo, io e te schiavi del baricentro
della città nuda e splendente.
E il mostro spia
è un flash che ricambia cenni ammaestrati.
Attende il nostro gioco nel suo labirinto.
Noi contro la tormenta
cammineremo, fra le buche
e il croco, altre arterie della mente incroceremo.
Case ridipinte, bosco sacro, scure intitolata alla terra.
E finalmente sarà paesaggio la nostra vita.
Ahi, il filo s’è spezzato!
Il Minotauro incalza sicuro — cresce la paura.
E non sei più certa di voler uscire dalle mura.
da Uscire dalle mura (Raffaelli 2012)
Un tempo qualcuno lì combatteva.
Qualcuno, un tempo, era sentinella del mattino.
Sbrigliavano i cavalli impomatati
mentre Federico guercio lampeggiava
nell’armatura.
Un tempo lì c’era il palio mascherato.
Qualcuno, un tempo, era guardiano notturno.
Poi i cavalli morivano. Vi era la concia.
E il raso trapunto custodito.
La perizia dell’artigiano. Nocche
gonfie. Per magia una rosa canina:
tutto era locus amoenus un vociare
di servi mercatori di pupille d’ambra.
E di cortina.
da Uscire dalle mura (Raffaelli 2012)
Noi spesso andiamo in cima alla fortezza, nei giorni assolati.
Non badiamo alle concessioni della storia. Ma godiamo di noi
e della natura, che invade gli stinchi, che rende parassitari.
Assuefatti ad una mistica adusata, tra i segmenti
di baccelli.
C’è chi ride, chi scodinzola, chi gioca a palla. Noi lastrichiamo
le solite domande sospese. ‘La balza c’attende ancora’, ci diciamo.
E tutto sommato, ‘meglio così.’ Poiché non tocca essere sterratori.
Al massimo registratori di sensazioni decadenti,
o di voci impopolari.
Questa natura, distese tallonate, acquitrini, dentature smagliate
fa nuotare in pace con la coscienza e con gli altri.
E, paghi d’una calma acciottolata, rimaniamo con le imposte
abbassate.
Ma ci manca ciò che nel quattrocento fu la fortezza.
Non frangivento per anonimati, che sguazzano come anguille
in erotico oblio. Manca il sigillo bollato della madia.
La sicurezza.
da Uscire dalle mura (Raffaelli 2012)
Lo precedeva nel fiorire
la fioritura,
di gran lunga in anticipo e così
ritornata
da lì
l’esperienza ama qualcuno
Alfred Kolleritsch
I
Aceri moribondi smorzano,
i datteri scagliati di braccio paiono il frutto
osceno di questo rapporto.
La spiaggia s’è allungata, così
hanno riferito rapidamente i bagnini
ai bagnanti, riferendosi a loro volta
alla mancanza esaustiva di un cambiamento.
Tutto è com’era allora. I coralli
inesistenti, le telline scaltre e scomparse,
comitive poco magnetiche,
magmatiche scafossature di selce sotterranea.
Ogni cosa è uguale e tesa al tendone
da circo dell’inverosimiglianza.
E alla bambina che danza di notte
sulla litoranea nessuno ha detto
che il padre è morto.
II
A Dohuk tra gli yazidi
nel balsamo opaco del Kurdistan
non era Enea a recare in spalla
il padre claudicante
come un tulipano restaurato
tendere tre volte i palmi
contro il rossore calmo
del perielio, la sabbia rovente
dei sette deserti.
Ma un uomo con la barba fulva
che per scampare la madre
alla furia dei jihadisti
l’ha uccisa col fucile.
III
Un quintale sbatacchiato qua e là
nello spazio parentale,
i gerani sulla brocca quando sembra
scemare l’intaglio dell’estate.
Mio cugino è un botanico freddo che rappezza
rabbercia sorveglia il corpo
fiorente di grumi, pozze ricomposte
dalle tubature sanguigne, oleandri lanceolati.
Con la siringa innesca la bomba d’ossigeno
per la pianta enorme,
le sue storie inossidabili.
Non temere, novello Linneo, alla fine del lavoro
quando tuo padre sarà screziato
di polline eterno
potrai finalmente mettere gli occhi
nel calice della fioritura.
IV
Dove andremo adesso che l’idea è alla deriva?
Qui ai primi freddi le domande capziose
rinsaccano nelle trasparenze,
le crisalidi di ciò che abbiamo perso.
Qualcosa sta marcendo: una generazione
sfortunata, evaporata a battito di ciglia
dal governo dei padri
si erge nello stolido focolaio interattivo
di Adami ed Eve, reciproci guastafeste.
Lo stadio gassoso, la falla minerale
è condizione ultima.
Non abbiamo un posto per vivere.
V
Nessun cambiamento, dunque.
Solo la canocchia in nuce sul prato
polveroso, un tozzo fucile
gira innocente dai muri sbrecciati
del lido ai tappeti cocenti.
Nessuno gli bada se è fermo, vivido.
È il punteruolo rosso, uccide le palme.
VI
I palmi delle mani salutavano
lo zio — tuo padre — sotterrato.
La macchina demolitrice era andata,
al solito, a fondo e poi sopra sulle scandole
di lacrime e satire
già moltiplicate in semini
dalle mie tasche goffe.
Al funerale eri vestita con la consueta sicurtà.
Ti suggerii di sbieco che il vino era poco
per quel sonno così lungo.
Si era detto che ogni giorno
gliene avremmo portato dell’altro assieme alle sigarette.
A quelle strane parole
i semini erano prodigiosamente propagati.
Dalle tasche benedette saltò via
una rampicante fino al cielo.
VII
...iscrivi che qui e in questo è perfetta letizia.
Il Padre Celeste si abbarbica alle inferriate.
L’estate è uno scrigno luminescente
aperto, un bottone
che sfugge ignaro dall’asola
a rompicollo.
Ora il letto mi accoglie nuovamente
nei suoi arabeschi e le inventive
di tempi desiderati
incolonnati in microchip
come vedova nera e leopardo.
Un gufo stride, la provinciale si alliscia
allo sfrecciare del bolide radente,
da capo a piede la pressione si allenta
per lasciare finalmente il posto
alla perfetta letizia.
da Basso Impero (Raffaelli 2016)
...Un due hop, un due hop
sono i saltellii di signor merlo, turdus
che balza dalla parola alle ghiande dure, a due zampe
elegante, fragrante d’erba, la gola striata
fino all’Europa
il becco arancione come i selciati e l’Asia.
Merula. Non si lascia accarezzare nel latino piumato
del suo nome, disdegna, non vuole
avvicinarsi silenziosamente al nero dell’essere indifeso
lasciarsi prendere il corpicino tondo a mani basse
in un impero di tenerezza
tra le remiganti e le caudali.
Non vuole trascorrere il suo tempo
con il mio tempo. È impegnato a girare profeticamente
il collo verso gli stimoli. Non è, non vuole essere.
Pensa a non pensare, permane nell’animalità fissa.
Non conosce il piacere di essere merlo.
Ma quando il creato sarà diverso
lontano da spazio e separazione perdurante,
ci guarderemo negli occhi, alla stessa ora
specchiati come increspature del lago
proprio nel punto in cui eravamo sorpresi e soli
prenderò il suo posto, sino alla sua anima
saremo e non saremo amici
e tutto questo sarà indifferente.
Fuorché la scioltezza del suo fischio.
da Basso Impero (Raffaelli 2016)
Guardo il tuo ritratto al Prado,
il cielo qui nelle Marche è una striatura
specchiata nei gomiti crudi d’asfalto.
Ho addosso una medaglia più aspra
nel prato, una pelle più eversiva
di quando ero bambino.
Seguo con lo zaino a tracolla
(dodici versi per dodici stelle)
i segni flebili d’aurora su Urbino,
finché nell’orto non afferro la rosa
indovinata,
aramaico della tua innocenza.
da Basso Impero (Raffaelli 2016)
Talvolta viene a trovarmi la tua assenza.
Allora, in visibilio, apparecchio
con precisione che esige devozione
e già la tavola brilla di posate all’ora esatta.
Una piatta ripulita mi do e dal bagno sento
l’orlo distorcersi la crepa discreparsi
ciò che non ha corpo farsi carne —
ecco, bussa alla soglia di anni e anni persi
il tuo non esserci che mi vive.
Non c’è la donna della mia vita
ed è tenace negazione che diventa
eventualità, dono del possibile
eppure ostinazione del diniego che amo
per un dopocena nell’incavo
del non conosciuto, delusa ricaduta in sé
in vista di una più ospitale uscita dal me
che ancora non è
ancora per poco, incontro di te.
da Basso Impero (Raffaelli 2017)
Trovo bellissimo passeggiare di sera
con te, quando non ci sei
e le chiome dei lecci sembrano correre
in un inchino a spettacolo del giorno finito,
dopo i calorosi applausi del vento.
C’è sempre una distanza che ci distoglie
dall’essere solo noi.
Da questo sono preso e resto perplesso
mentre il tuo viso interrogativo elude
altro punto di sguardo, voltando la ciocca di capelli
verso il mare tempestoso degli esami della vita
che vivremo e non vivremo insieme
aspettando la stella o il giorno giusto
in cui il solo noi sarà davvero tratto in salvo.
Inedito